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Federica Michisanti, un preciso disegno musicale

Federica Michisanti, un preciso disegno musicale

Courtesy Annamaria Lucchetti

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Per me la scrittura è centrale, ma nei miei brani c'è molta improvvisazione, anche se mi piace organizzarla un po’ a priori, così che sia coerente e legata allo sviluppo complessivo della composizione.
Federica Michisanti, un preciso disegno musicale

Contrabbassista, bassista elettrica, compositrice e band leader romana sulla cresta dell'onda da una decina d'anni, Federica Michisanti è autrice del recente album Afternoons, registrato in quartetto con musicisti del calibro di Louis Sclavis, Vincent Courtois e Michele Rabbia, che le è giustamente valso un'impressionante cascata di premi nell'ultimo referendum annuale della rivista Musica Jazz. Noi la seguiamo puntualmente dall'uscita di Isk, quando ne predicemmo il futuro successo; siamo perciò tornati a intervistarla per parlare con lei della sua storia artistica e, in particolare, delle sue più recenti esperienze.

All About Jazz: Arrivi alla musica relativamente tardi, dopo aver coltivato da adolescente l'idea di dedicarti al disegno e alle arti figurative: cos'è che ti ha spinto a cambiare campo artistico?

Federica Michisanti: Devo dire che da piccola di passioni artistiche ne avevo molte: il disegno era solo la più immediata, perché basta una matita, un pastello, un colore, e lo puoi fare; però mi sarebbe piaciuto tantissimo suonare anche uno strumento e ricordo di essere sempre stata attratta anche dalla danza, cose però che per varie ragioni non mi fu mai possibile realizzare. Solo da adolescente mi comprai una chitarra, usandola però come si fa a quell'età, per suonare e cantare con gli amici. Poi all'università ho incontrato dei ragazzi che avevano un gruppo di rock progressivo, scrivevano anche cose originali, e che mi hanno chiesto di suonare il basso: così iniziai a praticare concretamente la musica. Poi, visto che uno di loro frequentava l'Università della Musica —una scuola professionale che allora era attiva a Roma —decisi di iscrivermi anch'io. Anche perché ero a Scienze Politiche senza vocazione alcuna per quell'indirizzo, avendo scartato per ragioni familiari quella che invece a mio parere era la strada giusta per me, cioè l'Accademia di Belle Arti.

AAJ: Come tanti, una scelta forzata e "utilitaria" risultata poi inadatta...

FM: Beh, sì. E accanto a Belle Arti avevo anche scartato, per identici motivi, altre cose che mi interessavano, per esempio filosofia. Avevo anche pensato di studiare Indonesiano all'Orientale di Napoli, a cui ero arrivata perché tra le cose che facevo c'era la danza balinese presso l'Ambasciata indonesiana di Roma, dove ebbi modo di entrare in contatto con la lingua e impararne qualcosa a orecchio, ma per proseguire mi sarei dovuta trasferire a Napoli, così non se ne fece niente e finii a Scienze Politiche. L'unica materia che mi piacque nel periodo in cui frequentai la facoltà era Storia delle Dottrine Politiche, ma per il resto una noia mortale: Statistica, Diritto, Economia Politica! Per fortuna presto iniziai la scuola di musica: mi appassionai, mollai l'università e mi trovai un lavoro.

AAJ: Che tipo di lavoro facevi?

FM: Ne ho fatti tantissimi! Iniziai con un'agenzia distributrice di impianti HiFi per il Lazio, dove ero un tuttofare; poi un lavoro d'ufficio, infine per anni in un'azienda di telesvendite, ma ad un certo punto mi licenziai poiché la vita da impiegata non faceva proprio per me! Erano comunque tutte attività finalizzate a permettermi di studiare, anche se ancora non credevo molto alla possibilità di fare la musicista a tempo pieno: mi sarebbe piaciuto, ma più che altro non riuscivo a trovare la mia strada. Dopo il licenziamento seguirono una tournée con Massimo Ranieri e una con Albertazzi —uno spettacolo che s'intitolava Dante legge Albertazzi —al termine delle quali mi sentivo ancora persa, non su un vero percorso.

AAJ: E quand'è che hai iniziato finalmente a crederci?

FM: Forse quando ho cominciato seriamente a scrivere musica: è allora che ho sentito il forte desiderio di continuare. In verità grazie anche agli stimoli che avevo ricevuto frequentando il Saint Louis College of Music: lì infatti la scuola ci faceva suonare, organizzando anche qualche concerto di tanto in tanto. Cosa che spingeva i compagni di laboratorio a incontrarsi, fare prove, abbozzare progetti. Però, in seguito, non sono riuscita a inserirmi subito nel mondo del jazz, quello canonico e mainstream, e ho praticamente mollato per diverso tempo.

AAJ: Infatti mi sono spesso chiesto quanto tu abbia suonato quel genere di jazz.

FM: In realtà l'ho suonato parecchio, ma più tardi, cioè quando ho iniziato a scrivere e ricominciato a suonare. Agli inizi del decennio 2010 qui a Roma andava molto di moda il lindy-hop, un ballo swing, e nella prima metà di quel decennio l'ho suonato tantissimo con le formazioni più diverse, anche in big band, visto che c'erano davvero tanti eventi dedicati al lindy-hop che richiedevano gruppi che suonassero dal vivo. In certi periodi, così, facevo anche quattro-cinque serate a settimana! E mi trovavo bene, sia perché suonare quella musica mi piaceva, sia perché era un bell'ambiente, privo di pregiudizi. Diversamente da quello più strettamente jazzistico che, non saprei dire bene perché, ho trovato meno accogliente: forse restava qualche ombra riguardo l'essere una musicista donna. Invece nel mondo dello swing ho suonato per diversi anni senza problemi con musicisti molto bravi della piazza romana. Poiché in concomitanza ho anche cominciato a scrivere, le due cose mi hanno dato la percezione del fatto che questo poteva diventare davvero il mio lavoro.

AAJ: La scrittura è dunque un momento centrale del tuo rapporto con la musica e certo la tua è molto particolare, personale. Non a caso il tuo ultimo e acclamato disco lo hai fatto assieme a tre musicisti altrettanto singolari, che chi non conosce bene la complessità di questo mondo non rubricherebbe neppure nel genere "jazz." Come arrivi a una scrittura di questo tipo, dopo esserti avvicinata alla musica attraverso un percorso un po' "accidentale" e comunque prevalentemente segnato dalla musica popular?

FM: Eh, questo resta anche per me un po' un mistero! A dire il vero le prime cose che ho scritto, che poi ho eseguito e registrato con Trioness, erano meno articolate: se non proprio lineari, erano comunque meno polifoniche, al massimo a due voci. Poi, sebbene non lo sappia suonare, ho iniziato a usare spesso il pianoforte per dar vita alle mie idee musicali: e lì è emersa subito l'esigenza di una polifonia, dell'intreccio di più voci, per sviluppare meglio il quale ho poi sentito l'esigenza anche di strumenti che abbiano timbri omogenei o che possano sostenere in egual modo la durata delle note, come due fiati, o clarinetto e violoncello.

Ma da dove venga la mia cifra compositiva proprio non lo so! Gli ascolti di scuole musicali come quelle di Webern o Schönberg, alle quali qualcuno ha accostato le mie composizioni, sono arrivati dopo, quando mi sono stati suggeriti proprio perché la mia musica ne ricordava alcune caratteristiche. E certo in quella musica della seconda scuola di Vienna mi ritrovo parecchio, ma questo non perché abbia studiato la musica seriale —se non qualcosa dopo, per capire meglio. La sola cosa che posso dire è che il rapporto tra certi intervalli, o certe sonorità, li ho nell'orecchio, non è la conseguenza di scelte decise seguendo determinati insegnamenti o esempi.

Oggi, forse proprio in seguito alla scoperta della prossimità del mio gusto con quello di alcuni autori, mi viene spesso la voglia di approfondire lo studio della composizione classica; purtroppo uno studio del genere richiederebbe una preparazione pianistica che non ho, per cui tendo sempre a rimandare; ma prima o poi probabilmente lo farò. Finora ho preso solo poche lezioni di composizione, qualche anno fa, mirate soprattutto al contrappunto e al basso continuo; quando ho sottoposto all'insegnante i miei brani, lei mi ha fatto notare come, pur non sapendolo, avevo applicato da sola alcune tecniche canoniche. Ma a me sembra importante approfondire questo studio: per capire, per mettere ordine, perché mi piace, e in fondo anche perché in confronto ai grandi compositori classici mi sento una nullità...

AAJ: Una nullità molto apprezzata, però! Io ti seguo dai tempi di Isk, quindi circa sette anni fa, e ricordo che fin da allora fosti accolta benissimo; in seguito ogni tuo lavoro è stato più che ben considerato, fino al successo clamoroso di Afternoons. Del resto, visto l'approccio attento che hai in sede di composizione, il tuo successo non stupisce. Mi sembra di capire che ti lasci guidare da un'idea musicale che hai in testa, più che dalle regole teoriche della scrittura.

FM: Più che un'idea, quello che ho in testa è una certa sonorità e atmosfera; e quando sento l'esigenza di comporre anzitutto comincio a suonare, al piano soprattutto ma anche al contrabbasso; poi mi appunto i dettagli, o mi registro, lasciando che il percorso si sviluppi sulla base del mio gusto musicale, del mio orecchio, senza troppi vincoli riguardo ad accordi o teorie musicali. Non ho un modo preciso e predeterminato di procedere. Anche se poi è vero che ci sono alcune cose che mi piacciono e mi orientano, come la modulazione continua, oppure lo sviluppare melodie a partire da improvvisazioni, che talvolta mi porta a scrivere cose inattese, come la melodia in 7/4 di "Sufi Loft," venuta fuori senza nessuna intenzione di dar vita a un tempo dispari...

AAJ: L'improvvisazione, appunto. La tua musica, pur complessa, è molto ordinata, vi si percepisce un pensiero musicale forte cristallizzato nella scrittura: qual è il suo -e il tuo -rapporto con l'improvvisazione?

FM: Come dicevo, spesso scrivo quel che improvviso, sia al pianoforte, sia al contrabbasso. In altre parole, se suonando mi viene un'idea musicale la sviluppo improvvisando; poi o la scrivo subito dopo, o la registro e poi la trascrivo e la perfeziono.

AAJ: E quando hai il brano scritto e finito, quanta libertà lasci nell'esecuzione?

FM: Quando un'idea musicale ha preso forma nella mia testa, l'ho scritta e l'ho messa a punto nei dettagli, a quel punto a me suona bene così, perciò vorrei ascoltarla in quel modo. Poi, però, a volte non è facile spiegare ai musicisti come vorrei che la interpretassero, altre volte la bellezza della loro interpretazione, basata sulla loro personale sensibilità, è tale che va bene anche se non suona come la sento io; per cui, spesso sono soddisfatta anche quando le cose non suonano esattamente come nella mia testa e non insisto perché ciò avvenga.

AAJ: Ma quanta improvvisazione c'è nei tuoi brani, attorno alle parti scritte?

FM: Al loro interno ce n'è molta, anche se mi piace organizzarla un po' a priori, così che sia coerente e legata allo sviluppo complessivo della composizione. Se prendiamo per esempio Afternoons, nell'improvvisazione all'inizio di "Floathing" semplicemente ho chiesto agli altri di pensare a dove stessimo andando, ovvero verso un tema che come sonorità ricorda la musica contemporanea, e di conseguenza la nostra improvvisazione collettiva "libera" è andata in quella direzione; in "Sufi Loft" ho invece aperto due finestre di improvvisazione e stabilito che in una avrei preso spazio io assieme all'elettronica e nell'altra l'avrebbe fatto Sclavis, ma facendo in modo anche qui che questi due "quadri" avessero un senso coerente all'interno dell'intero brano. In generale direi che nelle mie composizioni non intendo l'improvvisazione come una pausa libera che si apre tra due esposizioni del tema, bensì come uno scenario che deve trovare il proprio significato all'interno di altri due diversi quadri già ben definiti. Ciò comporta che l'improvvisazione sia un po' più organizzata, anche quando non è vincolata da precisi riferimenti armonici.

AAJ: Un gioco d'incastri che deve rendere l'improvvisazione pertinente alle parti scritte.

FM: Sì, anche se poi d'improvvisazione nei miei brani alla fine ce n'è tanta e in essa ciascuno resta libero di fare quel che vuole e come lo vuole, facendo come dicevo solo attenzione che l'improvvisazione sia pertinente alle parti scritte, sia essa libera o su una griglia armonica.

AAJ: Dicevamo che la tua musica, a prescindere dalla sua evoluzione negli anni e dalle diversità legate al tipo di organico e ai compagni con cui la suoni, ha un'identità ben precisa, che l'avvicina alla musica contemporanea. Ciononostante tu suoni anche in contesti molto diversi: senza riportare in ballo Ranieri, citavi prima un lungo periodo alle prese con lo swing e io ricordo di averti vista recentemente con musicisti non molto noti e non proprio jazzisti, oppure perfino accompagnare Ornella Vanoni, e mi pare che tu non lo faccia con lo spirito della turnista che sbarca il lunario, ma ci metti sempre molto entusiasmo.

FM: Sì, molto! Perché a me la musica piace tutta —basta che sia bella! Poi la scrittura è una cosa che va da sé, e che va in quella direzione: sono partita con composizioni inizialmente più affini a un linguaggio jazzistico che poi si sono via via sviluppate in modo da avvicinarsi forse alla musica contemporanea, ma io amo suonare di tutto, col basso elettrico perfino funky e rock a tutto volume. Fino all'anno scorso, per esempio, ho fatto a lungo parte anche di un trio dixieland con tromba e chitarra, certe volte persino il banjo, che adesso è in disarmo perché per un periodo sono stata fuori Roma e abbiamo interrotto. E quando posso suono standard jazz, collaboro con amici musicisti che fanno musica originale a cavallo tra pop e jazz. Anche con Ornella è stata una bellissima esperienza, perché non c'erano arrangiamenti scritti nota per nota, si poteva suonare sulle sigle, c'era libertà: in questo modo mi diverte suonare anche il pop.

AAJ: Mi sembra una bella cosa, non molto comune in un mondo in cui sono frequenti i giudizi critici sulla musica che viene fatta al suo esterno.

FM: No, a me piace molto suonare la musica degli altri, anche quando è lontana da quello che scrivo io. Mi piace, mi mette alla prova e mi stimola parecchio. Basta sia musica di qualità.

AAJ: Tra le collaborazioni importanti che hai avuto negli ultimi anni c'è poi quella con Franco D'Andrea e Dave Douglas.

FM: Una grande esperienza, ho imparato tantissimo, come se fossero stati dieci anni in uno. A chiamarmi fu Dave: quando mi spiegò la proposta, la mia prima reazione, oltre alla gioia, fu un'enorme paura! Dave Douglas, Franco D'Andrea, poi pure Dan Weiss... pensai che non ce l'avrei mai fatta con musicisti di così alto livello. Al primo concerto ero praticamente paralizzata e non diedi proprio il meglio... Invece da quel momento è stata un'ascesa continua e gli ultimi concerti sono stati bellissimi, con tanto interplay nel gruppo. Sono cresciuta moltissimo, ho fatto cose che di solito non facevo: ricordo il concerto di San Sebastian (che oggi si trova tutto su youtube e dove tornerò in estate con il mio quartetto), di fronte a un sacco di gente; Dave spesso mi lasciava spazi da sola col contrabbasso e lì ho imparato a dominare la paura, a rimanere a galla a ogni costo, a non mollare e a spingermi oltre i miei limiti.

Poi, entrare in contatto con la musica di Franco, la sua teoria degli intervalli, è stato molto stimolante: prima del tour spesso capitava che mi telefonasse per parlarmi della sua concezione intervallare e per me le sue chiamate erano dei veri e propri seminari personali. Anche la preparazione del quartetto è stata interessante: un po' perché era il 2021 e si usciva dalla pandemia, un po' perché vivevamo lontani, abbiamo lavorato molto a distanza. Dave mi mandava dei brani basati sulla teoria degli intervalli di Franco, delle registrazioni di Franco da solo o su cui Dave aveva già sovrainciso la tromba, e io mi sono organizzata con una scheda audio e un microfono per registrarmi a mia volta e incidere le mie linee di basso sopra la loro traccia. Insomma, delle vere e proprie prove a distanza, alcune delle quali alla fine erano bellissime. Tanto che Dave era stato tentato di farne un disco, ma purtroppo la qualità audio non era sufficientemente buona.

AAJ: Un altro dei molti esempi di coloro che hanno usato l'inventiva per utilizzare al meglio quel brutto periodo di isolamento, che era tale solo per chi non voleva sperimentare modi diversi di collaborare e restare in contatto. C'è chi ha fatto cose come quelle che descrivi, chi ha ascoltato ininterrottamente musica che altrimenti non avrebbe trovato il tempo per sentire, chi si è dedicato alla scrittura: tu, oltre alle prove, come hai impiegato il "tempo ritrovato"?

FM: Durante il lockdown ho suonato come forse non avevo mai fatto prima: dalle otto alle dieci ore al giorno! E lì ho anche capito che suonare mi piace, perché fino ad allora mi domandavo spesso per quale motivo lo facessi: per lavoro? O per esercitarmi, crescere, dimostrare qualcosa? Dubitavo a volte di amare la musica. Durante il confinamento invece ho suonato proprio per il piacere di farlo: ho tirato giù soli di Bill Evans e John Coltrane, li ho suonati sul contrabbasso e non mi bastava mai! Se ci fosse un lockdown perenne credo che starei sempre a suonare. Anche se in realtà ho studiato anche altro: filosofia, per esempio, soprattutto Platone e Socrate, ma mi sono accostata anche a Giordano Bruno, un personaggio che mi attrae molto. Per cui, al netto di tutti i suoi aspetti disastrosi, per me quel periodo è stato costruttivo. E mi ha anche segnalato la misura in cui sono normalmente stressata dalla vita di tutti i giorni, dall'ansia per il raggiungimento dell'obiettivo: in quel periodo obiettivi non ce n'erano e io finalmente sono riuscita a godermi la musica!

AAJ: È inevitabile che quando si fa qualcosa di strumentale a un obiettivo si finisca per dedicare meno interesse alla cosa in sé e per sé; ma se l'interesse per quella cosa è genuino, al venir meno dell'obiettivo essa riacquista tutto il suo valore autonomo, com'è accaduto a te. Se non succede e senza obiettivo resta solo il vuoto, francamente mi sembra dubbio che l'interesse per la cosa ci sia mai stato davvero: forse era solo un pretesto per inseguire il successo, il riconoscimento, il denaro.

FM: Forse è così, anche se sono situazioni talmente soggettive che è difficile generalizzare. Di fatto, però, io sono stata contenta della mia reazione: suonare mi piace davvero, mi sono detta, non lo faccio solo per dovere o per dimostrare qualcosa. Mi è uscito fuori proprio l'aspetto ludico, e non solo nel suonare, ma anche nel fare ricerca: io amo Bill Evans, è uno dei musicisti che mi ha fatto appassionare al jazz, e tirare giù tanti suoi soli, analizzarli, comprenderli, entrare nei meccanismi della sua musica, capire quali note usa, come distribuisce le frasi nella misura, studiarlo sul contrabbasso... era un gran divertimento, come fare la settimana enigmistica! Del tutto slegato da "serve a qualcosa?" o "sto migliorando?." Che poi per me forse è un vizio derivato dall'essere stata, almeno nel campo del jazz, inizialmente autodidatta, nel senso che quando ero all'Università della Musica certe nozioni le studiavo ma non le applicavo —perché non suonavo in giro... —e quindi non le capivo fino in fondo, e le ho poi riprese e approfondite più tardi, quando ho iniziato a comporre e scrivevo cose che non riuscivo a suonare.

AAJ: Dopo l'Università della Musica che scuole hai frequentato?

FM: Prima ho continuato a studiare privatamente con Gianfranco Gullotto, che era stato uno dei miei insegnanti all'U.M.; poi ho seguito i laboratori della Saint Louis, dove soprattutto ho iniziato a suonare un po' di jazz; dopo, approdata al contrabbasso, ho studiato diversi anni musica classica con il Maestro Andrea Pighi; infine ho frequentato i seminari di Siena Jazz. Dopodiché ho iniziato a fare la musicista anche "di professione" —pur aiutandomi ancora per qualche tempo con qualche lavoretto aggiuntivo, perché di serate ne facevo tante, ma i compensi erano bassissimi —e allora ho preso una direzione musicale più precisa e l'apprendimento ho iniziato a farlo sul campo.

AAJ: Dopo questo bellissimo percorso artistico e umano, in questo momento sei sotto i riflettori come uno dei musicisti jazz più importanti d'Italia, avendo fatto un incredibile triplete di premi nel più autorevole referendum nazionale: miglior musicista, miglior disco e migliore formazione italiani. Come te la giochi?

FM: Veramente non lo so... Cercherò di essere all'altezza di quanto mi è stato riconosciuto e delle aspettative che questo comporta. Al momento sono molto concentrata sull'insegnamento, perché da tre anni insegno al Saint Louis: sia "Small Jazz Ensemble," per il quale suono in duo o in trio con gli allievi, sia basso e contrabbasso. Entrambe le cose mi stimolano molto, anche la seconda, che mi spinge a studiare tanto lo strumento: perché io in fondo non mi sento ancora "naturalmente" contrabbassista... sento che il mio vero talento è il disegno...

AAJ: Beh, aldilà dei riconoscimenti che ti sono arrivati —e non parlo solo di premi, ma anche delle chiamate da parte di artisti come Douglas e D'Andrea---non c'è dubbio che l'ascolto sia dei tuoi dischi, sia dei tuoi concerti non lasci molti dubbi sul valore che hai anche come strumentista!

FM: Beh, io sento di essere migliorata, anche grazie alla stessa scrittura e alle esperienze fatte, ma nel momento in cui ti arrivano dei riconoscimenti senti di doverteli meritare. Specie se ci aggiungi la responsabilità del dover trasmettere qualcosa agli altri: lo scorso anno ad esempio sono stata chiamata come docente ai seminari di Merano Jazz, un'accademia importante diretta da Ewald Kontschiender e Franco D'Andrea: prima di andare ero intimorita da questa investitura, cosa che mi ha portato a studiare parecchio nel periodo precedente. E poi mi hanno chiamato anche per l'estate 2024.

AAJ: Immagino però che cercherai anche di far suonare il quartetto di Afternoons.

FM: Sì, infatti abbiamo già qualche data: a Budapest, Bergamo Jazz, Novara Jazz, San Sebastian, Nuoro Jazz... e altre da definire, sia in Italia che all'estero. Anche se non è facile mettere insieme tante date di fila, vista la presenza di musicisti molto impegnati e che vivono all'estero. Così, fisso con piacere concerti anche con altre mie formazioni, come Trioness, con Simone Maggio da sempre al piano e ora con la novità di Salvatore Maiore al violoncello, con il quale ho suonato recentemente al Pinocchio di Firenze (clicca qui per leggere la recensione del concerto). Ma non mancherà occasione di suonare di nuovo anche con Nicolas Masson, sassofonista svizzero che suona per ECM e che è stato spesso ospite di Trioness.

AAJ: Questo significa che anche le altre tue formazioni sono vive e vegete?

FM: Certamente, appunto soprattutto Trioness, formazione con la quale è più semplice organizzare concerti, sia per ragioni logistiche, sia per l'affiatamento con Simone, al quale sono molto legata da anni, e con Salvatore, che ho conosciuto solo un paio di anni fa ma con il quale si è subito creato un buon feeling, per cui mi fa molto piacere coinvolgerlo appena possibile nei miei progetti. Per Horn Trio è un po' più complicato organizzare concerti, soprattutto perché Francesco Bigoni vive in Danimarca e per farlo venire è necessario mettere in piedi un tour più ampio. Però anche quella formazione esiste e vorrei trovare occasioni per farla suonare.

AAJ: Altri progetti?

FM: Tante idee, in una delle quali mi piacerebbe poter coinvolgere Dave Douglas, ma la più concreta è la registrazione di un disco con il quartetto d'archi Life On Art String Quartet, che ho messo in piedi su commissione di Matteo Gabutti per Mantova Jazz, con Eloisa Manera al violino, Maria Vicentini alla viola e Salvatore Maiore al violoncello: suonammo le mie composizioni due primavere fa a Palazzo Te e successivamente a Vicenza Jazz; la cosa aveva funzionato molto bene, per cui mi piacerebbe registrare e anche trovare qualche nuova data. Certo, questo è ancora meno jazz... ma non importa, scrivere per quell'organico mi aveva appassionato tantissimo e mi piacerebbe dargli un seguito. Per concludere, vorrei aggiungere un ringraziamento a tutti coloro che hanno creduto in me e hanno contribuito alla realizzazione di tutto quel che ho fatto finora, da Musica Jazz a Musica per Roma, financo a tutto l'Universo!

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