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Fano Jazz by the Sea 2020

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Fano, varie sedi
24-31.7.2020

Un festival estivo in piena regola. Non è poco in epoca di Covid (...e purtroppo non possiamo ancora dire di post-Covid). Un esempio di resistenza, di sfida, di sinergica capacità organizzativa, di voglia irreprimibile di musica dal vivo, da parte di chi la suona, ma anche per chi l'ascolta. Fano Jazz by the Sea è riuscito, pur con qualche inevitabile compromesso, a mantenere una sua identità, una sua struttura; certo riducendo al minimo la presenza straniera, rinunciando a quel punto d'incontro giovanile che era il Jazz Village, attenendosi per quanto possibile alle misure di sicurezza, ma proponendo nell'arco di otto giorni un ampio e articolato ventaglio di appuntamenti notevoli. Una programmazione che ha beneficiato per tutta la sua durata di condizioni meteo invidiabili e che è stata premiata da una sorprendente affluenza di pubblico.

Ben quattro dei concerti serali sul main stage della Rocca Malatestiana sono stati affidati a duetti; è incoraggiante constatare come una formazione così ridotta, ma così simbiotica e con una lunga e gloriosa storia alle spalle, abbia richiamato un folto pubblico riuscendo sempre ad appagarlo pienamente. Il duo Fabrizio BossoLuciano Biondini, consolidato da anni di esperienza (fra l'altro quattro sere prima si era esibito il duo omologo di Paolo Fresu e Daniele di Bonaventura, che ha registrato anch'esso il tutto esaurito), ha ripercorso un repertorio composito e ricco, comprendente brani famosi e composizioni di Biondini. La classe smaliziata delle rispettive pronunce strumentali ha messo in evidenza da un lato la sapienza armonica e la meditata impostazione del fisarmonicista, dall'altro le brucianti accensioni del fraseggio del trombettista, il suo esibizionismo sfrenato. Sono risultati di alta qualità la fluidità del dialogo, la caratterizzazione dei ruoli e in definitiva anche la misura delle trovate eccentriche.

Quanto al sodalizio altrettanto rodato di Antonello Salis e Simone Zanchini, che ho avuto l'occasione di ascoltare in vari contesti negli ultimi anni e che mi accingo a recensire per la quinta volta, potrebbe sembrare che non ci sia nulla di nuovo da aggiungere, salvo ribadire la forza travolgente della loro energica e inventiva improvvisazione. In verità le sfaccettature delle loro esibizioni sono tante e tali che si percepiscono aspetti e sfumature ogni volta diversi. Gli spunti musicali che le loro performance mettono in campo e sovrappongono con grande disinvoltura e rapidità sono i più svariati, attingendo indifferentemente dalla musica romantica, da quella costruttivista, o liturgica, dalla musica etnica di molteplici provenienze, dalle colonne sonore dei film (immancabile l'omaggio a Morricone), dalla musica leggera fino ad arrivare naturalmente al jazz, sia quello della tradizione che quello d'avanguardia. Vengono così agglomerate ed esposte intenzioni sempre diverse, complementari o contrapposte: ironiche, pompose, umoristiche, dissacranti, estatiche, trionfali, pensose, nostalgiche, evocative... Diventa quindi difficile non rimanere coinvolti e sopraffatti da una simbiosi creativa così prolifica, dallo sgorgare inesauribile d'idee e atteggiamenti tanto imprevedibili quanto ineludibili.

L'unica presenza straniera al festival era rappresentata dal duo formato dal bassista Michael League (californiano, ma rimasto confinato in Spagna a causa della pandemia) e dal pianista inglese Bill Laurence, rispettivamente leader e membro dei popolarissimi Snarky Puppy. Si tratta di un sodalizio di recentissima formazione quindi, favorito dalla situazione contingente venutasi a creare a livello internazionale. I due hanno concepito un concerto praticamente acustico e preordinato su original dell'uno o dell'altro e su composizioni di autori amati: Pat Metheny, Jaco Pastorius... Si sono succedute atmosfere ora trattenute e decantate, ora più toniche e trascinanti, ora evocative e sognanti. A insistenze di lontana derivazione minimalista hanno fatto riscontro situazioni melodiche d'impronta etnica, a brani canonicamente jazzistici si sono alternate escursioni rapsodiche e classicheggianti, d'impianto cameristico. Oltre al pianismo solidamente sgranato di Laurence e al drive di League, corroborato dalla varietà del sound ottenuto dalle due chitarre-basso utilizzate, in definitiva sono risultate apprezzabili la distensione dell'amichevole dialogo e la valenza jazzistica del loro interplay.

Oltre ai duo, alla Rocca Malatestiana hanno tenuto la scena formazioni più ampie. In The Crossing, la compagine più recente coordinata dal sassofonista sardo Enzo Favata, il largo ricorso all'improvvisazione e a un tessuto connettivo prettamente elettronico, ora evanescente ora più concreto, ha comportato una stratificazione di memorie e di culture, quasi tentando un aggiornamento del modello dei Weather Report. L'aspetto melodico e quello ritmico tuttavia hanno preso forza soprattutto dalle sonorità acustiche e dal dialogo serrato fra le voci individuali. Al leader va riconosciuta la regia del tutto, principalmente tramite l'uso delle tastiere elettroniche, oltre ai guizzanti interventi ai sax e al clarinetto basso. Il basso elettrico di Rosa Brunello ha prodotto una base alonata, ossessiva, soffocante, ricreando un contesto metropolitano, mentre l'incalzante senso ritmico di Marco Frattini e il suo variegato sound sulle pelli e sui metalli hanno rappresentato un aggancio con la tradizione più ancestrale e ritualistica. Il vibrafono, la marimba midi e l'elettronica di Pasquale Mirra hanno aggiunto infine un particolare senso dinamico, oltre a sonorità cangianti, madreperlacee.

La componente elettronica la fa da padrona anche nella musica del Cosmic Renaissance, il quintetto di Gianluca Petrella completato da Mirco Rubegni alla tromba ed effetti, Blake Franchetto al basso elettrico, Federico Scettri alla batteria e Simone Padovani alle percussioni. In cosa consiste il Rinascimento cosmico perseguito negli ultimi anni dal trombonista barese? Innanzi tutto il progetto sembra rispondere a un'esigenza autobiografica, riagganciandosi a quella turbolenta e più larga formazione, la Cosmic Band, che ebbe una vita abbastanza breve. Il gruppo di oggi possiede una maggiore maturità e consapevolezza, articolando un discorso musicale forse meno informale e radicale ma dalle sfaccettature più decise, variate e organiche. La densità ritmica e la fisicità del sound realizzano una coinvolgente, ipnotica dimensione tribale, ma contemporaneamente approdano al disteso canto melodico dei due fiati, spesso intrecciati fra loro, che raggiunge un lirismo quasi mistico. Di brano in brano, collegati fra loro in un flusso continuo, prendono corpo idee formali e strutturali sempre diverse e fortemente caratterizzate, dai collettivi infuocati a duetti e trii sinergici, dalle parentesi vocali di Franchetto, riposanti nell'emissione se non nei testi, a eccitanti fasi percussive, da declamazioni dal tono epico da parte di tromba e trombone a brevi e ripetute frasi cantilenanti, sempre da parte loro, a mo' di sberleffo.

Il cartellone è riuscito a confermare, nei concerti pomeridiani alla ex Chiesa di San Domenico, la sezione Exodus dedicata agli "echi della migrazione." Quest'anno la serie prevedeva tre solo performance d'indubbio impatto ed è stata aperta da Dimitri Grechi Espinosa, che da anni ha approfondito l'esperienza concertistica in spazi caratterizzati da un'ampia risonanza. Fra l'altro fu proprio il sassofonista toscano che, ascoltato da Adriano Pedini, direttore artistico di Fano jazz, gli ispirò l'idea di ospitare, a cominciare dal 2016, concerti tematicamente mirati nella ex chiesa, tesi necessariamente a sfruttare l'ampia risonanza naturale dell'ambiente. Il tenore di Grechi Espinosa, che si è collocato nell'area absidale dietro l'altare, risultando invisibile al pubblico, ha esposto un senso melodico prosciugato in sequenze di poche note, lente ed evocative, innescando una narrazione avvolgente e circolare, dall'evidente sostanza mistica. In tal senso le sue esibizioni solitarie sono ormai dei classici, che di volta in volta rinnovano una sorta di preghiera autentica, adeguandosi alla conformazione fisica e acustica dei luoghi.

Anche la solo performance di Marco Colonna al clarinetto basso, che ha chiuso la serie, ha tratto giovamento dalla risonanza della ex chiesa. È straordinaria la ricchezza delle soluzioni tecniche e formali con cui egli è riuscito a ottenere la massima espressività dal suo ostico strumento: la respirazione circolare, la gradualità del suono, dai pianissimo impercettibili ai forti imperiosi, la sublime intonazione, i secchi colpi di lingua e i giochi della diteggiatura sulle chiavi, le note isolate e le lunghe sequenze concatenate, la sovrapposizione di registri e di frasi melodiche, le citazioni occulte, le abrasive deformazioni timbriche... Senza mai fermarsi ad un esercizio esibizionistico, sorprendente ma di superficie, il tutto è stato amministrato invece con grande efficacia dall'improvvisazione di Colonna, ottenendo una coerente opera di musica contemporanea dalle molteplici suggestioni emotive e culturali, in cui un lirismo vibrante e un'ardita costruzione astratta si compenetravano.

L'appuntamento intermedio di Exodus è stato affidato alla violinista e cantante Anais Drago, già messasi in evidenza nella scorsa edizione nella sezione Young Stage. La giovane artista biellese ha sfruttato il periodo del lockdown per concepire una performance ad hoc, cercando di interpretare, tramite passaggi improvvisati e composizioni proprie e altrui, i sentimenti che possono attraversare il cuore del migrante: la nostalgia, la paura, l'attesa, la speranza... I temi sono stati affrontati e concatenati con grande motivazione secondo un ampio spettro sonoro e narrativo, da pianissimo intimistici a una cantabilità più decisa, da sprazzi di sperimentalismo a veloci e dinamiche scorribande sulle corde. Ne è risultato un percorso indubbiamente affascinante, che però in alcuni frangenti non ha tenuto conto delle caratteristiche acustiche dello spazio.

Durante tutti gli otto giorni del festival, nell'ora che precede il tramonto, in quello spazio estremamente suggestivo che è la ex chiesa di San Francesco, rimasta priva di copertura, si sono tenuti i concerti dello Young Stage, vale a dire una policroma carrellata tesa a documentare meritorie proposte giovanili. Due le performance a cui ho personalmente assistito. Il duo O-Janà è formato dalla pianista romana Alessandra Bossa e dalla vocalist napoletana Ludovica Manzo. Con l'indispensabile apporto dell'elettronica, da parte di entrambe, le due comprimarie hanno imbastito un percorso preordinato di original, in cui un pacato camerismo, un moderato sperimentalismo e residui di minimalismo venivano intrecciati con concentrazione e una pensosa empatia.

Il contraltista ventiquattrenne Elias Lapia, nato in Sardegna a Siniscola e vincitore dell'edizione 2019 del Premio Massimo Urbani, ha maturato esperienze in Francia e Olanda. Le strutture degli standard e degli original eseguiti, i canonici spazi solistici, il tipo di interplay richiesto ai due partner (Salvatore Maltana al contrabbasso e Adam Pache alla batteria) hanno riproposto i modi di un mainstream acustico. Ha colpito comunque la maturità del linguaggio sassofonistico del leader, scandito, consapevolmente controllato e la personalità del suo sound, capace di affiancare accenti afoni ed escursioni acidule e lancinanti.

Foto: Andrea Rotili.

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