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I Want You di Marvin Gaye: una rigogliosa foresta di simboli jazzistici.

I Want You di Marvin Gaye: una rigogliosa foresta di simboli jazzistici.

Courtesy Ernie Barnes

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L' approccio multidisciplinare della scuola storiografica Les Annales offre interessanti spunti di riflessione anche per lo studio della popular music, attraverso un'analisi incrociata di fonti musicali, etnologiche, iconografiche, letterarie, fotografiche e cinematografiche.

Grazie al visionario quadro The Sugar Shack del pittore statunitense Ernie Barnes, la copertina di I Want You è una rigogliosa foresta di simboli jazzistici intimamente connessi allo spirito, l'immaginario, l'anima della comunità afroamericana degli Stati Uniti.

Ultimo tra i capolavori di Marvin Gaye per ispirazione e qualità di arrangiamenti, I Want You riflette la massima creatività di un artista tormentato che tra il 1971 e il 1976 realizza fondamentali album del soul come What's Going On, Let's Get It On, Trouble Man.

Dalla fruizione policentrica di questo disco s'impara molto sul ruolo simbolico/catartico che riveste la tradizione culturale africana nella vita quotidiana dei ghetti neri statunitensi. In simbiosi con l'ascolto del brano "After the Dance," le pennellate africane dei ballerini rimandano alla dimensione coreutica della musica, che dall'Antichità accomunava Africa e Mediterraneo fino all'affermazione della filosofica platonica e poi della religione cristiana, con il relativo svilimento del corpo bypassato da grandi musicisti come Thelonious Monk, Cecil Taylor, Count Basie, James Brown solo per citarne alcuni.

Il jazz si è distinto per aver veicolato questa dimensione tattile e corporea dell'esperienza musicale, che accomuna tutte quelle musiche testimonianti le tracce della diaspora africana nel mondo: il tango, il soul, il funky, il blues, l'honky-tonky, il gospel, la salsa, il samba, il rap. Si è così realizzata la suprema africanizzazione del mondo, che secondo Cecil Taylor ha rivoluzionato il panorama musicale del Novecento, influenzando sia il rock e il pop, sia la musica eurocolta di Stravinskij, Milhaud, Ligeti, Villa-Lobos, Leo Brouwer. La musica da ballo evocata in questa copertina mette in atto la medesima relazione cinetica che s'instaurava tra i ballerini e le orchestre di Duke Ellington, Cab Calloway, Fletcher Henderson al Roseland Ballroom, al Cotton Club, al Savoy di New York o nei rent parties di Harlem. Grazie al libro Swingin' the Dream di Lewis A. Erenberg, sappiamo che danze popolari come il lindy hop, il charleston e il fox-trot influenzarono perfino le tecniche della composizione jazz, la cui etimologia bantu jaja significa danzare o suonare.

Le congas ipnotiche del disco rimandano quindi simbolicamente alla piramide sonora rovesciata della musica africana rispetto alla tradizione occidentale, grazie alla centralità gerarchica di timbri bassi e scuri rispetto a quelli acuti, che ad esempio caratterizza la pulsazione bassa e metronomica di "Sign O' the Times" di Prince o "Billy Jean" di Michael Jackson. Questo ipnotico e atavico richiamo sonoro pervade il romanzo Jazz di Tony Morrison, dove uno dei sei personaggi ben comprende che "quella musica che picchiava così basso aveva qualcosa a che fare con le nere e i neri che sfilavano in silenzio lungo la Quinta Strada per manifestare la loro rabbia per i 200 morti di East St.Louis, due dei quali erano sua sorella e suo cognato, ammazzati durante i tumulti."

La copertina di I Want You pone l'accento anche sulla tradizione orale insita nel processo creativo e comunicativo delle musiche afroamericane, attraverso l'interazione sinergica che dà luogo allo swing: la condivisione di un ritmo rispetto alla notazione di base fra i musicisti o tra questi e il pubblico, che reagisce alla musica battendo il piede, muovendo la testa, facendo schioccare le dita o emettendo quelle voci di empatia che contraddistinguono il minuto 1:53 di "Stella by Starlight," contenuto nel doppio CD The Complete Concert 1964 di Miles Davis . Le figure oniriche e surreali di Barnes costituiscono un inno alla cosmica essenza dell'identità africana, richiamata attraverso i gesti perturbanti del ring shout che il musicologo Samuel Floyd considera il paradigma dell'estetica jazzistica.

Era la danza in cerchio praticata nelle colonie americane dagli schiavi africani per rafforzare la loro identità etnico—culturale e che si manifestava con la pratica del call and response e dei poliritmi creati anche dal battito di mani e piedi, in forme non dissimili dal tema mingusiano "Wednesday Night Prayer Meeting" o dal film Georgia Sea Island Singers, quando viene cantato il tema gospel "Bright Star Shining in Glory."

Queste suggestioni visuali stimolarono la creatività di Gaye a comporre un affresco di rara potenza musicale che scava a fondo nella sua coscienza, nelle sue radici, nella sua storia. In primo piano un sontuoso arazzo sonoro in cui predominano vulnerabilità emotiva e maturo slancio drammatico ricco di pathos. Il fine è quello di evocare le radici celate, possenti di un mondo (l'Africa) lontano e perduto che riaffiora tra i riff funkeggianti delle chitarre e l'impostazione jazzistica di ance/ottoni.

Lo dimostrano inequivocabilmente i ballerini ritratti nella copertina, che si divertono al ritmo della musica, ma recano con sè un'aura inquietante, cupa e malinconica. Rispetto al solare clima di "The Ghetto" rappresentato da Donny Hathaway, qui la tensione emotiva del gospel è il punto di partenza di un canto angosciato, che si proietta in una luce ieratica e solenne, goduriosa e al contempo dolente. Pochi artisti come Marvin Gaye sono riusciti a trasfigurare il senso di alienazione della propria comunità attraverso un segno musicale apparentemente ludico ed erotico, per testimoniare l'invisibilità dei ghetti afroamericani ben rappresentata sul piano letterario da Uomo invisibile e Cadillac Flambé di Ralph Ellison nonché da Amatissima, Sula, Jazz di Toni Morrison.

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