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Firenze Jazz Festival 2022

Firenze Jazz Festival 2022

Courtesy Alessandro Botticelli

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Firenze Jazz Festival
Firenze
Varie sedi
6-10.9.2022

Il Firenze Jazz Festival 2022 era programmato in due parti distinte: la prima, denominata Preview, si è svolta da mercoledì 6 a sabato 10 settembre; la seconda, più articolata, la settimana successiva, da mercoledì 14 a domenica 18 settembre. Daremo qui conto di alcuni dei concerti della Preview, che per qualità non aveva niente da invidiare alla seconda parte.

Presso il bello spazio del Giardino di Villa Strozzi, giovedì 8 si sono svolti due spettacoli. Il primo, alle 19,15 nel Garden Stage vedeva in scena il quartetto della vibrafonista Yuhan Su, di origini taiwanesi ma ormai residente negli U.S.A. La giovane artista, vincitrice di molti riconoscimenti negli ultimi anni, era accompagnata da tre altrettanto giovani e valenti musicisti italiani: Simone Alessandrini al sax contralto, Ferdinando Romano al contrabbasso e Francesca Remigi alla batteria. La formazione si è prodotta in un modern jazz dinamicamente molto intenso e assai articolato, nel quale la leader interpretava il proprio strumento in modo non troppo pirotecnico e virtuosistico, quanto piuttosto con la funzione di un pianoforte, ancorché caratterizzato dai propri scintillanti timbri. Al suo fianco, centrale il sax di Alessandrini, che si scambiava con lei il ruolo di prima voce. In un contesto musicale apprezzabile, ma nel quale, tuttavia, non spiccavano né i temi, né i cambi di atmosfera e le aperture per i solisti, alla fine è stata la ritmica a brillare per l'intensità della spinta offerta—Romano—e per la suggestiva varietà di stilemi utilizzati—Remigi.

A seguire, nell'Anfiteatro della Limonaia, si è esibito il quintetto Eternal Love di Roberto Ottaviano, di fatto una delle migliori formazioni italiane degli ultimi anni. I questa occasione, il programma prevedeva quelle musiche di Charles Mingus sulle quali lo stesso Ottaviano, assieme però al solo pianista Alexander Hawkins, ha appena pubblicato un disco per Dodicilune, Charlie's Blue Skylight (clicca qui per leggere la recensione). Come nel disco, i brani del Maestro di Nogales sono stati affrontati con immediatezza, senza troppe alterazioni, revisioni o reinterpretazioni, ma lasciandosi trasportare da quanto la musica di Mingus ha donato a ciascun musicista, diventando parte della propria identità artistica. Diversamente dal disco, però, la presenza di una ritmica—Giovanni Maier al contrabbasso e Zeno De Rossi alla batteria—e di un secondo fiato—Marco Colonna ai clarinetti—ha ovviamente mutato molto le cose.

La formazione si è mossa variando spesso assetto, agendo ora in quintetto, ora in quartetto, ora perfino in duo—con Ottaviano a dialogare con Hawkins o con De Rossi—-lasciando inoltre a ciascun musicista ampi spazi solistici per introdurre i brani con libere improvvisazioni. Ciò ha un po' diminuito quel senso di forte compattezza del suono che caratterizzava i suoi precedenti dischi—appunto Eternal Love (2018) e Resonance & Rapsodies (2020)—regalando però al contempo maggiori spazi di protagonismo ai superlativi interpreti. Notevolissimi comunque anche alcuni momenti corali, nei quali spiccava in particolare l'interazione tra il sax soprano del leader, sempre lirico e fluido nei fraseggi, e i clarinetti di Colonna, viceversa espressivamente più drammatico e dalla narrazione più frammentata.

Il giorno successivo il festival si è spostato nella sua location più prestigiosa: il Giardino di Villa Bardini, un balcone dal quale lo spettacolo sul palco è coronato da quello che si può godere sulla città. In programma un doppio concerto: il solo di Antonello Salis e il quartetto di Francesco Maccianti e Stefano Cantini.

Salis ha proposto una delle sue performance fantasiose e imprevedibili, basata su un fraseggio perlopiù nervoso e percussivo, che tuttavia si apriva su brevi spazi più lirici e rilassati—che nella prima parte riprendevano a più riprese citazioni beatlesiane. Il tutto arricchito dalla "preparazione" del piano effettuata in corso d'opera, grazie all'utilizzo di una pluralità di "oggetti" tratti da una borsa con la quale l'artista s'è presentato sul palco: scatole di latta e piatti di metallo usati sulle corde per modificarne il suono, ma anche percossi con dei mestoli o direttamente con le mani, in un susseguirsi di cambi di scena e invenzioni, tambureggiamenti che avvolgono l'ascoltatore e distorsioni che, invece di disturbare, stupiscono. Senza, tuttavia, mai perdere né il senso della musicalità, né il filo di una narrazione sempre ben definita: quasi un miracolo, vista l'estemporaneità, il genere di stilemi e gli "strumenti" usati. Un miracolo che chi conosce Salis sa essere nelle sue corde, e che anche stavolta—per la gioia degli astanti—ha saputo rinnovare.

Calato il sole sulla città sottostante e salita la luna alle spalle del palcoscenico, è stata la volta di Maccianti e Cantini, che nella loro nuova formazione hanno voluto per compagni due bravissimi conterranei della generazione successiva, Gabriele Evangelista e Bernardo Guerra. Il quartetto era fresco dell'uscita di un CD, Falling Up, messo a punto nel periodo della pandemia e del quale hanno ripreso il programma: brani originali, quasi tutti di Macciati, in parte inediti e in parte riarrangiati per la formazione, perlopiù ballad ben strutturate e tematicamente azzeccate, con ampi spazi per i solisti, che anche sul disco si fanno apprezzare, grazie all'indubbia qualità degli interpreti. Quel che dal vivo ha fatto realmente la differenza, rendendo la serata davvero notevole, è stata l'intensità con cui i quattro hanno dato vita alla musica, il modo gioioso con cui interagivano: Cantini, quasi sempre al soprano di cui—come ripetiamo da quasi un quarto di secolo—è uno dei migliori interpreti a livello internazionale, ha non solo dato a ogni intervento solistico il saggio della sua lirica bravura, ma ha diretto la musica con le sue entrate e uscite, sospingendo ora l'uno ora l'altro musicista e cercando il dialogo nel corso degli assoli (esemplare il modo in cui più volte si è voltato verso la batteria di Guerra, quasi sfidandolo a competere ritmicamente); Maccianti, oggi a un livello di maturità che ne fa un pianista di primissimo livello—come dimostrato dal suo album in solo Attese (2021)—ha costantemente cucito le trame sonore, avventurandosi in assoli ora ritmico-armonici, ora più astratti e trasversali; Evangelista ha, con Guerra, dato intensità alla musica, offrendo un paio di assoli portentosi per suono e abilità esecutiva; il batterista, anch'egli autore di un solo sorprendente per varietà e discorsività, è costantemente rimasto in dialogo con gli altri, andando ben oltre il mero apporto ritmico.

Una musica se si vuole molto rispettosa della tradizione, sempre attraversata dal lirismo melodico, ma dotata di una grande potenza espressiva, grazie appunto tanto alla cura con cui viene eseguita, quanto alla palese passione nel suonarla. Elementi essenziali per la riuscita di qualunque cosa umana, figuriamoci per una musica come il jazz.

La mattina successiva, alle 11, orario inusuale per un concerto jazz, presso la prestigiosa Sala Vanni è andato in scena un nuovo omaggio a Mingus, ancora una volta con la presenza di Marco Colonna, il quale—stavolta con il suo trio, completato da Mario Cianca al contrabbasso e Cristian Lombardi alla batteria, formazione che fa parte del più ampio progetto denominato New Ethic Society—ha eseguito Portrait of Mingus as a Man, progetto già comparso mesi addietro come album su Bandcamp, ma qui proposto in forma di suite.

Poco più di mezz'ora di musica senza soluzione di continuità, che raccoglieva unitariamente alcuni dei brani di Mingus, in forma perlopiù rarefatta ma facendovi emergere punte di grande intensità, cercando di rintracciarvi e manifestare—come da titolo—l'identità dell'uomo Mingus, com'è ben noto complesso, contraddittorio, geniale quanto maledetto. Un'operazione svolta grazie all'assemblaggio di una formazione paritetica quanto è assai difficile trovare in un trio pianoless incentrato su un fiato, nella quale al contrabbasso era assegnato il compito di tenere ferme le linee tematiche dei brani—spesso raddoppiate dai clarinetti di Colonna, libero di improvvisarvi commenti—e alla batteria un importante compito coloristico, svolto lavorando su piatti, gong e altri oggetti del set.

Ne è così venuto fuori qualcosa di diversissimo da quanto ascoltato due giorni prima nel concetto di Eternal Love: un omaggio quasi liturgico, nel quale ogni suono aveva un suo valore da soppesare, apprezzatissimo dal pubblico che ha richiamato due volte gli artisti sul palco per i bis.

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