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Intervista a Joelle Léandre

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Come donna che si dedica a questo mestiere in maniera totale trovo che l’improvvisazione sia una musica strumentale, fatta cioè con il mio strumento, è una musica di musicisti, piena di rischi, umana, vertiginosa, viva.
Indice

Maestri

Improvvisazione, Composizione, Interpretazione

Musica afro-americana e musica occidentale

Derek Bailey

European Women's Improvising Group - Les Diaboliques

Sovversione e trascendenza

Maestri

Il Festival Scelsi è stata un’importante occasione per incontrare Joelle Léandre. Inevitabilmente cominciamo a parlare di Giacinto Scelsi che per la contrabbassista francese è stato un maestro, insieme a Derek Bailey e John Cage.

All About Jazz Italia: È casuale che Scelsi parlasse di suono rotondo e che abbia scelto poche (non più di dieci) interpreti femminili?

Joelle Léandre: Negli ultimi anni sono state davvero poche le compagne di strada di cui ha voluto circondarsi. Noi che suoneremo domani [N.d.R.: la clarinettista Carol Robinson, il soprano Pauline Vaillancourt, la pianista Marianne Schoeder e la violoncellista Frances-Marie Uitti] eravamo tutte in stretto rapporto d’amicizia con Giacinto e abbiamo passato diverso tempo a lavorare con lui sulle sue composizioni.

Sono molti, e ancora vivi, i segni del vissuto nella casa di Via San Teodoro. Schegge di vissuto, ricordi, frammenti di vita quotidiana travolgono il parlare della Léandre e inevitabilmente si sovrappongo alle esperienze, più astratte e incorporee, dell’ascolto. Ritorna su conversazioni, episodi, dettagli e silenzi che delineano una figura molto umana, senz’altro meno eterea e sublimata di quanto si vorrebbe far credere fosse. La Léandre ricorda il primo incontro con Scelsi...

J.L.: Negli Stati Uniti, a Buffalo, un amico pianista mi parlò di Scelsi e mi fece ascoltare delle sue composizioni. Avevamo anche suonato Okhanagon per gong, arpa e contrabbasso, una delle sue composizioni più complesse. Fu così che una volta che mi trovai in Italia, a Roma, gli telefonai e lui mi disse: “Cosa fai, perché non vieni a trovarmi? Ti aspetto!”. Da quell’incontro nacque un’amicizia durata fino alla sua morte.

AAJ: La firma di Scelsi, una linea orizzontale sormontata da un cerchio, era un segno solo grafico o anche musicale?

J.L.: Come diceva Scelsi “il suono sferico, il cerchio, esprime l’infinito”. Un solo suono pulsa, ha una sua vita e una sua morte, ed è molto profondo. Suonando bisogna toccare l’anima del suono. Un aspetto essenziale dell’attività di Scelsi è stato il lavoro che ha fatto sulle sue partiture con noi interpreti ed effettivamente sono stati pochissimi (e di preferenza donne) coloro che hanno potuto studiare di persona con lui la sua musica, tra gli altri penso a Michiko Hirajama, Frances-Marie Uitti, Enzo Porta, Geneviève Renon, Carol Robinson, Marianne Schroeder e Stefano Scodanibbio. Tutti noi siamo diventati suoi amici e a tutti è capitato di trascorrere anche lunghi periodi a casa sua per studiare le partiture e per rifinire i dettagli sulle esecuzioni. Domani sera interpreterò Makhnongam (1976) e Mantram (1986), due pezzi molto complessi. Ricordo che quando studiai Makhnongam, Scelsi insistette moltissimo sul fatto che dovessi arrivare ad ottenere un grido che, secondo le sue stesse parole, doveva “provenire d’altrove”. Un giorno, mentre provavo, improvvisamente mi strinse forte il braccio e disse: “È questo!”, avevo trovato quel suono, quel suono che secondo Scelsi doveva arrivare d’altrove, quasi da un altro mondo!

AAJ: E John Cage?

J.L.: Anche John Cage è stata una figura molto importante per me perché mi ha fatto ascoltare il mondo attorno a me. “Lasciate che i suoni siano ciò che sono”, mi diceva sempre. Mi ha aperto ad un infinità di possibili che ancora oggi continuo a esplorare. La sua lezione è andata oltre ed è arrivata direttamente al centro, al cuore, al nocciolo, all’essenza. Ritorna all'indice...

Improvvisazione, composizione e interpretazione

AAJ: Come vedi la situazione del jazz a livello internazionale?

J.L.: Tieni conto che ci sono sempre meno festival, meno posti dove trovarsi a suonare, ma anche meno riviste e spazi in cui discutere, e in giro ci sono ottimi musicisti che cercano di vivere facendo musica. È complicato voglio dire, forse è anche una questione di linguaggio del musicista. Il mio linguaggio, ad esempio, il mio repertorio, il mio stesso vocabolario è cambiato attraverso le esperienze che ho fatto nel corso degli anni. Per alcuni aspetti sento di essere diventata più melodista di quanto non lo fossi in passato. Negli anni Settanta e gli anni Ottanta ero molto provocatrice: mettevo degli oggetti nelle corde del contrabbasso, facevo dei rumori, picchiavo sulla cassa del mio strumento. Se vuoi era un modo per vivere fino in fondo l’età che avevo. Ora mi allontano da quelle gestualità e mi sento più vicina ad un’idea di melodia. Ho voglia di raccontarmi: il che non è un’essenza, ma un mezzo.

AAJ: Cosa pensi dell’improvvisazione?

J.L.: Vivere e avere una coscienza implica prendersi delle responsabilità, significa sostanzialmente correre dei rischi. La musica che suono comporta che si debbano costantemente correre dei rischi. Per me, l’improvvisazione è un vero e proprio linguaggio ed è un’arte. L’improvvisazione è real time, è azione pura, è essere dentro l’azione in tempo reale, anche senza un obiettivo specifico. Ben diversa è la composizione, che è un’arte in tempo differito, perché ci puoi tornare a distanza di mesi, su quanto hai scritto e composto, modificandolo e cambiandolo. In linea generale, nella composizione ci sono degli obiettivi - ha un inizio, uno svolgimento e una fine. Diverso è quanto succede in ambito improvvisativo. Come donna che si dedica a questo mestiere in maniera totale trovo che l’improvvisazione sia una musica strumentale, fatta cioè con il mio strumento, è una musica di musicisti, piena di rischi, umana, vertiginosa, viva. Nell’improvvisazione è fondamentalmente l’arte dell’ascolto, poi certo anche l’arte del fare. È un modo abbastanza umile - se possiamo essere umili - di dire “Scusate, quello che sto suonando sono io”, ma, allo stesso tempo, è anche l’arte di saper accettare di dover essere umili. In questo, può metterti davanti a sconfitte e fallimenti. Ma credi forse che nella vita di tutti i giorni non ci siano delle sconfitte?! Tu pensi che uno si possa alzare al mattino sapendo perfettamente cosa farà nel corso della giornata prima di tornare a letto la sera?! È pieno di cose imponderabili! Ci sono delle esperienze che sono dei veri e propri tracolli e ti fanno sussultare, comprendere e inevitabilmente accettare quanto la vita ti mette davanti. Bisogna essere umili per accorgersi di questo.

Io mi sono specializzata in musica da camera e in generale non amo praticare l’improvvisazione nelle big band perché ci sono troppe persone e c’è troppa potenza. L’improvvisazione per me è una musica intimista, esattamente come lo è la musica da camera in trio o in quartetto. Evidentemente è importante che ci sia il piacere di fare musica insieme, senza gerarchie intendo.

AAJ: Pensi che si possa provare lo stesso piacere suonando insieme musica classica?

J.L.: Quel piacere non ha nulla a che fare con l’interpretazione. Essere interprete di partiture di musica classica significa suonare la musica di altri ed eseguire semplicemente quanto è scritto. Se esegui una bella suonata di Mozart, - magnifico! - re-interpreti Mozart e sei al servizio del pensiero e della scrittura di Mozart. Sei dietro il filtro di Mozart. Naturalmente non corri gli stessi rischi di un musicista che suona la propria musica. Domani, ad esempio, sono al servizio del pensiero di Scelsi e questo non ha nulla a che fare con la mia musica, anche se ci metterò una parte mia dentro quella musica, pur non trattandosi di pura creazione. Quando componi sei tu che decidi forme e strutture. Due anni fa, ad esempio, ho ricevuto una commissione come compositrice per un sestetto (clarinetto, trombone basso, chitarra elettrica, percussioni, contrabbasso e due voci). Si trattava di un lavoro molto diverso da quello che faccio come improvvisatrice: ho impiegato quattro mesi per scrivere la partitura. Gli interpreti, quando suonavano, interpretavano la musica di Joelle Léandre ed era chiaro che se avessimo dovuto improvvisare sarebbe stata tutta un’altra cosa.

Tornando a Scelsi bisogna dire che ha sempre lasciato una parte creativa ai suoi interpreti, così come ha fatto John Cage, d’altronde, ma in un altro modo. Io penso che la sua filosofia fosse quella di lasciare il musicista libero responsabilizzandolo. Bisogna amare tutti i suoni senza gerarchia: il pianto di un bambino, una porta che scricchiola, una toccata di Bach, un preludio in mi bemolle maggiore, un sacco che si strappa. È la società che ci ha detto che il rumore non ha valore, ma se lo metti in mezzo a due musicisti può contribuire a creare una bella musica. Questa filosofia è politica perché è la società benpensante ci pone dei limiti e delle proibizioni, stabilendo cosa è bello e cosa non lo sia. Il romanticismo ci ha rovinati e condizionati! Pathos! Pathos! Sempre pathos!

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Musica afro-americana e musica occidentale

AAJ: Quali sono per te le differenze sostanziali tra musica afro-americana e la musica occidentale?

J.L.: Sono due culture sostanzialmente diverse tra loro, se pensi che nel sedicesimo secolo noi avevamo Bach e loro avevano i tamburi con i quali ballavano e cantavano. Voglio dire, il jazz è musica popolare. I jazzisti sono persone che hanno cercato di spingere e forzare le strutture della musica. In questo è una musica molto umana, fatta da musicisti completi che possono essere insieme strumentista, improvvisatore e compositore. Al contrario, nella musica europea occidentale c’è una netta separazione tra la figura del compositore (che conosce tutto) e quella dell’esecutore (che deve assorbire tutto) e non c’è margine per l’improvvisazione. Nei secoli passati c’era forse maggior spazio per l’improvvisazione che era una componente assolutamente presente anche nella musica classica, mentre oggi è del tutto scomparsa perché abbiamo dato un potere totale al compositore e il musicista-interprete è costretto a tacere. Questo meccanismo ha creato una sorta di “malattia”: i musicisti che compongono hanno tutto nella testa e non toccano più nessun strumento, arrivando addirittura a scrivere cose che sono impossibili da realizzare! Ovviamente ci sono eccezioni. Per esempio, Olivier Messiaen era un compositore che andava tutte le domeniche nella Chiesa della Trinità a suonare l’organo ed era uno che lasciava spazio all’improvvisazione.

In generale si tendono a soffocare sempre di più gli aspetti creativi che riguardano l’attività del musicista. Io contesto il fatto che abbiano creato delle categorie e delle divisioni tra strumentisti, improvvisatori e compositori. È da quando ho otto anni che faccio musica e che eseguo pallini neri e bianchi. Non ho visto altro che nero e bianco! Chili di note da leggere ed eseguire! Sono stata dodici anni in un’orchestra sinfonica, otto anni in un’orchestra da camera, poi sono stata free-lance, dopo di che ho fatto otto o nove anni di new music. Ho sempre dovuto tacere e solo quando rientravo a casa potevo improvvisare liberamente sul mio contrabbasso.Quando studiavo in conservatorio non ascoltavo il jazz, perché nessuno mi aveva detto di ascoltare il jazz. Nel jazz si suona il contrabbasso con le dita, mentre io ho imparato a doverlo suonare solo con l’archetto. Tu credi che il mio professore avrebbe mai potuto dirmi di ascoltare i contrabbassisti del jazz e dirmi che in quella musica ha un ruolo magnifico?!

Ci sono dunque differenze enormi tra il jazz e la musica contemporanea colta occidentale e queste differenze sono senza dubbio sia politiche che culturali. Penso che ci sia stata un enorme pressione sulla figura del musicista e che si sia scelto di dare la parola solo a uno: è chiaro che gli altri sono diventati la massa. Naturalmente quell’uno non deve essere troppo cosciente, soprattutto è fondamentale che la massa non sia troppo intelligente e responsabile... Ma questo è populismo! Per questo ci vestiamo tutti più o meno allo stesso modo, dobbiamo guardare tutti le stesse cose, comprare tutti lo stesso dentifricio, perché se ci fosse originalità, se ci fossero degli individui, se ci fosse più musica improvvisata e improvvisazione, non funzionerebbe. La musica improvvisata, l’improvvisazione, il jazz è musica di individui che corrono dei rischi, che scrivono, interpretano e fanno la propria musica! Non è più questione di essere bianco o nero. Perché sono “black” mi ci si mette a fare jazz?! Questo non è il jazz! Il jazz è un’attitudine della vita! È un grido ed è certo molto politico. È l’arroganza di poter dire “Io esisto, voglio suonare e questo che suono è la mia musica!”.

Nella musica, come nella composizione, ci sono regole, che sono inestimabili, ridicole e terribili. Mi sono posta molte domande suonando e applicando queste regole. Ho analizzato molte partiture e mi sono chiesta, ad esempio, perché il contrabbasso deve suonare il registro grave quando ne possiede anche uno medio e alto, che tra l’altro si adatta e funziona molto bene. Perché questo strumento è così grosso?! Senza dubbio ci sono leggi fisio-sonore o fisio-musicali che lo rendono grave, ma perché è relegato al fondo dell’orchestra e può stare davanti?! Perché non è strumento solista come il pianoforte o il violoncello?! Perché in una partitura classica esistono leggi tanto rigide che in alto ci sono gli strumenti a fiato, poi, a scendere, i legni, gli ottoni, gli archi e solo in basso il contrabbasso?! È evidente che anche nella scrittura, come nella società, ci siano regole molto ferree. È stata la mole enorme di partiture che ho interpretato che mi ha suscitato queste riflessioni e tutto questo mi ha spinto ad agire per cambiare i ruoli del mio strumento. Devo ringraziare i jazzisti di avermi accolto nella loro grande famiglia. Queste non sono le mie radici, anche se vivo una vita simile alla loro, da jazz-woman, è sicuro. Sono sempre per strada, la maggior parte delle volte che suono lo faccio in festival jazz...

AAJ: Cosa pensi di William Parker ?

J.L.: William Parker è una figura molto importante che scrive musica, l’interpreta e la suona. È attivissimo sulla scena della musica creativa e dirige con sua moglie Patricia uno dei festival più importanti di New York di musica creativa. È leader di diverse band, realizza molti progetti, registra, gira il mondo intero, insomma è costantemente in creazione, in vibrazione.

AAJ: È difficile suonare la tua musica in festival di musica contemporanea?

J.L.: Non c’è posto nei festival di musica contemporanea per la musica che realizzo.

AAJ: Il discorso scivola sulla Biennale di quest’anno. Il tema era “la musica e il suo doppio” e sono state presentate molte opere sul teatro musicale. Le dico che sono rimasta molto colpita dall’opera di Mauricio Kagel.

J.L.: Ho lavorato con Mauricio Kagel ed è un compositore che mi piace molto. È uno degli individui più politicizzati nella musica contemporanea per il tipo di riflessione che porta da tempo avanti sull’uomo e sull’individuo. Ha partecipato alla storia della musica contemporanea, non è il solo chiaro, ma è stato senz’altro un grande protagonista. La sua musica è l’uomo. Si vede che è un intellettuale di grande cultura perché riflette sulla storia, sulla letteratura e sul cinema. D’altronde la musica non è solo musica. Quando ci si comincia a porre domande su problematiche che riguardano l’uomo, ma soprattutto sui diversi tipi di linguaggi artistici, meglio quando questi vengono messi in relazione tra loro, l’individuo - e di conseguenza anche il compositore e la sua musica - si arricchiscono. La vita è un continuo lavoro in corso. In fondo non inventiamo nulla.

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Derek Bailey

AAJ: Nei primi anni Ottanta sei entrata in contatto con alcune figure fondamentali dell’improvvisazione inglese, figure che a loro modo hanno saputo mantenere connessi questi tre aspetti dell’essere compositore, esecutore e improvvisatore. Penso a gente come Barry Guy, Derek Bailey o Evan Parker...

J.L.: Barry Guy è un compositore, esecutore e improvvisatore. Derek Bailey è un musicista creativo, che ha provato nella sua vita un grande piacere nel fare la musica con gli altri, in ogni stile immaginabile.

AAJ: Hai voglia di raccontarmi qualcosa di più su Bailey, figura tanto importante nell’improvvisazione?

J.L.: Derek Bailey è una figura fondamentale nell’improvvisazione, uno dei primi insieme al grande John Stevens in Gran Bretagna. È un individuo semplice, umile, di grande eleganza e pieno di humor. Con lui ho imparato il greenlife to be you. Ho incontrato Derek a New York nel 1982 e abbiamo suonato per due o tre giorni non-stop in un loft down-town. Da quella volta mi ha invitato spesso nelle sue Company ed abbiamo anche registrato insieme. È uno che non ha fatto mai fatto - e questo mi resterà sempre come una lezione - alcuna concessione: la sua musica è radicale. Potrei chiamarlo “l’uomo alla chitarra”, faceva della musica, e basta. [Improvvisamente Joelle Léandre si mette a cantare, poi si interrompe bruscamente, facendo un altro suono, distorto, completamente diverso...] È scontato che questi due suoni siano incompatibili, ma con Derek diventano compatibili. Tutta la società culturale e musicale ben pensante ci impedisce di vederli come conciliabili e adattabili. Hai mai pensato perché non suoniamo con dive dell’opera? O con dei musicisti pop? O con musicisti che fanno musica antica? La nostra società vuole che tutto sia nel cassetto giusto, catalogato perfettamente, perché il resto fa paura. Il che è molto conservativo.

In fondo la vita è un’intera avventura. Sono gli altri che ci dicono cosa non va bene,cosa non bisogna mangiare, cosa non bisogna mettersi. Non è bene che un individuo sia responsabile e intelligente perché una persona si mette in ascolto, ha più ha potere, può giudicare di testa propria e può decidere della propria vita. Tutto ci impedisce di esprimere le nostre preferenze, le nostre diversità. Perché si rifiuta l’individuo?! Perché si rifiuta l’improvvisazione da qualche secolo anche nei conservatori?! Al contrario bisognerebbe parlare dell’improvvisazione: è un nutrimento, è una musica del tutto naturale. Forse perché non c’è nulla di più legato all’individuo che l’improvvisazione e questo è, ancora una volta, legato al correre dei rischi e al prendersi delle responsabilità. Chiaramente l’improvvisazione è una musica rischiosa, in costante tensione. Solleva questioni molto profonde, che riguardano tecnica, sapere, ascolto dell’altro, forma, spazio e spirito. È una poetica della vita.

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European Women’s Improvising Group - Les Diaboliques

AAJ: Riguardo all’esperienza del Feminist Improvising Group (F.I.G.) cosa ricordi?

J.L.: Ormai è un’esperienza conclusa. Alla fine degli anni Settanta Lindsay Cooper, Maggie Nichols hanno creato il Feminist Improvising Group, invitando più tardi anche la pianista Irene Schweizer. Io non sono mai stata dentro FIG. Nel 1983 questo ensemble si è evoluto nell’European Women’s Improvising Group e quando l’EWIG ha suonato in Francia è stata la rivoluzione totale. Era la prima big band di sole donne!

Ci sono moltissime donne fanno improvvisazione, ma nelle loro stanze, da sole, ma è per la strada, davanti agli altri che bisogna suonare! Bisogna prendere la propria vita in mano! Qualche anno fa eravamo moltissime a fare musica in quest’ambito, se pensi che per una decina di anni ci siamo trovate e abbiamo anche fatto parecchi concerti. La maggior parte delle cose interessanti sono state realizzate al festival Canaille: International Women’s Festival of Improvised Music [si veda il CD Canaille, Intakt 002 (1986) con Maggie Nicols, Flora St. Loup, Anne Marie Roelops, Co Streiff, Mariette Rouppe Van Der Voort, Maud Sauer, Lindsay Cooper, Maartje Ten Hoorn, Elvira Plenar, Irène Schweizer, Petra Ilyes e Marilyn Mazur]. Irene è stato un membro fondatore del festival Taktlos ed è stata una delle organizzatrici dei festival Canaille. Purtroppo quelle esperienze favolose non sono durate a lungo perché l’EWIG era una big band ed era troppo caro portare in giro e ingaggiare tutta quella gente. Ciò che resta di quell’esperienza è successivamente confluito nel gruppo Les Diaboliques, fondato nei primi anni Novanta, quando Irene ed io ci siamo trovate e abbiamo deciso di coinvolgere anche Maggie Nichols. Di recente abbiamo suonato al London Festival.

AAJ: Hai registrato molto, soprattutto negli ultimi anni. Questa attività, a tratti quasi frenetica, è per lasciare un segno profondo?

J.L.: Sono convinta che noi donne interpreti e compositrici dovremmo registrare molto, per lasciare una traccia, un segno nella storia. Un giorno mentre ero in un festival in Austria e nel back stage ho incontrato Cecily Taylor che mi chiese perché ero triste. Al che gli dissi “Where are my sister? Suono sempre con degli uomini...”, e lui mi rispose “Non importa Joelle, play your shit! Vai avanti!”.

AAJ: Qual è il disco [“le bébé” li chiama la Léandre] a cui sei più affezionata?

J.L.: Mi sono piaciuti molto i primi lavori che ho registrato con il Canvas Trio [Rudiger Carl e Carlos Zingaro], L’Histoire de Mme. Tasco [Hat Art 1992] e Moments [Music and Arts 1999]: c’era una mescolanza di improvvisazione e composizione che mi piaceva molto. Sono molto affezionata al gruppo Les Diaboliques, ma anche al disco No Comment [Red Toucan 1994]. Certo i risultati sono talmente diversi tra loro... Per me, è molto importante l’ultimo doppio che è uscito, Concerto Grosso [Tonesetters/Jazz Halo 2005], senza dubbio il disco che sintetizza trent’anni di lavoro e incontri.

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Sovversione e trascendenza

AAJ: Credi ci sia posto per la sovversione in questo mondo?

J.L.: No! Non più! Il fenomeno dell’artista che anticipava la storia, le riflessioni, la politica e la vita, l’essere dirompente e che disturba, è sempre più raro. Chiaramente l’artista istituzionale è tutt’altra cosa. Oggigiorno chi è diverso viene marginalizzato. Nel mio lavoro non mi sento marginale. È molto complesso e non so se riesco a parlare nei giusti termini di questo aspetto. Mi sento piuttosto trascinata come un’ape che ha le antenne e che lavora, laddove però non ci sono più api che lavorano. I’m a bee. Non sono i miei genitori la causa di questo, ma le mie contraddizioni, la mia vita, marginale in fondo, la mia complessità. Il mio linguaggio è questo. Mi sento trascinare in un spirito di vibrazione costante. Mi sento completamente assorbita in un lavoro di riflessione enorme, leggere, vedere, viaggiare, scegliere... È vero che così ci si arricchisce, ma si è allo stesso tempo obbligati a fare un lavoro immenso. A volte mi piacerebbe che questo o quel artista mi sostenesse, “impollinasse” questo lavoro, contribuendo del suo, perché è duro essere sempre ready nella creazione. All’età che ho - posso permettermi di dirlo - ho accettato tutto quel che è venuto. È una grande conquista, penso, quella di poter fare ciò che si vuole nella vita e ciò che si ama.

Non mi dimenticherò mai quella lezione che Jean-Luc Godard diede in Tv, sono passati ormai molti anni, quando l’intervistatore gli chiese: “Sappiamo tutto sul vostro repertorio, sul lavoro marginale che avevate fatto...” A quel punto Godard, prende il microfono, interrompe l’intervistatore e dice: “Come voi sapete, sono i margini che tengono le pagine”. Una società benpensante ha bisogno di risposte come questa! È magnifica la metafora del margine...

AAJ: In qualche modo è anche angosciante quel che dici. Io, non credendo in Dio, penso che proprio per questo bisogna vivere fino in fondo tutto ciò che arriva senza mai risparmiarsi...

J.L.: Non credi in Dio?! Nemmeno nel tuo?!

AAJ: Nel mio?!

J.L.: Può darsi che tu ne abbia uno tuo.

AAJ: No! Nel Dio degli “altri” sicuramente non credo, ma nemmeno nel Dio imposto...

J.L.: Non è questione di Dio imposto, è talmente astratto, né del Dio della Chiesa. Io credo però che ci sia una forza aldilà di noi che ispira amore, che è spirito. Io credo che sia molto importante essere persone spirituali. Io sono attirata per esempio dalla trascendenza.

AAJ: Da questo punto di vista Scelsi è stata una figura molto interessante...

J.L.: Scelsi era attirato dalla trascendenza, così la chiamava lui. Ma non ha mai parlato di Dio, almeno nei dieci anni in cui l’ho frequentato io.

Domani sarà la festa di Scelsi! Prendendo il treno mi dicevo: “Ah Giacinto, sarai contento ora che hai radunato le tue donne?!”. Domani saremo tutte commosse, vedrai. Sarà dura e un po’ amara perché anche se abbiamo già suonato insieme, siamo nella sua città, gli siamo accanto. Questa è musica che ci trascende...

Desidero ringraziare Joelle Léandre e Deborah Walker per la disponibilità che hanno avuto.

Foto a colori di Stefania Errore (prime due foto) e Claudio Casanova (seconde due foto)

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