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Intervista ad Afel Bocoum, griot dei nostri giorni.
ByPer troppo tempo l’Africa ha affidato ad altri la risoluzione dei suoi problemi. E’ ora di ascoltarci l’un l’altro, di prendere noi stessi l’iniziativa, di decidere e scegliere noi stessi la soluzione!
Acqua e sabbia, un binomio tanto caro alla nostra immaginazione estiva ma assai meno idilliaco in questi ultimi anni per le popolazioni che vivono ai bordi del grande Niger, un fiume che attraversa l’Africa Occidentale per 2500 miglia e sulle cui rive sono fiorite storiche civiltà e sontuosi imperi. Gli stessi luoghi ove oggi intere popolazioni di contadini, pescatori e nomadi affrontano la sopravvivenza sotto l’implacabile avanzata dell’aridità del deserto.
Proprio il grande fiume è il protagonista di Niger il nuovo disco di Afel Bocoum, incontrato in occasione del concerto torinese organizzato da Musica 90.
“Nel disco si parla di un’emergenza mondiale, quella del fiume Niger che si insabbia ogni giorno di più, che patisce la cronica mancanza di pioggia, che è sempre meno navigabile, che minaccia di scomparire mettendo a repentaglio la vita dell’intera regione. Tuttavia, la gente non si rende conto di quanto questo pericolo sia concreto e reale. Senza il fiume non si parlerebbe mai di Niafunké ed io ho scelto l’occasione di un nuovo disco per parlare di lui.”
Afel Bocoum musicista impegnato, che trae ispirazione dal Grande Fiume, che parla alla sua gente misurandosi con i piccoli e grandi problemi della quotidianità? In linea generale, ogni musicista africano lo è, se non altro in ossequio alla tradizione dei griot e del valore assegnato alla musica in quella immensa nazione.
“Mi ritengo un messaggero e con la musica porto questi e altri argomenti tra la mia gente, la spingo ad occuparsene, perché nel Mali, soprattutto al Nord dove il 70% della popolazione è analfabeta, dove non esistono giornali, cinema, televisione, la musica ha essenzialmente questo scopo. A Bamako tutto succede, è ormai un crocevia internazionale, ne ho coscienza soprattutto come musicista ma il resto della nazione resta lontano da Bamako. Per questo ho deciso di rimanere al mio paese, tra la mia gente”.
Un impegno costante, alimentato dalla sua professione di docente in agraria che lo porta ad insegnare come ottenere il meglio da una terra poverissima (nella classifica mondiale, il Mali è tra i cinque paesi più poveri) ma anche ad educare le coscienze di chi ha deciso di restare nonostante le avversità climatiche, la povertà, l’isolamento, le guerre intestine che insanguinano in nome di antiche rivalità etniche come la ribellione Tuareg del 1996.
A chi scrive non pare vero poter chiedere qual è l’opinione di un africano su questioni come l’effetto serra o il Protocollo di Kyoto che non è stato certo pensato per aiutare l’Africa. Non lo conosce e dopo un’ardua spiegazione di cosa vorrei parlare, capisce.
“Non so molto al proposito, so che anche questo ha a che fare con i problemi legati al nostro fiume… l’informazione è importante, tutto quello che può far bene ai miei fratelli è buono e utile… ci si difende come si può ma… questo, è importante: per troppo tempo l’Africa ha affidato ad altri la risoluzione dei suoi problemi. E’ ora di ascoltarci l’un l’altro, di prendere noi stessi l’iniziativa, di decidere e scegliere noi stessi la soluzione!”.
Se gli ambigui effetti della globalizzazione, così come la intendono i cosiddetti paesi ricchi, non sembrano ancora sconvolgere la vita delle popolazioni africane, cosa ne pensa il musicista Afel della world music?
“La world music è la musica mondiale e va bene. Se la musica è già di per sé collaborazione, allora la world music rappresenta l’incontro, la conoscenza degli altri e la comprensione reciproca attraverso il dialogo. Ma non solo tra musicisti… ho incontrato molti buoni musicisti, come Damon Albarn, i musicisti del rajastan… anche certi americani come Bela Fleck… oggigiorno se ne incontrano di diversi e da tutti si può apprendere qualcosa, sempre però che vi sia l’interesse a farlo con spirito sincero…”.
Musicista assai rispettato ma soprattutto membro di una comunità, Afel ha improntato tutta la sua carriera di musicista e la sua esistenza a diffondere messaggi di pace, a spingere al dialogo le diverse etnie, a superare i confini culturali, a creare un’identità nazionale. I testi delle sue canzoni parlano chiaro: “se tu maltratti la tua donna, maltratti tutte le donne” (Yarabitala)… “viviamo in un mondo che non conosce il rispetto reciproco; un giorno saremo giudicati dai nostri figli” (Salam Aleikum)… “genitori, non forzate le vostre figlie a sposarsi, una casa non sarà mai serena senza vero amore” (Mali Woymoyo)…
Lo fa cantando e suonando un mix che comprende tutte le lingue (Sonrai, Tamasheq, Peul e finanche Bambarà) i ritmi e le melodie del suo paese, un atteggiamento molto naturale per lui, nato da padre di etnia Sonrai e madre di etnia Peul.
“Talvolta mi accorgo che certe idee sono espresse meglio in una certa lingua, anche perché le parole sono esse stesse musica. Altre volte mi accorgo che posso comunicare con altre persone attraverso le melodie, altre volte con i ritmi e in questo modo riesco a raggiungere un’audience più vasta. In Mali tutti ascoltano musica e la musica è un importante veicolo di informazione. Così sono cosciente della grande responsabilità nel dire il vero, perché quando canto e suono so che le persone prenderanno molto sul serio quello che dico”.
Musica dunque come strumento di comunicazione e sensibilizzazione sociale ma anche di conservazione intrinseca della tradizione musicale stessa, cui ogni africano, per quanto “globalizzato” sia, ritiene imprescindibile. Il suo eloquente stile, definito “blues del deserto”, si focalizza sull’uso di suoni rigorosamente acustici (per il suo disco d’esordio, Afel convinse il produttore a registrare in una fatiscente scuola nei dintorni di Niafunké perché pensava che portare il gruppo in uno studio oltreoceano avrebbe penalizzato la qualità della musica). Ma anche attraverso strumenti tradizionali come il njarka (sorta di violino ad una corda) il njurkel (chitarra a due corde) il potente e versatile calabash, chitarra acustica e voce raschiante, che intrecciano fluide melodie e ritmi circolari che scorrono proprio come l’acqua del Grande Fiume e incantano come l’atmosfera del deserto.
“Sento sempre parlare di blues a proposito della mia musica ma il blues è la musica africana tout court, è il dialogo del musicista col suo strumento. Io canto in lingua Sonrai, in Bambarà, in Peul, ma tutti mi capiscono perché i miei strumenti sono rigorosamente tradizionali e anche se suono la chitarra, non mi ritengo un chitarrista. La chitarra mi è utile per armonizzare ma è al canto, alla sonorità del njurkel e del djarka a cui faccio riferimento”.
Niger lo vede ancora affiancato dal suo gruppo di sempre, Alkibar (guarda caso, in lingua Sonrai significa “messaggeri del Grande Fiume”) che dopo sette anni di silenzio discografico dimostra di essere più solido che mai.
“E’ un disco al quale ho lavorato molto, nei precedenti avevo troppa fretta di registrare e non ho approfittato del talento dei miei compagni, musicisti illustri. Ho cercato di fare qualcosa di nuovo ma sempre restando all’interno del mio stile e gli arrangiamenti di Habib Koité offrono una dimensione diversa alla musica. Dopo aver composto più di trenta brani, volevo racchiudere tutto in un discorso organico. Sono io che scrivo tutti i testi ma li sperimento con i miei compagni, ne discutiamo, accolgo i loro suggerimenti musicali in modo che il messaggio sia comprensibile a tutti, che è ciò che più mi interessa. Vedi, la musica è una lotteria, se scrivo un buon pezzo che piacerà a molti diventerò famoso e con me tutti quelli che sono con me, perché hanno contribuito anche loro”.
Un concetto che non ha nulla a che fare con il desiderio, magari inconfessabile, di entrare nelle leggi del mercato se per questo disco ha abbandonato la potente World Circuit in favore dell’esordiente etichetta belga ContreJour.
“Ho bisogno di poco per essere me stesso, per vivere, ma la World Circuit ha bisogno di molto”. La sottile ironia ci rivela la reale natura di un uomo che non ha fretta di arrivare al successo, neanche dopo la discreta notorietà guadagnata in Europa in seguito alla collaborazione con Demon Albarn (Mali Music è uscito per la EMI). Ciò che gli importa non è la prolificità ma non perdere di vista i suoi obiettivi.
“Può sembrare un paradosso ma credo di poter dire di essere più famoso all’estero che in Mali… intendo al di fuori di Niafunké, perché come ti dicevo, Mali significa Bamako e basta. Ma è importante essere conosciuti all’estero perché in questo modo ho la speranza che il mio messaggio lasci un segno anche al di fuori della mia gente”.
Situata sulle rive del Niger, il villaggio di Niafunkè (che in Sonrai significa “figli della stessa madre”) ha dato i natali ad Afel ed al suo maestro Alì Farkà Touré (che ne è stato il sindaco ed il principale sprone della vita economica e sociale) e volendo credere ai segni del destino, il fatto che l’ultimo disco di Afel Bocoum sia uscito in concomitanza con la morte di “tonton Alì”, porterebbe a pensare che non ci sia prova più tangibile del tanto annunciato passaggio di consegne. Niente di più legittimo da parte di un musicista che ne ha condiviso per più di trent’anni la carriera musicale (Niger è dedicato a lui e contiene un brano composto quando il maestro era ancora in vita) ma Afel, non la pensa proprio così.
“Alì ha rappresentato l’anima della nostra cultura musicale, ha trasportato la musica del njurkel e del djarka nella chitarra moderna e l’ha trasformata in musica del cuore. Ma aveva qualcosa di particolare che neanche lui sapeva, un dono ricevuto dal cielo, un carattere ed una filosofia che nessuno può eguagliare, me compreso”. Con una tale classe, siamo certi che il futuro del Mali e della sua musica sono davvero in buone mani.
Visita il sito di Afel Bocoum e quello della Contrejour.
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