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Joey Baron: Just Say Yes!

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Articolo di Sean Patrick Fitzell

Joey Baron suona la batteria con esuberanza giocosa, combinando la maestria tecnica con un profondo senso del ritmo. Nel corso dei suoi 35 anni di carriera, ha dato la carica a sperimentatori come il chitarrista Bill Frisell e il sassofonista John Zorn, così come a musicisti più tradizionali come la cantante Carmen McRae e il sassofonista David Sanborn. Ha anche suonato con pop star come David Bowie e Marianne Faithfull. Ma Baron non si fa problemi con i diversi generi, e ha una visione della musica ad ampio spettro.

Dopo essere stato il leader dei Barondown, dei Down Home, e dei Killer Joey, si sta ora dedicando alle percussioni da solo o in duo o trio. Nel Dicembre 2009 si è esibito al Roulette, uno dei tempi della sperimentazione newyorchese, in una performance nella quale ha espresso al meglio le sue doti di solista.

All About Jazz: Cominciamo con una domanda semplice: hai detto che nelle ultime settimane eri in "modalità globetrotter"; dove sei stato, e cosa hai fatto?

Joey Baron: Ho appena finito un tour con i Killer Joey, la mia banda composta da Steve Cardenas e Brad Shepik alle chitarre e Tony Scherr al basso. Siamo stati in Ungheria, Austria, Svizzera, Italia, Corazia e Polonia.

AAJ: E questo in quanto tempo?

JB: Una concerto al giorno. In totale siamo stati in sette paesi diversi. Poi son volato qui a New York e rimarrò per una settimana, poi Lunedì andrò a Milano per un concerto con il Masada Quintet. Doveva esserci il sassofonista Joe Lovano ma non so cosa sia successo, e Chris Potter prenderà il suo posto.

Vado a Milano; e poi farò un concerto con un grande sassofonista, Julian Siegel. Abbiamo un trio con il bassista Greg Cohen e suoniamo al London Jazz Festival. E un paio di giorni dopo suonerò con Bill Frisell e la BBC Orchestra diretta da Mike Gibbs. E subito dopo sarò in tour per l'Europa con il quartetto di John Abercrombie: questa volta saremo insieme a Drew Gress al contrabbasso ed al violinista Mark Feldman. Sono un globetrotter, davvero. A me sembra una cosa normale, ma mi rendo conto che per molti sarebbe troppo.

AAJ: È un pò che vai avanti così?

JB: Sai, va a momenti. Per un pò è tutto tranquillo, poi all'improvviso sei sommerso di impegni. Ci sono periodi nei quali speri che ti chiamino, e poi ti chiamano tutti insieme per la stessa settimana. Non so perché succeda, ma è così.

Mi tengo abbastanza impegnato con molte cose differenti. In Primavera e in Estate mi hanno coinvolto in alcune performance. Una di queste in particolare è stata forse una delle cose più appaganti che io abbia mai fatto. Si è tenuta a Ingolstadt, in Germania, organizzata dalla percussionista Robyn Schulkowsky. Ha messo in piedi una rappresentazione della storia di Antigone lavorando con bambini senza alcuna esperienza musicale, né di recitazione, e l'intera storia veniva raccontata solo con percussioni e gesti. Si è trattato di una rappresentazione teatrale fatta da 60 bambini, e lei praticamente ha spiegato loro come suonare quei ritmi con strumenti di fortuna—barili, lattine dell'olio, roba simile. Ed ha chiamato me e Kenny Wollesen per aiutarla nell'impresa. È stata un'esperienza incredibile, vedere come questi bambini siano stati all'altezza della situazione.

AAJ: Beh, invitarvi deve essere stata una scelta naturale, credo. Kenny suona un pò di tutto, no?

JB: Sì, è davvero unico.

AAJ: In effetti ti ho visto suonare una sedia in uno di quei Tonic workshops una decina di anni fa.

JB: Ah, sì, vero.

AAJ: Trovi difficile destreggiarti con tutte queste cose, o ormai ti viene naturale?

JB: Beh, è quello che faccio. Quanche volta è faticoso conciliare tutto e organizzarsi, e qualche volta le cose si sistemano, ma ogni volta in modo diverso. Capita sempre qualcosa che scombussola i piani.

AAJ: Ti è difficile conciliare progetti così diversi: per dire, lavorare un giorno con Zorn Moonchild e il giorno dopo con il chitarrista Jim Hall?

JB: In realtà no. È quello che ho sempre sognato. Uno dei miei tanti miti era il batterista Grady Tate e mi affascinava il modo in cui riesce a suonare in situazioni così diverse tra loro. Non mi sono sforzato per farlo; ad un certo punto mi sono detto, beh, è quello che faccio. Quando capita, lo fai e basta. Se avevi imparato a suonare uno strumento e qualcuno ti chiedeva di suonare, rispondevi di sì. Non importava per cosa fosse; lo imparavi sul campo. Questa era l'atmosfera nella quale sono cresciuto. Non mi ponevo problemi del tipo: "Beh, suonerò solo se si tratta di Jazz." Non avevo quella attitudine. Era il mio background, così per me fare queste cose è assolutamente normale. Mi dico: beh, è così, no? E in pratica il discorso è lo stesso che si tratti di John Zorn o di Jim Hall: con chiunque si lavori, si cerca di fare ciò che vogliono sentire. Ed è lo stesso, solo usano diversi strumenti e diversi linguaggi, ma non è un problema.

AAJ: Nella tua carriera, è capitato abbastanza spesso che ti dedicassi ora al mainstream, ora ad altri generi musicali.

JB: Ed è proprio strano che ciò importi così tanto alla gente. Non voglio minimizzare; voglio dire, capisco che siano ambiti estremamente diversi. Ma dal mio punto di vista, so come avvicinarmi al linguaggio che John Zorn cerca, capisco cosa vuole, capisco cosa Jim Hall vuole. E mi piacciono sia come artisti che come persone. Cito loro due, ma ho lo stesso atteggiamento con chiunque mi trovi a lavorare. Rispetto quel che fanno. Altrimenti, ci lavorerei.

AAJ: Suoni con entrambi ormai da più di 20 anni.

JB: Sì, è un sacco di tempo. Tengo moltissimo a questo tipo di rapporti duraturi. Capita di non lavorare insieme per un sacco di tempo, poi i destini si incrociano di nuovo ed è molto interessante perché anche se si cambia rimane quel mutuo rispetto per il linguaggio che ci unisce. Non so: è interessante che il tempo, il tempo che passa, faccia parte del gioco. Aggiunge profondità alla cosa, secondo me. E più vado avanti, più apprezzo questa profondità.

AAJ: Non sapevo lavorassi ancora con la Killer Joey Band. Non ti ho visto suonare con loro a New York: suonate ancora insieme in Europa?

JB: Prima che il Tonic chiudesse era per noi come una seconda casa. Tempo fa abbiamo suonato una settimana al Vanguard, è stato molti anni fa. Oggi il panorama è molto cambiato a New York. È tutto è così pompato, a meno che tu non sia una leggenda. Niente a che vedere con questa band. Quando chiami qualcuno chiedendogli, "Ti interessa?," e questo manco ti risponde; ad un certo punto ti sembra di elemosinare, ed è l'ultima cosa che voglio fare. Così facciamo in modo di andare dove la cosa funziona, dove possiamo funzionare, e di solito questo capita in Europa.

AAJ: Componi ancora per la band?

JB: In linea di massima mi baso su pezzi già scritti su cui aggiungo altre melodie. Ogni tanto me ne esco con qualcosa. Ultimamente mi son dedicato ad aggiungere qualche classico che avrei sempre voluto suonare ma che non riesco a suonare con altri. Fa parte dei punti di forza di quella band. Quando metto tutto insieme, lo faccio perché si possa suonare cambiando gli accordi e giocare con i classici. Così basta che qualcuno faccia riferimento ad un brano, e subito ci lavoro sopra, oppure no, e lo suono normalmente. Mi piace farlo. Mi piace modellare qualcosa di inusuale.

Non va di moda, così come non lo sono molte delle cose di cui mi occupo. Come il modo di suonare della band di Abercrombie, che non è alla moda. È un'estetica alla quale ho sempre aspirato, cioè arrivi e ti metti a suonare: che vuol dire che ascolti e rispondi, reagisci, dai e prendi. È buffo, pare non essere una priorità, oggigiorno. Sembra che la gente si preoccupi di avere un'identità e di farsi conoscere. Una mossa abile, e tecnicamente notevole, ma come profondità non ci siamo proprio.

AAJ: Una volta hai detto una cosa che mi ha colpito: che chi ascolta la tua musica dovrebbe entrare in sintonia con essa, senza star tanto a guardarne la tecnica.

JB: Non dico che debba essere per forza così per tutti, ma per me è importante. È nelle mie corde, ed è ciò che mi ha avvicinato alla musica. Mi fa sentire qualcosa, mi rende desideroso di imparare come farlo e come farlo sentire agli altri. È uno dei motivi per cui ho cominciato a suonare. È un'attitudine che tento di mantenere in ogni cosa che faccio. Non mi interessa che gli altri sappiano che sono io. Se faccio quel che mi sono prefissato, faranno delle domande. Ma la cosa importante è che chi ascolta possa ricevere qualcosa che nasce dalla musica, che forse può far cambiare qualcosa o fargli pensare qualcosa. Qualcosa di positivo, spero. Oppure possono chiedere, far delle domande. Non è semplice intrattenimento.

Molto tempo fa ho preso una decisione— sono un musicista, e quando suoni giocoforza ti esibisci, e non ho problemi a farlo seduto alla mia batteria— ma quell'estetica in musica non ha niente a che fare con lo show business. Non mi interessa, è troppo superficiale. Fa parte del gioco, beninteso. Ma a me interessa solo che la gente ascolti, sia interessata e magari provi qualcosa che deriva dalla musica e dall'impegno che ci metto nel suonarla, nel comporla—questo mi importa quando faccio musica. È una cosa seria, ed è sempre diversa. Anche se suoni gli stessi brani ogni sera, cambia sempre qualcosa.

E quando capita, qualunque sia la musica, l'artista deve assecondare quel che accade, non può intrappolarlo. Questa è l'estetica... e ne vedo poca, in giro. Sono cresciuto ascoltando Abercrombie, Keith Jarrett, e la Miles Davis Band. Quella era estetica: è ciò che fai quando davvero ci metti l'anima. È buffo, oggi tutto è nelle mani del marketing. E se non fai parte del carrozzone, sei fuori. Ecco come vanno le cose oggi.

AAJ: Il che è un vero peccato, perché così tanti buoni progetti falliscono e tanta buona musica viene realizzata e suonata ma non la sente nessuno per queste ragioni.

JB: Sai, penso che suonare dal vivo sia molto importante. Ho imparato molto ascoltando dischi perché non sono cresciuto in una grande metropoli. Sono cresciuto a Richmond, Virginia. Ho imparato guardando gli altri suonare, gente del posto, e per me è stato fondamentale. Non mi importava che fossero dei grandi del Jazz, bastava che suonassero. Persone di cui nessuno ha mai sentito parlare, ma che sono stati fondamentali per la mia crescita artistica, persone che potevo vedere e sentire, sentire dal vivo. Credo sia molto importante far capire agli altri che è un modello da imitare. Piuttosto che prendere lezioni, incoraggio le persone ad andare a sentir suonare, che è il modo migliore per imparare. Non è facile per nessuno, e anche i grandi hanno le loro difficoltà, e se stai imparando la musica, o imparando a suonare, è utile rendersi conto che la realtà non è mai perfetta. Qualche volta lo è, e quando capita è fantastico [ride].

AAJ: Da un paio d'anni ormai, ti sei focalizzato principalmente sulle percussioni. Cosa ti ha spinto in quella direzione?

JB: Ho conosciuto Robyn Schulkowsky, che è una musicista incredibile e una percussionista eccezionale. Ho suonato con lei a Potsdam, appena fuori Berlino, e non mi era mai capitata un'esperienza simile. Il palco era al completo: qualcuno suonava usando un laptop: c'erano tre percussionisti classici; e Fredy Studer, che è più un tipo Rock, Jazz/Rock e un improvvisatore; e Robyn, che suona la batteria ed ogni sorta di strumento autocostruito; ed io. È stata una performance incredibile, ed erano coinvolti anche 30 pattinatori, ed era all'aperto—quel genere di evento che da noi non capita e che mi ha davvero aperto gli occhi.

Poi fui invitato a far parte di questo trio di Robyn e Fredy. Stavano lavorando ad un pezzo che Robyn aveva composto per tre soli percussionisti. Era qualcosa su cui stava lavorando da 20 anni, e lo aveva eseguito con diversi trio, dove lei e Fredy erano comunque sempre presenti. Cominciai a lavorarci e pensai, "Fammi vedere la musica e la eseguo." La sentivo mia. Poi all'improvviso, mi resi conto, dopo circa un anno—ci stavamo esibendo in Brasile—mi resi conto, "Wow," non si tratta di eseguire il pezzo, niente di tutto ciò. Era qualcosa di unico, mai provato prima. E ora, dopo molti anni, l'abbiamo eseguita di nuovo l'anno scorso a Bonn, al festival delle percussioni—è stata una performance incredibile—e a Dicembre la registreremo. Questa fu la mia esperienza con Robyn. Principalmente si dedica ad assoli con le percussioni, ma suona anche con orchestre, non solo locali, ma anche la Filarmonica di Berlino, l'Orchestra di Göteborg e altre in giro per il mondo. Lavorare con lei mi ha davvero fatto pensare alle cose in maniera differente. Oltretutto, non stavo facendo granchè con il mio gruppo, a parte una piccola tournée ogni anno e mezzo. Così ho iniziato ad avvicinarmi a progetti come quello.

AAJ: Ho visto l'installazione che voi due avete fatto alla Grand Central Station [di New York].

JB: Ah, ci sei stato?

AAJ: Un paio di volte; l'ho vista con Brad Shepik e Dave Douglas: notevoli, quei tamburi giganti.

JB: Non è facile spiegare alla gente cosa fosse, ed ero molto seccato perché l'evento non era stato pubblicizzato per niente, o perché non era "Jazz" o perché non era sponsorizzato da qualche casa discografica. È stato un evento notevole: concerti gratis, due al giorno, per qualcosa come due settimane e mezzo e neanche un trafiletto sui giornali locali. Avevamo messo insieme un gruppo di prim'ordine: sia io che Robyn che chiunque altro abbiamo lavorato giorno e notte per organizzarlo.

Mi occupavo dei concerti e avere Bob Stewart che eseguiva un assolo di tuba nel bel mezzo della Grand Central Station è stato semplicemente meraviglioso. Io e Robyn lo abbiamo accompagnato in un paio di brani, ma per la maggior parte ha suonato da solo. Alla fine mi ha abbracciato e mi ha detto "grazie, nessuno mi aveva mai chiesto di fare una cosa simile." E questo è da pazzi. In questa città che si crede di essere così alla moda, la tuba è ancora considerata come uno strumento minore dalla rivista Down Beat. Manca una visione d'insieme: per certi versi, siamo ancora nei "secoli bui".

Come già dicevo, ci devi essere, per sperimentare quel sound. E tutto era stato creato da Robyn, tutti gli strumenti. Io ho messo insieme le persone, un ensemble che comprendeva Andrew Cyrille, Kenny Wollesen, Sadiki (un percussionista Africano che vive qui a New York), Cyro Baptista, Tyshawn Sorey, qualcuno della Marching Band di Kenny Wollesen e altri percussionisti, ed è stato grande. Quella sala era tutta una scossa ma senza elettricità, solo puro ritmo e acustica. Davvero potente.

AAJ: I tuoi assoli hanno sempre avuto una componente melodica, quindi questa musica per percussioni ne è una sorta di espansione ad un altro livello? In alcuni dei pezzi che hai suonato con Frisell nel Masada, hai mantenuto la forma e ci hai sviluppato su il tuo assolo.

JB: È esattamente quello che cerco di fare di solito. Talvolta mantengo esattamente la forma, altre volte tengo solo la forma musicale ma mi prendo delle libertà con il fraseggio, con le misure. Dipende dal momento. Ma quando suono non ci sto a pensare più di tanto, suono e basta, è così che dovrebbe essere, no? [ride]

AAJ: Il fatto di lavorare in ensemble di percussionisti o in gruppi composti da diversi strumenti a percussione, come con Kenny e Cyro, come condiziona il tuo modo di suonare e le scelte che magari fai?

JB: Quando suono con Kenny, a meno che non abbiamo deciso di dover essere esattamente all'unisono, ognuno va dove l'altro non va. Se Kenny tiene il tempo, allora io gli do un pò di colore. Se va di spazzole, allora io faccio qualcosa per esaltarlo, piuttosto che coprirlo. Il contesto nel quale suoniamo è sempre insieme a Zorn, e Zorn controlla comunque tutto ciò che accade, quindi sta tutto a lui. E se non lo fa lui, prendiamo noi l'iniziativa. Talvolta lo facciamo comunque. Ma questo è l'approccio, e vale anche con Cyro e Ikue [Mori]. Quando suoniamo con la Electric Masada siamo quattro percussionisti: Ikue, Cyro, Kenny ed io. Anche se talvolta è difficile, sto sempre con le orecchie aperte per provare ad indentificare la trama e riuscire a lasciar abbastanza spazio così da suonare come una cosa sola, piuttosto che come quattro persone che si suonano addosso. A volte non c'è tempo per un soundcheck e quando suoni con quella band ti affidi molto ai monitor, a causa del tipo di strumenti e del rumore. Le volte che non riesci a fare il soundcheck come si deve, capita che non riesci a sentire tutto ciò che dovresti, e quindi ti devi affidare all'istinto. E diventa solo una questione di esperienza [ride].

AAJ: Approfitterai del tuo show al Roulette per presentare un nuovo progetto?

JB: Beh, in pratica sarà una serata di musica con un solo ospite: io. Una serata di assoli alla batteria. Non so dirti esattamente cosa farò, lo scoprirò al momento: a seconda del pubblico, di cosa mi trasmette, a seconda del luogo e dell'atmosfera, e di come mi sentirò. Non è un tipo di esibizione che faccio spesso, è la seconda volta al Roulette. Ogni volta è differente, è una cosa molto intima. Perché quando tengo questi concerti ci son cose che ho voglia di fare, e quindi mi dico, "OK, adesso lo faccio." Ma se non mi sento di fare qualcosa, posso sempre tentare di farlo per altra via. Alla fine questi rappresentano momenti topici della mia vita nei quali, in svariati modi, guardo avanti e creo qualcosa che in quel momento mi pare significativo. Questo è quel che faccio, in due parole. Potrei anche dire, "OK, userò questo ritmo contro quell'altro." Ma onestamente non posso dirlo, la cosa non funzionerebbe.

AAJ: Certi percussionisti basano i loro assoli su pezzi da loro composti in precedenza.

JB: Anch'io ne ho qualcuno in serbo, da usare se proprio ho un blocco, ma se ritrovo il filo li lascio perdere. Sai, mi piace rischaire. È così che ho imparato, ed è questo ciò che faccio quando suono, mi baso sul contesto. Non è facile farlo di fronte al pubblico, perché in pratica sei un libro aperto. Mostri i tuoi punti deboli. Come dicevo, non è uno spettacolo. Non voglio necessariamente stupire. Magari lo faccio, ma non è il mio obiettivo. Il mio obiettivo è: se sei venuto qui stasera e c'è qualcosa che non va, magari posso farti pensare ad altro, magari anche solo per un minuto, grazie alla mia musica. Sai, dato il mondo in cui viviamo, penso che ogni tanto abbiamo tutti bisogno di qualcosa del genere. Non che io mi ritenga meglio degli altri, e quindi capace di dispensare chissà cosa: anzi, lo faccio anche per me. Non è affatto facile, specialmente il dover combattere questa attitudine vecchia e dura a morire nei confronti delle percussioni. Penso che sull'argomento si siano fatti molti passi indietro negli ultimi decenni.

AAJ: Davvero?

JB: Oh, certo. Oggi c'è troppa tecnica di mezzo, tutte queste scuole, eccetera. La tecnica ha raggiunto livelli così alti, ed è sbilanciata rispetto a quello che le persone ci possono fare. Voglio dire, va bene, padroneggio mille tecniche, e se non stai attento le usi e basta. Molti si limitano a questo: ad avere un'ottima tecnica. Punto e basta. No, non arrivano nenache a mostrarla. E non sanno neanche quel che stanno facendo. Non si rendono conto che c'è altro cui pensare oltre a suonare in sette undicesimi e farne altre suddivisioni, o qualunque altra diavoleria si inventino. Non so, non me ne capacito.

Penso che ci sia sempre stato questa idea che esistano musicisti così innamorati del loro strumento che ne rimangono intrappolati. Secondo me l'importante è fare musica, non importa che strumento suoni. E se per caso sei un batterista, allora non c'è scampo, perché chiunque ti dirà "Che vuol dire che suonerai la batteria per un'intera serata?" Capisco che così va il mondo, che oggi tutti la pensano così, che questo è il senso comune. Ma d'altra parte è possibile che ancora sia così, nel 2009? Che stiamo ancora a discuterne? È come il razzismo; non si riesce proprio a liberarsi di questo cancro che infetta il nostro Paese in modo così dilagante? Non riusciamo ad affrontarlo, e rovina tutto. Viviamo in un pazzo, pazzo mondo, ma io cerco comunque ti tirar fuori qualcosa di buono. Se qualcuno viene a sentirmi suonare, magari gli interessa, o magari sono studenti—non importa se son vecchi o giovani—forse possono farsi un'idea di che altro si può combinare con una batteria—oltre a tenere il ritmo. Credo che sia una responsabilità notevole, e adoro farlo. E credo anche che sia molto bello riuscire ad avere quell'ispirazione che ti permette di giocare sul tema, così come ci si aspetta da un sassofonista, o da un qualsiasi altro musicista. Non credi?

AAJ: C'è chi dice che proprio per questo c'è ancora molto da dire e da fare, nel campo della batteria e delle percussioni. Che c'è spazio per crescere proprio perché i recital in assolo per piano, chitarra e sax hanno già detto molto, se non tutto.

JB: Sì, la batteria ha un gran potenziale. Ma alla fine dipende dalle persone. Sono le persone ad avere quel potenziale. Se uno non è interessato, o non la pensa così e magari suona il piano, non mi importa dove suona o quanto battage hanno fatto, ma sarà una serata noiosa. E sai perché? Non perché suoni il piano, ma perché non fa musica. Ormai è un concetto così radicato, ma non è lo strumento che fa la musica; è la persona che lo suona, e la sua prospettiva. E questo aspetto viene spesso tralasciato dagli insegnanti. Quando incontro degli studenti o quando tengo dei seminari, capisco subito che nessuno li ha mai fatti riflettere su questo. Tu, tu sei la musica. Non lo strumento.

Non puoi insegnarlo, puoi solo farglielo capire. Ho letto un articolo nel quale chiedevano a Keith Jarrett che consiglio darebbe a dei giovani che studiano per diventare musicisti Jazz. Disse—non ricordo le parole esatte, ma ricordo che ero assolutamente d'accordo e che è una cosa ovvia per chiunque davvero faccia musica—un insegnante dovrebbe essere qualcuno che sappia spiegare come usare lo strumento senza farsi male e come suonare lo strumento, ma per quanto riguarda il come suonare la musica, sei da solo, e devi soltanto andare là fuori e dire "sì." (ride) Forse Jarrett non ha usato proprio queste parole, ma questo è il concetto. È notevole che una persona di quel calibro lo ammetta, e penso che sia un concetto prezioso per tutti. Ho appena tenuto un seminario con dei batteristi: li ho divisi in due gruppi e li ho fatti suonare, c'erano due batterie per farsi le ossa. E potevo chiaramente vedere quanto quel concetto fosse loro estraneo, a prescindere dalla loro età. Non so, c'è ancora molto lavoro da fare [ride].

AAJ: Ti eserciti ancora?

JB: Oh certo. È buffo, una volta il chitarrista Lenny Breau, che è un musicista incredibile, mi ha prestato un libro di Sufi Inayat Khan, nel quale l'autore descriveva la sua visione della musica. Secondo la quale non bisogna fare le prove per poi esibirsi, ma vale il contrario. Tu stai suonando, e l'esibizione stessa ne era la prova generale. Uso molto questo approccio. Quando mi esibisco, non penso alla tecnica, faccio musica e basta. Se mi viene un'idea e non riesco a metterla in pratica, cerco di non dimenticarla. E quando in seguito faccio le prove, quell'idea è qualcosa di tecnico su cui lavorare. Così è la musica a suggerirmi su cosa devo lavorare. E quando ci applico la tecnica, lo faccio con una ragione ben precisa, non tanto per fare. E quando alla fine ci riesco, diventa una cosa mia e non ci penso più. E non ci penso più neanche quando poi mi esibisco, non è che è la prima cosa che suono [ride]. No, semplicemente te ne dimentichi.

Amo suonare, quindi appena ne ho l'occasione mi esercito e mi tengo allenato. Ancora più importante, suono e basta, anche se da solo. Cerco di suonare anche con altri il più possibile, perché è così che ho sempre dato il meglio, interagendo con gli altri membri di un ensemble. È così che ho imparato, che ho imparato tutto. E quel che succedeva, dipendeva solo dalla situazione: ad esempio se qualcuno voleva un tempo veloce o uno molto lento e non ci riuscivo. Molto semplice. Ricordo di aver letto una frase di Charlie Parker che suonava pressappoco così: leggi tutti i libri possibili, e poi te li dimentichi. E questo è molto importante. Li studi a fondo e poi te ne scordi, ma puoi sempre andarli a rileggere quando ti serve. È più importante esserci con la testa e fare attenzione a quel che stai facendo [ride]. Semplice da dire, ma maledettamente difficile da mettere in pratica.

AAJ: Considerando tutta la tua produzione musicale, se dovessi consigliare cinque o sei pezzi che ti rappresentino al meglio, o dei quali vai particolarmente orgoglioso, quali sceglieresti?

JB: Non saprei, perché non mi pace il sound della mia musica una volta incisa. No mi piacciono le registrazioni, il loro sound. So che per molti è l'unico modo di avere un'occasione per ascoltare i miei pezzi, ma non è fedele. Non rende il sound della batteria. E non rende l'equilibrio della band.

Sono orgoglioso dei dischi, sette in totale, che ho fatto come leader o come solista. Vado davvero fiero del disco che ho inciso in duo con Robyn usando quegli strumenti così particolari. Lo vendono solo alla Downtown Music Gallery; si intitola Dinosaur Dances (L-M, 2003). È davvero un disco interessante, secondo me. Con noi ha collaborato uno dei migliori ingegneri del suono al mondo, il Norvegese Jan Erik Kongshaug, e ha fatto veramente un ottimo lavoro. Dal punto di vista della fedeltà del suono, è il miglior disco che io abbia mai sentito: suonavamo tamburi di vera pelle, pelle di vitello, poi c'erano gli strumenti installati alla Grand Central Station, e altri strumenti in metallo. E poi le composizioni, molto articolate. Proprio una registrazione interessante, della quale vado molto fiero: ma che quasi nessuno ha mai ascoltato.

Voglio anche ricordare i pezzi eseguiti con i Barondown, e anche i due dischi registrati con la band Down Home con il sassofonista Arthur Blythe, con Ron Carter e Bill Frisell. In particolar modo, per l'atmosfera che li permeava; ci tenevo a farli, e sentivo di poterci riuscire. Non che volessi fare chissà quale assolo, e magari chi se li aspettava è rimasto deluso. Ma volevo avere una band, e per me quei dischi sono il degno risultato del lavoro di una band. Non volevo che si trasformasse in una jam session, nel senso di fare un pezzo di Ron Carter, poi uno di Bill, e così via. Avevo dei miei pezzi, e a prescindere da ciò che il pubblico ne pensasse, sapevo esattamente cosa volevo esprimere con essi. Ciò ha molto a che fare con il mio background, con ciò che mi ha ispirato, cioè suonare con l'anima, suonare musica dall'anima. E sono veramente fiero di alcune delle composizioni di quei dischi perché non ero affatto preparato musicalmente, quindi ho praticamente imparato a memoria e ho anche fatto un sacco di errori. Con l'aiuto degli altri, son riuscito a ottenere proprio quello che volevo sentire.

AAJ: Ricordo di aver letto un articolo dove parlavi del comporre: dicevi che sei solito suonare alla batteria e poi trasporre al piano per renderti conto della melodia.

JB: Ascolto i toni e li scrivo, mi metto al piano per sentire quanto sia vicino a quel che ho davvero udito. E se sento un'armonia, continuo a giocare con gli accordi senza sapere come chiamarli. Allora trascrivo le note e chiedo ad altri, "Cosa ti sembra?" Un pò la conosco, ma non è la mia lingua. Come alla batteria, non suono in Si bemolle settima minore. In un certo senso è questo che mi piace della batteria: posso essere più approssimativo senza perdere nulla. È importante come l'armonia e la melodia, e può anche far parte dell'armonia e della melodia. E come leader, ho imparato anche come sia importante essere un turnista, un buon turnista. In un certo senso, questo significa essere un leader, e non è semplice. Molti non pensano che devono supportare chi sta tentando di suonare la sua musica. Tutti i musicisti che hanno fatto parte delle mie band—che si tratti di Brad, Tony, e Steve o Ron, Arthur, e Bill, o il sassofonista Ellery Eskelin, o Steve Swell and Josh Roseman—mi hanno sempre supportato efficacemente, e per un leader ciò vuol dire molto. È un circolo virtuoso, perché è così che prendi il giusto ritmo, che poi loro seguiranno.

Ultimamente, faccio in modo di non cercare per forza un nuovo progetto. Sono sicuro che qualcosa capiterà comunque. Mi limito ad essere pronto e intanto mi tengo impegnato partecipando a progetti altrui. L'ultimo disco che ho inciso con Steve Kuhn, Joe Lovano e con il contrabbassista David Finck, che si intitola Mostly Coltrane (ECM, 2009), è un gran bel disco. È appena uscito, e il mio brano preferito è "I Want to Talk About You," una ballad e Steve suona davvero alla grande! Non voglio dire che anche io ho suonato alla grande, ma ero parte di qualcosa di grande, e lui ha suonato in modo fantastico. È uno di quei pezzi che quando li ascolti pensi: è così bello che avrei voluto suonarci anch'io.

AAJ: Riesci ad ascoltare un tuo disco? Molti musicisti non ci riescono, perché sentono solo i propri errori o si concentrano solo su certi aspetti.

JB: È difficile, perché in effetti noto soprattutto gli errori, e come già dicevo il sound non mi soddisfa per niente. Non mi piace più. Ma se lavoro su qualcosa, non è questione di piacere o no. Ci sto lavorando, e se posso far meglio, lo ascolto per migliorarmi. Non sono ancora soddisfatto pienamente del mio modo di suonare, e ci sto ancora lavorando. Per fortuna mi piace quel che faccio, quindi in realtà il lavoro non mi pesa. Ma certe volte ti riascolti e senti solo cose che vorresti che altri stessero facendo. Ma poi senti qualcosa che non è poi così male, che è OK. Penso sia importante godere di queste piccole vittorie quando capitano, perché capitano. Inutile fare i falsi modesti, è una cosa pessima nella quale non credo. Se credi di aver fatto una buona cosa, allora è giusto riconoscerlo. Anche se non è qualcosa che faccio spesso; mi interessa di più capire come migliorare.

AAJ: Direi che la maggior parte delle volte che ti ho sentito suonare ci sono stati dei momenti notevoli, molti più di quelli no [ride].

JB: Grazie, mi fa piacere [ride].

Discografia Selezionata

Steve Kuhn, Mostly Coltrane (ECM, 2009)

John Abercrombie Quartet, Wait Till You See Her (ECM, 2009)

Enrico Pieranunzi - Marc Johnson - Joey Baron, Live in Japan (Cam Jazz, 2007)

John Zorn/Masada, Live at Tonic: 2001 (Tzadik, 2001)

Joey Baron, We'll Soon Find Out (Intuition, 2000)

Miniature, I Can't Put My Finger on It (JMT/W&W, 1991/2003)

Bill Frisell - Kermit Driscoll - Joey Baron, Live (Gramavision, 1995)

Joey Baron's Barondown, RAIsed Pleasuredot (New World Records, 1994)

Foto di Claudio Casanova

Traduzione di Stefano Commodaro

Articolo riprodotto per gentile concessione di All About Jazz USA

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