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Fonterossa Day #7

Fonterossa Day #7

Courtesy Francesco Mariotti

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Fonterossa Day #7
Teatro Sant'Andrea
Pisa
16.4.2023

Settima edizione della rassegna dedicata da Pisa Jazz ai musicisti che ruotano attorno all'etichetta indipendente Fonterossa, creatura di Silvia Bolognesi, come sempre tenutasi nella suggestiva cornice del Teatro Sant'Andrea, chiesetta sconsacrata nel centro della città toscana ai bordi del Lungarno.

La lunga kermesse, iniziata alle cinque del pomeriggio e conclusasi a mezzanotte, prevedeva cinque concerti: i primi due presentavano le due più recenti uscite dell'etichetta; il terzo vedeva in scena un'inedita formazione composta da quattro dei cinque docenti del laboratorio d'improvvisazione tenutosi nei mesi precedenti nel vicino Ex-Wide, uno dei locali che ospitano i concerti di Pisa Jazz; il quarto era il trio del quinto docente del medesimo laboratorio; l'ultimo aveva per protagonista proprio Fonterossa Open Lab, l'orchestra composta dai partecipanti al laboratorio, diretta a turno da ciascuno dei docenti. Programma lungo e variegato, svoltosi in un clima di grande calore per l'insolita prossimità di pubblico e musicisti, che si alternavano tra il palco e la platea.

Il primo set era quello del trio Beast Friends, con Tobia Bondesan al sax alto, la Bolognesi al contrabbasso e Giuseppe Sardina alla batteria, formazione autrice a fine 2022 del CD Don't Shush Me, musiche originali che sono state riprese nel concerto pisano. La cifra era quella libera e irruente cara alla musicista senese, che ha fatto da pernio con il suo contrabbasso e deliziato il pubblico con alcuni assoli dal suono profondo e dalla musicalità discorsiva. Principale protagonista del set è stato comunque il contralto di Bodensan, nervoso e dagli stilemi variegati, tra i quali spiccavano momenti espressivi estremi appresi dalla scuola chicagoana. Un po' più defilato Sardina, comunque essenziale in una formazione sostanzialmente paritetica che fa delle tessiture collettive un tratto identitario della propria musica.

Ha poi fatto seguito il Momo Ensemble, quintetto capitanato dal trombettista e cantante campano Emanuele Marsico (che con la Bolognesi fa parte degli Young Shouts, formazione con all'attivo due album sempre per la medesima etichetta), protagonista dell'ultima uscita di Fonterossa: Storia di un femminiello, ispirato all'omonima figura della tradizione partenopea. Musicalmente si tratta di un progetto assai singolare, una suite nella quale canti popolari napoletani, interpretati col supporto della tammorra, ispirano e fanno da introduzione a composizioni originali di buon modern jazz, che amplia la narrazione tradizionale e la reinterpreta a proprio modo. Sul palco del Sant'Andrea— ma sul disco le cose procedono analogamente —l'apporto dato al racconto dagli interventi dei giovanissimi musicisti è stato determinante: accanto a Marsico, ovviamente protagonista tanto a canto e tammorra, quanto alla tromba, sono apparsi efficacemente espressivi il sassofonista contralto Giovanni Gambardella, che è sembrato inserire qualcosa di partenopeo nei suoi assoli, il pianista Guglielmo Santimone, estremamente vario e fantasioso negli stilemi, e il batterista Edoardo Battaglia; più di tutti ha colpito però il contrabbassista Stefano Zambon, autore di un paio di prolungati ed eccellenti assoli, privi di eccessi virtuosistici ma molto comunicativi. Buonissime notizie per il futuro della musica creativa nel nostro Paese.

Prima della pausa per una rapida cena è stata la volta dei quattro docenti del laboratorio: Marta Raviglia alla voce, Eugenio Colombo al flauto e al sax contralto, Avreeayl Ra—artista chicagoano membro della mitica AACM e già batterista dell'Arkestra di Sun Ra—e la stessa Bolognesi al contrabbasso. Il gruppo, denominato Quartetto Fonterossa #7, ha dato vita a un'improvvisazione incentrata su alcune liriche interpretate dalla cantante, che gli altri accompagnavano e commentavano con grande libertà. La centralità della voce ha invero penalizzato un po' Colombo, che ha comunque interagito in modo eccellente dedicandosi quasi esclusivamente al flauto, e soprattutto Ra, che con grande opportunità ha contenuto i suoi interventi per non sovrastare la Raviglia; gli esiti complessivi sono stati in ogni caso ottimi, coerenti e suggestivi, tanto da spingere i quattro a prolungare il concerto per le richieste del pubblico.

Al rientro dalla cena ha aperto le danze il concerto forse più spettacolare della giornata, quello del trio di Roberto Ottaviano con i fidi Giovanni Maier e Zeno De Rossi, in pratica il nucleo centrale della cangiante formazione del sassofonista barese, Eternal Love. Forti della loro rodatissima e telepatica intesa, i tre hanno dato vita a una musica densissima, basata su brani perlopiù tratti dalla più alta tradizione —Mingus, Monk, Lacy—e cesellati con una maestria che poneva i protagonisti alla pari dei miti da cui traevano ispirazione. Senza nulla togliere a Maier e De Rossi, davvero superbi, a entusiasmare gli astanti è stato soprattutto Ottaviano, che con il suo sax soprano—il solo strumento da lui impiegato- -ha fatto di tutto: ora fraseggi elaborati e rapidissimi, ora salti di ottava che esaltavano gli splendidi timbri del suo strumento, ora borbottii e suoni della voce trasposta, ora suoni tratti lavorando sull'ancia, il tutto mai con virtuosistica autoreferenzialità, bensì sempre con finalità espressive votate a esaltare i temi scelti—modo encomiabile di utilizzare in un ambito collettivo gli studi solistici sullo strumento di cui Ottaviano ha dato mostra, per esempio, nel suo recente disco Skins. Un concerto splendido, tra i migliori ascoltati ultimamente, che grazie all'intensità ha perfino tratto giovamento dalla sua relativa brevità, resa necessaria dall'incombere del concerto conclusivo.

La serata è infatti terminata con l'ingresso sul palco dei ben ventinove partecipanti ai laboratori (sassofoni, ottoni, chitarre, archi, più tastiere, batterie e voci, una fisarmonica), che hanno dato vita a quanto messo a punto nei cinque incontri svoltisi all'Ex-Wide a partire da Febbraio, diretti a turno dai docenti. Chi scrive faceva parte dell'orchestra, dopo aver partecipato da "intruso" ai laboratori (si darà conto dell'esperienza laboratoriale in un futuro articolo), per cui la sua percezione degli esiti è stata giocoforza parziale. Fatta questa premessa, l'impressione—confortata dall'ascolto successivo di una registrazione della performance—è stata tutto sommato positiva, mentre quella del pubblico è sembrata addirittura entusiastica. Il primo brano, "Lost & Found" diretto dalla Raviglia, è proceduto con una sostanziale e quieta compostezza sulla falsariga di un semplice tema che fungeva da riferimento per improvvisazioni richieste e guidate dalla conduttrice. "Calvineide," diretto da Colombo, aveva invece come punti di riferimento alcuni riff interpretati vocalmente, a sezioni, scandendo titoli di opere di Italo Calvino con cadenze ritmiche i mutamenti delle quali erano indicati dal direttore e attorno a cui venivano aperti spazi improvvisativi per singoli o per sezioni orchestrali. Senza né titolo, né tracce di alcun tipo—se non l'avvio in solo di violino —il brano diretto da Avreeayl Ra, che chiedeva solo di ascoltarsi, autodirigersi e "suonare con il cuore"; l'esito è stato forse a momenti un po' caotico e dinamicamente intenso, ma è rimasto leggibile e ha avuto momenti di forte impatto. Più articolato "Sketches of Pain" diretto da Ottaviano, il solo direttore a svolgere anche un ruolo da solista con il suo soprano: come nel caso della Raviglia, una scaletta e alcuni riff scandivano lo sviluppo di un tessuto musicale frastagliato e costellato di momenti improvvisati, comandati dal direttore. La lunghezza, l'intensità dei pur semplici temi, il loro alternato reiterarsi, l'intervento qua e là dello stesso Ottaviano e la lunghezza del brano, di circa mezz'ora, sono state la giusta apoteosi tanto della lunga giornata di musica, quanto del lavoro dei musicisti, che come detto andava avanti da due mesi. Con il pubblico che è parso apprezzare molto, tanto da richiedere a gran voce anche la prevista conduction della Bolognesi, poi tagliata per l'eccessivo protrarsi dello spettacolo (l'ultimo concerto è durato complessivamente oltre un'ora e un quarto).

Come ogni anno, il Fonterossa Day è stato dunque una bella festa per la musica improvvisata, unendo in passerella grandi e affermati artisti, giovani emergenti e musicisti che stanno iniziando ad affacciarsi sulla musica suonata, oltretutto in una cornice unica che permette loro la stretta prossimità con il pubblico. A Pisa questa festa è ormai un appuntamento fisso, sarebbe opportuno che anche in altre località del Paese se ne seguisse il virtuoso esempio.

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