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Insegnando s’impara: intervista a Danilo Rea
ByLa mia sfida è riuscire a emozionare sempre.
All About Jazz Italia: In un'intervista di un paio di anni fa hai dichiarato: «Ho sempre sentito il bisogno di cambiare, continuamente. Il problema è che se suono troppo, come spesso accade, non ho tempo per fermarmi e riflettere su me stesso». Nel frattempo hai cambiato idea?
Danilo Rea: Credo sia importantissimo fermarsi. Basta anche una settimana per staccare. Non suonando ci si rinnova. Il problema di quando si suona tanto è che diventi vittima di ciò che sei, quindi, in un certo senso, c'è sempre il pericolo di cadere nel cliché, e questo è quanto di peggio può accadere a un musicista che improvvisa tutto. È importante saper staccare e maturare anche senza suonare.
AAJ: La maturazione del musicista quindi, avviene nei momenti di pausa?
D.R.: Nei momenti di pausa e di studio. Da un anno a questa parte, grazie a una proposta Paolo Damiani, che è il capo del Dipartimento Jazz del Conservatorio di Roma, ho accettato di insegnare nel corso di jazz e ne ho approfittato per studiare, nel senso che insegnare ti dà al tempo stesso la possibilità di approfondire gli studi.
AAJ: Vanti molte collaborazioni in più ambiti. Continui a suonare repertori distanti tra loro: da Rossini ai Beatles. C'è un anfratto stilistico che ancora non hai esplorato a dovere?
D.R.: Ho fatto veramente un po' di tutto nella mia vita e credo di aver riportato tutto nell'improvvisazione; sicuramente ci sarà qualcosa da esplorare, ma è talmente vasto l'universo musicale che non saprei. Quello che cerco di fare è seguire l'istinto. Per adesso sto più o meno suonando quasi sempre il piano solo, improvvisando su delle arie liriche. Una cosa che mi dà molte soddisfazioni, perché mi chiamano anche negli ambiti classici. Essere accettato in ambienti classici - nelle vesti di improvvisatore - è una cosa molto importante, perché unisce due aspetti che tutto sommato sono molto lontani. Poi sto lavorando sul repertorio di De André, perché mi è stato chiesto da Dori Ghezzi anni fa, e tra poco uscirà un disco su Act, per volontà del direttore artistico Sigfrid Lock che è un ammiratore dell'opera di De André ed è entusiasta di questo progetto.
AAJ: La tua formazione di tipo classico, in che modo si riflette nel jazz?
D.R.: Il pianoforte è uno strumento che nasce dalla musica classica. Le radici sono classiche, non a caso la maggior parte di noi pianisti italiani - come per esempio Pieranunzi e Battaglia - veniamo tutti dalla musica classica, quindi cerchiamo di portare ciò che abbiamo imparato nella formazione classica - il suono soprattutto, l'espressione e l'interpretazione - nel jazz.
AAJ: Suoni molto spesso con Paolo Damiani. Cosa è che vi lega?
D.R.: Io, Paolo Damiani e Roberto Gatto, andavamo a seguire Gerardo Iacoucci al corso di jazz al Conservatorio di Frosinone che aveva appena aperto, avevamo venti anni, quindi ci conosciamo da sempre. È una vecchia amicizia, una grande collaborazione. Credo che sul palco ci sia bisogno di fiducia reciproca e di amicizia. Ci vuole una certa empatia.
AAJ: Di recente Roberto Gatto ci ha raccontato dei vostri inizi con il Trio di Roma, quando di jazz in Italia bisognava andarselo a cercare con il lanternino. Ci sarà un nuovo capitolo dopo il disco dello scorso anno, 33?
D.R.: Il Trio di Roma si è già sciolto (ride, N.d.R.). Questa è stata una scelta di Roberto, la rispetto e non c'è nessun problema. Anche i Doctor 3 si sono sciolti, ma per esaurimento visto che sono passati dieci anni. Adesso sto suonando in trio con Ellade Bandini e Ares Tavolazzi.
AAJ: Suonare in trio rimane per te un aspetto fondamentale?
D.R.: Per un pianista sono importanti il piano solo e il trio. Devo dire che in questo momento ho provato grande soddisfazione anche nel duo, ma con un altro pianoforte. Ho fatto un duo con Renato Sellani, anni fa con Brad Mehldau, anche con Enrico Pieranunzi in Cina. Devo dire che il duo di pianoforte è veramente una bella disciplina, perché amplifichi la tua sensorialità, raddoppi le possibilità; è bellissimo perché senti cose che altrimenti da solo sul pianoforte non sentiresti.
AAJ: Ti abbiamo visto sul palco anche insieme a dei giovanissimi.
D.R.: Sì, suono anche con dei giovani musicisti molto bravi, come il batterista Alessandro Paternesi, che reputo come una delle grandi promesse del jazz italiano, e non solo. Credo che ci sia molto bisogno di scambi con i giovani, perché i giovani che valgono devono avere la chance di uscire. Questo è un ambiente molto difficile, dove sono in pochi a essere privilegiati. La scorsa estate, per esempio, insieme a Paolo Damiani abbiamo curato la direzione artistica del festival di Castel Gandolfo, dove abbiamo cercato di unire ai grandi nomi alcuni giovani interessanti provenienti dal Conservatorio di Santa Cecilia. Alcuni di questi studenti non hanno nulla da invidiare ai colleghi più affermati. Bisogna dare più spazio ai giovani.
AAJ: A un giovane che si avvicina allo strumento, cosa sconsiglieresti di fare?
D.R.: Non dimenticare il motivo per il quale ha cominciato a suonare. Perché a volte imparando delle cose i giovani ne rimangono vittime, e dimenticano ciò che erano in partenza. L'istinto è una cosa che va conservata nel tempo. Al di là della cultura che si accumula e che sarà la base di ciò che si diventerà. Ciò che sconsiglio è dimenticare il punto di partenza.
AAJ: Hai una sfida da vincere in ambito musicale?
D.R.: Non c'è niente da vincere, la mia sfida è riuscire a emozionare sempre. E migliorare, chiaramente, perché la musica è sempre molto più grande di noi, per cui non si arriva mai.
Foto di Claudio Casanova (la prima e la quarta), Davide Susa (la seconda e terza), Danilo Codazzi (la quinta).
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