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Dino e Franco Piana: il Jazz di padre in figlio

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Nell'ambiente del jazz girano cognomi che indicano il tramandarsi di una tradizione, di un amore che passa di padre in figlio, vivendo l'evoluzione dei tempi, ma nel contatto profondo con una prassi professionale di artigiani-artisti appassionati. Così è ad esempio per i figli di Alberto Corvini, Mario e Claudio, che seguono la scuola di chi fu una delle migliori e più rispettate Prime Trombe jazz in Italia, leader di big band nelle quali si sono formati tanti giovani jazzisti, fino alla morte prematura nel 1991.

Così è per Dino e Franco Piana, padre e figlio che condividono una visione del jazz forte, classica, tutta sostanza. Entrambi rifuggono pose intellettuali trendy che potrebbero garantire loro una visibilità mediatica certo comoda, ma a un prezzo difficile da pagare, per chi come loro ha il culto di un'onestà piemontese antica e preziosa. Dino Piana è uno dei grandi maestri italiani del jazz moderno, raro virtuoso del trombone a pistoni, secondo colleghi come Mario Corvini il migliore in assoluto sul suo strumento. La sua storia è quella del Sestetto Basso-Valdambrini e delle grandi orchestre "pop" della RAI. Il figlio Franco è apparso giovanissimo come un trombettista dal forte lirismo, in grado di unire intuito melodico e swing seguendo l'impronta di Miles e Chet. Da tempo è noto e apprezzato come arrangiatore di classe e lo dimostra l'omaggio a Trovajoli, registrato dal vivo alla Casa del Jazz e pubblicato da L'Espresso nel 2008.

Abbiamo intervistato i Piana in occasione delle pubblicazioni Dejavu che includono preziose ristampe e recenti progetti come Idea6, l'ultima avventura di Gianni Basso in loro compagnia.

Lo spunto per iniziare è fornito dalla copertina di Basso Valdambrini Plus Dino Piana che mostro a Dino.

Dino Piana: Questo è stato il primo disco che ho fatto con loro, nel 1959.

All About Jazz: Dalle note di copertina vedo che all'epoca non leggevi bene la musica e Oscar Valdambrini ti sottopose a una lunga session di lettura delle parti.

D.P.: Sì, un giorno. In un giorno ho imparato i pezzi a memoria e il giorno dopo siamo andati a registrare. Puoi capire in che stato d'animo mi trovavo...

AAJ: Loro erano già nomi molto affermati.

D.P.: Scherzi! Avevano già il quintetto che era famoso, il più bel quintetto che ci fosse allora sul mercato italiano. Basso e Valdambrini erano dei grandi professionisti.

AAJ: Infatti si sente una grande maturità in queste incisioni, considerato che suonavano uno stile arrivato da pochi anni in Italia. Nel primo disco del quintetto padroneggiavano l'estetica cool. Nel disco del tuo esordio si sente l'influenza dei Jazz Messengers.

D.P.: Sì perché era cambiato il timbro del gruppo. Con una voce in più sono cambiati anche gli arrangiamenti. E allora c'era questo sound dei Jazz Messengers, più aggressivo.

Franco Piana: Gli arrangiamenti erano di George Gruntz.

D.P.: Gruntz era uno che scriveva e non faceva sconti. Io avevo sempre gli occhi fuori dalla testa. Poi è andata che leggi oggi, leggi domani, alla fine ti abitui. Comunque il gruppo era bellissimo, non c'era niente lasciato al caso, era tutto preparato, provato, un po' la mentalità come abbiamo noi, io e Franco, ad esempio quando mio figlio scrive per la big band o il piccolo gruppo... alla fiora non si fa niente... poi dopo hai tutto lo spazio che vuoi, quando improvvisi, ma quando ti trovi in un contesto già oltre il trio o il quartetto, bisogna vedere di fare le cose diversamente. Non parliamo del quintetto o sestetto.

AAJ: E' un approccio che contrasta con la prassi odierna, pochissime prove e subito in concerto o su disco. Si è persa questa cura...

D.P.: E si sente! Tecnicamente sono tutti molto bravi adesso, però manca questa base tanto importante.

AAJ: Forse c'erano anche delle condizioni diverse che consentivano ai musicisti di provare di più.

D.P.: No era una mentalità: la scuola della big band. Prendi Gianni e Oscar. Io sono entrato dopo nel giro, loro facevano la professione già da tempo, suonavano nelle big band, nei dancing. Allora c'erano le sale da ballo, dove magari non c'erano le sezioni complete, solo due trombe, un trombone, tre sax. Leggevi sempre, tutti i giorni musiche americane, ridotte, quello che vuoi, ma erano abituati a questo tipo di lavoro. Intanto suonavi tutti i giorni, in un certo modo, eri obbligato ad avere rigore, stare attento all'intonazione, al suono, la precisione, le dinamiche. Da questa cosa andavi avanti con quella mentalità lì e andavi a finire nelle Orchestre della RAI e dovevi suonare così, anche se facevi varietà. Perché c'era varietà e varietà!

F.P.: Era la cultura di mio padre e dei suoi colleghi: la loro sensibilità coglieva soprattutto l'insegnamento di Gerry Mulligan, Bob Brookmeyer, Gil Evans. Un jazz più affine alla loro tradizione. Tutti brani arrangiati in modo strepitoso. Poi c'era lo spazio per il solista, liberissimo di fare quello che voleva. Ma quando si suonava insieme la disciplina era ferrea. Quei dischi non ho smesso di ascoltarli, c'era una straordinaria sapienza armonica. Poi la maturità nel solismo, nel suonare insieme, trovare l'intreccio delle voci.

D.P.: Era un bel suonare! Poi il jazz si è fatto più aperto, è andato oltre, c'è stato il free che è stato un periodo importante perché ha rotto certi schemi, però ha portato anche molta confusione.

AAJ: Ecco un punto da approfondire: Nel DVD allegato a Stepping Out, Franco Fayenz ti pone la questione del free e tu dici che apprezzavi molto Ornette Coleman, poi hai sentito che il tuo animo non andava in quella direzione e che forse c'era anche qualche bluff di troppo.

D.P.: Non da Ornette Coleman! Da quelli che cercavano di imitarlo. Io mi sono trovato nei contesti dove suonavano free, ma non mi ci trovavo, perché non c'era espressione... Partivano dal rumore.

F.P.: Partivano dal free non da quello che c'era dietro.

AAJ: Ornette aveva alle spalle il blues, Don Cherry il bebop.

F.P.: Don Cherry era un genio! Loro erano arrivati al free perché avevano fatto un percorso nella storia del jazz.

D.P.: In Italia era una scorciatoia, molti compravano lo strumento, dopo due mesi ci urlavano dentro e quello era free jazz... eh no!

AAJ: Verso la fine degli anni '60 alcuni musicisti di jazz moderno, come Eraldo Volontè, lavorarono sul free, anche Basso e Valdambrini lo conoscevano bene, basta ascoltare Stella by Starlight fra le ristampe Dejavu. In poco tempo si è però creata una frattura molto netta fra chi suonava free e chi no. C'è stato un breve attimo di comunicazione che non si è sviluppato.

D.P.: Anche perché chi non suonava free non aveva spazi in quegli anni. Non avevi più spazi, non lavoravi più. Allora o ti buttavi a fare delle cose che io, Oscar e Gianni preferivamo evitare, oppure stavi lì, in attesa che ti chiamassero a fare un concerto. Era anche una cosa politica.

F.P.: Evidentemente per molti musicisti come mio padre c'era l'esigenza di andare avanti su certe cose, esplorarle, ma alla fine ognuno suona com'è davvero dentro. La tua sensibilità ti riporta a suonare in un certo modo. Guardi avanti ma torni a quello che è tuo.

D.P.: Noi ascoltavamo di tutto! Oscar si faceva arrivare tutte le novità che uscivano in America, Art Blakey, Horace Silver e tanti altri. Passavamo nottate intere ad ascoltare quei dischi, Poi quando vai a suonare, torni là dove è la tua natura.

F.P.: E meno male.

D.P.: Quell'ascolto serviva anche al gruppo per andare avanti, trovare nuove armonie.

AAJ: Ora torniamo alle origini. Come arrivi al jazz? Se non sbaglio tu hai iniziato in banda in un paesino del Piemonte.

D.P.: A me è successo questo: suonavo nella banda del paese e la parola jazz non sapevo neanche cosa fosse. Durante la guerra poi cessammo del tutto di suonare. Con la Liberazione la banda si ricostituisce e iniziamo a sentire la musica da ballo americana, "In the Mood," Glenn Miller, Tommy Dorsey. Bene io, anziché innamorarmi del liscio, mi sono innamorato di quella musica! Per me era già una cosa incredibile, aveva lo swing, era diversa da quanto ascoltavamo nelle balere. A parte questo non conoscevo bene il jazz allora, è stata mia moglie che me l'ha fatto conoscere. Lei ascoltava Radio Stoccarda, dove tutte le sere andava in onda Willie Conover di Voice of America e trasmetteva per le forze armate americane. Non eravamo ancora sposati, eravamo piccoli, ma nel paese ci conoscevamo tutti e a lei piaceva la musica, piaceva ballare. Una volta mi disse "ho sentito una cosa in radio, ma è diversa da quello che suoni nel gruppo con tuo fratello." Mi fece i nomi di Charlie Parker, Dizzy Gillespie, io ero scettico, ma lei insisteva, dicendo "è un'altra cosa, un altro modo di suonare. Improvvisano, fanno delle cose pazzesche". Non le volevo credere all'inizio, ma una sera sono andato da lei a sentire la radio... e da quel momento ho dato i numeri, non ho capito più niente.

F.P.: All'inizio non li capivi.

D.P.: Niente, non capivo nulla. [canta il tema di "Bebop"]

AAJ: Già non erano capiti in America, figuriamoci in Italia...

D.P.: Immagina a Refrancore, in un paese della provincia piemontese, arriva questa musica quando per me il massimo era Harry James e lo Swing ballabile. Di lì piano piano...

AAJ: Come hai appreso il linguaggio, copiando le frasi dai dischi?

D.P.: No, ascoltando. Io non ho mai copiato una frase. Probabilmente qualche volta faccio delle cose che ho ascoltato, ma non mi sono mai messo a tavolino a trascrivere. Assolutamente no. Tanto non sarei capace a farlo, poi sarebbe secondo me un errore, perché la frase che fa Brookmeyer o Chet Baker è sua. L'espressione è la sua, se la faccio io è un'altra cosa. E' meglio fare una cosa più elementare, più brutta, ma che sia personale.

AAJ: Hai conosciuto in quel periodo Gianni Basso?

D.P.: Con Gianni ci siamo conosciuti da giovani, lui anche era un patito del jazz, poi andò con la famiglia in Belgio. Aveva 14 anni e il papà andò a fare il minatore e restò per circa sei anni. In Belgio ebbe la fortuna di suonare con dei grandi musicisti locali e olandesi, insomma tutti quelli che passavano per Bruxelles. Imparò tantissimo e al ritorno ci incontrammo ad Asti, rimasi meravigliato perché suonava come nei dischi che ascoltavo sempre. Suonava come Zoot Sims e tutti quelli lì che mi piacevano.

AAJ: In effetti, all'inizio l'influenza del cool è nettissima. Però ebbe presto una grande evoluzione: nel suono e nel fraseggio quasi penso a Sonny Rollins. [Quando lo cito Dino non appare convinto]

D.P.: Diciamo che il suono si fece più virile, fu anche influenzato dal free, ma non l'ha mai fatto, perché non gli piaceva davvero.

F.P.: La sua natura era vicina a Zoot Sims, Stan Getz...

D.P.: Negli ultimi tempi suonava ancora più caldo.

AAJ: In Recado Bossa Nova con Irio de Paula è un magnifico balladeur.

D.P.: Lui era così sin da ragazzo, suonava così. Poi certo ha subito tante influenze, negli anni Sessanta ad esempio Coltrane arrivò e tutti diedero i numeri. Però non è mai riuscito a cambiare la sua espressione. Cambiava il bocchino, metteva l'Otto Link, ma il suono rimaneva sempre il suo.

F.P.: Era la sua espressione.

D.P.: Questa è la grande dote!

F.P.: Gianni Basso lo riconosci subito.

D.P.: Due note e sai che è lui.

AAJ: Come potresti descrivere Gianni Basso a un giovane sassofonista che non lo ha mai ascoltato?

D.P.: Suonava Jazz! E' la prima cosa che gli direi. Nato per suonare il Jazz. Una nota sua era tutto Jazz. Come fraseggiava, come cantava i temi: questo era Gianni Basso, poi poteva essere moderno, non moderno, non ha importanza!

AAJ: La storia di Valdambrini è diversa, con una base più "colta": padre violinista, lui stesso aveva studiato il violino. Tempo fa ne ho parlato con Marcello Piras, che ricordava una loro lunga chiacchierata sul Concerto per violino e orchestra di Alban Berg.

D.P.: Oscar era diplomato in violino. Aveva una grande cultura, seguiva i concerti di musica classica e amava il jazz perché gli dava la libertà, ma lui è venuto dopo Gianni come jazzista. Lui dentro aveva tutta quella cultura che Gianni non aveva. Gianni aveva la natura. Oscar suonava nelle orchestre e mi raccontava sempre un aneddoto di quando era in big band con Gaetano Gimelli, eccellente Prima Tromba dell'epoca. Gimelli lo esortava a improvvisare, ma Oscar si ritraeva dicendo "Non sono capace, non so neanche da che parte incominciare". Un giorno, stavano suonando un brano, tipo "What's New," dove Gimelli eseguiva il tema e poi improvvisava. Forse lo fece apposta, insomma a un certo punto disse a Oscar che si sentiva male e doveva andare al bagno. Oscar si dovette alzare e fare il solo, da lì prese fiducia, si rese conto che quello che faceva era corretto e poi è andato avanti così, ma sempre con molto pudore e rispetto per le improvvisazioni. Fin quando non ha incontrato Gianni, che al ritorno dal Belgio era una furia scatenata e voleva fare un quintetto per andare a suonare alla Taverna Messicana che lo aveva ingaggiato. Di trombettisti c'era Sergio Fanni e suonava molto bene, ma era impegnato nella RAI di Torino. Allora Basso ha cercato Valdambrini perché gli avevano detto che suonava, era corretto e le ballad le faceva molto bene. Aveva suono e musicalità. Oscar diceva sempre "se non era per Gianni Basso io non suonavo mica," riferendosi ai piccoli gruppi. Era il suo solito timore, ma alla fine Gianni lo convinse e da lì hanno fatto un sodalizio... una vita insieme.

F.P.: Si integravano, erano complementari.

AAJ: A livello caratteriale quindi uno era più colto e riservato, l'altro più genuino e propositivo.

D.P.: Difatti Oscar preparava i brani, pensava al suono del gruppo. Gianni pensava a procacciare il lavoro ovunque ci fosse la possibilità: 'Nduma! diceva sempre. Andiamo!

AAJ: E "'Nduma" era anche un brano del vostro repertorio. Fra l'altro in quei dischi ho trovato anche qualche esempio di canzone italiana in versione jazz, "Parlami d'amore Mariù" e "Ciao Turin". Oggi è una prassi che va molto di moda, ma anche assai rischiosa.

D.P.: Guarda io, nel '62, ero a Milano e suonavo da free lance, fin quando non sono riuscito a entrare nell'orchestra di Kramer, assieme a Valdambrini, Basso e Pezzotta. Tutti mi davano una mano perché suonare con Kramer allora non era facile. Bisognava leggere a prima vista e subito registrare. In quel periodo lì mi ha chiamato la Ricordi e mi dissero "Senta Piana" - mi davano del Lei, figurati! - "perché non fa i brani italiani a suo modo?". Dico, ma si può fare una cosa così? Ho avuto un momento di incertezza, poi ho consultato Sellani e Azzolini che mi hanno convinto e alla fine ho fatto un LP bello Così - con Dino Piana.

F.P.: Credo sia uno dei primi dischi, se non il primo, dove si fanno "Estate" e altri brani simili in versione jazz.

AAJ: Sarebbe ora di ristamparlo.

D.P.: Magari! Suonavo "La barca dei sogni," "Fiorin fiorello".

F.P.: Secondo me un disco molto riuscito e non era facile dare veste jazz a quelle canzoni.

D.P.: La Ricordi lo mandò anche a New York, dove fu apprezzato. Una bella soddisfazione.

AAJ: Tu Franco nella musica ci nasci, fra madre e padre non hai avuto certo il problema di scoprire il jazz: a livello inconscio è sempre stato parte di te, ma c'è stato un momento dove il jazz lo hai notato a livello conscio, ti ha colpito e hai ragionato su quale posizione prendere nei suoi confronti?

F.P.: In casa da quando mi ricordo, avrò avuto tre anni, sentivo i dischi e mi piacevano da matti.

D.P.: Lo avevo sempre vicino, appena mettevo un disco lui arrivava come un gatto.

F.P.: Ho ascoltato subito di tutto: Miles Davis, Chet Baker, Gerry Mulligan, J.J. Johnson. Poi le big band, io impazzivo, avrò avuto cinque anni e sapevo cantare a memoria tutti i soli dell'orchestra di Count Basie, quindi mi sono innamorato subito. Non c'era nulla di razionale, mi piaceva. Ricordo che a casa col Lego costruivo la tromba, fino a che lui non me ne ha comprata una vera, avevo sei o sette anni. Allora ho iniziato a suonare così, a orecchio, ricavavo dei soli. Il primo pezzo è stato "Oh When the Saints"

D.P.: Aveva già il fraseggio giusto. Lo suonava con swing.

F.P.: Lo avevo acquisito a livello inconscio. Iniziando a studiare poi ho capito che era ciò che volevo fare. Quando siamo venuti a Roma e avevo quattordici anni ho fatto una trasmissione in televisione con Gaslini, "Jazz al Conservatorio," c'erano Massimo Urbani, Danilo Terenzi, Tommaso Vittorini, Maurizio Giammarco, Bruno Biriaco, Bruno Tommaso. Poi sono venuti i primi gruppi le prime orchestre, infine sono entrato nel Sestetto accanto a mio padre. Alla ritmica c'erano Gatto, Pieranunzi e Del Fra.

AAJ: Parlami delle tue influenze, immagino che Miles e Chet siano riferimenti essenziali.

F.P.: Andavo a periodi. A lungo ho ascoltato solo Chet Baker e credo che quella sia stata l'impronta decisiva. Dopo ho avuto la passione per Clifford Brown: andavo a scuola, facevo finta di seguire le lezioni, ma nella testa mi cantavo tutti i soli di Clifford e Chet. Poi ho avuto il periodo Miles. Credo che Chet Baker sia quello che mi ha dato più emozione.

AAJ: Di Chet hai qualche disco o periodo preferito?

F.P.: Ho ascoltato tanto il disco che ha fatto a Milano con gli archi, Chet Baker with Fifty Italian Strings. Lì c'erano anche Basso, Glauco Masetti, Franco Cerri. Chet mi è sempre piaciuto, sia quando era giovane con quel suono meraviglioso, ma anche quando era più fragile ma aveva tanta espressione. Bastava una sola nota...

D.P.: Quella non ti va via Franco. Magari il labbro non regge, ma senti quello che vorrebbe dire. Non lo può fare, è più soffio che suono, ma lo senti lo stesso.

F.P.: Ho avuto il piacere di suonare con lui, in una trasmissione radiofonica con Mazzoletti, che voleva presentargli dei giovani trombettisti italiani. C'ero io, doveva venire Boltro ma non gli fu possibile, c'erano Morgera, Massimo Nunzi. La trasmissione iniziò senza Chet, che arrivò con un'ora di ritardo. Abbiamo suonato insieme un paio di pezzi ed è stata una grande emozione, ricordo che mi disse anche una cosa carina e mi fece molto piacere. Era un musicista particolare, conosceva tutti i brani, un orecchio incredibile. Dicono che non sapesse quasi leggere, ma si avvicinava a Pieranunzi, gli chiedeva di suonare il giro armonico e subito lo aveva imparato. Non so se davvero non sapesse leggere, ma aveva un modo di suonare che era tutto una melodia, non suonava mai verticale. E' una caratteristica che aveva anche Miles. Clifford invece era il contrario, un continuo movimento sugli accordi, faceva sentire tutte le tensioni, le quinte aumentate. Un altro trombettista che mi divertiva molto ascoltare era Clark Terry, suono bellissimo e fraseggio sempre fantasioso. Non dimentichiamo poi come improvvisava, soprattutto in big band, Conte Candoli! Altri trombettisti li ho scoperti dopo, ad esempio Gillespie, il cui genio, da ragazzo non ero abbastanza maturo da capire.

AAJ: Che rapporto hai con l'insegnamento?

F.P.: Penso a quanto mi hanno trasmesso persone come mio padre, Oscar, Alberto Corvini. Dieci anni fa non mi passava per la testa di insegnare, poi il ricordo del loro esempio mi ha spinto a trasmettere quanto so a giovani che non hanno avuto la possibilità di lavorare con professionisti di quella levatura. Ora insegno nella scuola romana Officine Musicali del Borgo e sono molto contento.

AAJ: Pensando alle trasmissioni in radio e TV di cui mi hai parlato... certo se ne faceva di jazz anni fa! Lei Dino con l'orchestra RAI ha incontrato molti grandi musicisti americani.

D.P.: Bob Brookmeyer, più volte Mel Lewis, Freddie Hubbard, Bob Mintzer, Dick Oatts, Gil Evans, Archie Shepp, Kai Winding, Lee Konitz. Una o due volte l'anno la RAI trasmetteva questi incontri ripresi al Sistina o al Teatro Espero. Per me furono molto emozionanti gli incontri con Winding e Brookmeyer. Il primo l'ho conosciuto al Music Inn, dove suonò con me e Marcello Rosa. Poi mi chiese di fare dei concerti in quintetto, dopo i quali tornò in Spagna. Tempo dopo mi chiamò il suo manager, dicendomi che Winding la mattina successiva tornava in Italia e nel pomeriggio voleva incidere con me un disco, Duo "Bones" per la Red Records. Siamo entrati in studio alle 16 e a mezzanotte avevamo finito. Per me fu una grande soddisfazione, io lo stimavo da sempre e lui mi dimostrava affetto e gli piaceva venire a casa nostra, pranzare, parlare. In un'intervista su Musica Jazz aveva anche detto delle belle cose su di me. Ho bei ricordi di lui.

F.P.: Non dimentichiamo l'incontro con Mingus!

D.P.: Mi telefona un mattino Filippo Bianchi: "Devi venire subito, stiamo incidendo e non è venuto Jimmy Knepper" e io gli dico sì ma chi è il leader? Lui esita e poi mi fa "Mingus" e io gli rispondo "Tu sei matto! Io non vengo," poi mi ha detto "Ti prego vieni che quello manda per aria tutto...". Insomma erano le musiche per Todo Modo di Elio Petri e Bianchi mi pregava di venire dicendo che Mingus era già molto arrabbiato per il contrattempo. Figurati, conoscevo la storia di Mingus, era uno che menava, aveva rotto un dente a Knepper! Ma era un'occasione che non potevo perdere e alla fine ci vado terrorizzato, le gambe mi tremano, chissà cosa troverò. C'era tutto il suo gruppo, Dannie Richmond, Jack Walrath... Lui se ne stava con un cappellone nero in testa e un sigaro enorme. Per fortuna c'era il sassofonista Giancarlo Maurino, almeno uno dei nostri, che mi guarda e senza parlare mi fa un cenno con la mano come per dire "qui si mette male". Ho pensato "Andiamo bene!". Abbiamo cominciato e malgrado i timori la seduta è andata liscia, pacifica! Poi ci siamo spostati nello studio di Umiliani, non ricordo per quale motivo, forse il suono e lì, anche se non era contemplato che improvvisassi, a un certo momento in un blues, dopo un assolo di Walrath, mi indica e dice "You play". Ancora più emozionato ho beccato la plunger che avevo lì per terra e ho improvvisato.

AAJ: Mingus amava il suono degli ottoni con sordina plunger!

D.P.: Infatti avevo capito che era la cosa giusta da fare! Dopo mi ha guardato e mi ha sorriso, insomma tutto bene... e meno male, l'abbiamo scampata!

AAJ: Mi parli dell'incontro con Gil Evans?

D.P.: Suonammo dei suoi arrangiamenti di standard, ad esempio "Gone, Gone, Gone" da Porgy & Bess.

AAJ: Si dice che l'avete suonato più preciso che nel disco di Miles.

F.P.: Non ci vuole molto...

D.P.: Abbiamo anche fatto un concerto con lui e Archie Shepp. Poi c'è un'altra esperienza importante fatta da me e Gianni Basso, con Thad Jones. E lì te lo raccomando eh, è durata quindici giorni, siamo andati al Festival del Jazz di Sanremo. Lì ogni giorno c'era una sorpresa, perché lui era fatto, beveva, alle 11 di mattina aveva bevuto mezzo litro. Gianni lo guardava, guardava la bottiglia, poi si girava a guardarmi e tremava anche lui: "Ha già bevuto mezza bottiglia!" e io gli rispondevo "Che si arrangi!". Era severo, ce l'aveva con la Prima Tromba, Bellotto si chiamava, anche se l'aveva portato lui.

F.P.: Lo usava come valvola di sfogo.

D.P.: C'erano cinque trombe: Idrees Sulieman, Bellotto, Benny Bailey, Dusko Goykovich e uno svedese che poi ha suonato con Bob Mintzer e amava Miles, ma adesso non ricordo il nome. Fra i tromboni: Bob Burgess, io, un altro svedese. Lui in quel periodo viveva in Scandinavia e si era portato qualche musicista da lì.

F.P.: C'era Jerome Richardson come Primo Alto.

D.P.: Jerry Dodgion, Sahib Shihab al baritono, insomma una splendida orchestra. Abbiamo anche registrato un disco. Un grande esperienza.

AAJ: C'è un'altra esperienza interessante di qualche anno prima. Col Sestetto avete vinto il premio Arden for Men e siete andati in America.

D.P.: Sì era una gara che come premio aveva un viaggio a New York, era il 1962. Fu solo una vacanza perché per le norme sindacali americane non potevamo suonare, ma ci divertimmo andando a sentire jazz ovunque. Ricordo una sera, suonava Miles, noi entrammo e lui deve aver capito che eravamo musicisti stranieri, bianchi, allora voltò la schiena, sai aveva un carattere... Con lui c'erano J.J. Johnson, Hank Mobley, Philly Joe Jones.

AAJ: Non aveva suonato in jam con voi alla Taverna Messicana?

D.P.: Io ancora non c'ero, me l'hanno raccontato. Arrivò nel locale, si mise a sedere e per un po' non disse nulla. Poi salì sul palco e iniziò a suonare. Non smetteva più e alla fine Glauco Masetti, che era un omone, si stufò e un po' alla volta lo spinse fuori dal palco...

AAJ: Forse per questo motivo vi diede la schiena rivedendovi! Scherzi a parte, chi erano i vostri rivali in gara?

D.P.: Tutti: Cerri, Intra, il Quartetto di Lucca, Randisi dalla Sicilia e altri, ma allora il Sestetto era il massimo.

F.P.: Su You Tube si trova il filmato della premiazione.

D.P.: Avevamo degli arrangiamenti splendidi, di Bob Brookmeyer.

AAJ: Brookmeyer non è molto conosciuto come arrangiatore, ma scrive cose geniali.

F.P.: Uno dei più grandi arrangiatori che ci siano. Quando è venuto in RAI abbiamo suonato le sue partiture e la concezione della sua scrittura mi ha sempre affascinato.

D.P.: Anche lui molto esigente.

AAJ: Quando l'ospite in RAI, mettiamo Konitz, non era un arrangiatore, come si faceva con le parti per la big band?

D.P.: Spesso le portavano loro.

F.P.: Freddie Hubbard lo fece ad esempio.

AAJ: Una domanda per chi come voi ha passato tanti anni in Tv: adesso le orchestre sono diventate una specie di karaoke per fare da base a cantanti spesso molto improvvisati: ci potrebbe essere ancora lo spazio per fare musica coniugando intrattenimento e qualità come è stato fino ai primi anni Ottanta?

F.P.: Diciamo che il livello si è abbassato moltissimo. Intanto le orchestre RAI non esistono più. Quella di cui faccio parte io è incompleta, è un gruppo spesso utilizzato per integrare organici esterni. Se vedi le trasmissioni di una volta la musica era eccezionale, accompagnava balletti molto articolati, gli arrangiamenti erano di musicisti come Gianni Ferrio, Bruno Canfora, nei primi anni Sessanta anche Morricone! Era una cosa stupenda, io ho avuto la fortuna, entrando nell'82, di suonare con Ferrio e Canfora. A parte gli incontri con i jazzisti di cui parlavamo prima, la musica che si faceva abitualmente in televisione era scritta benissimo.

D.P.: Perché c'erano gli arrangiatori.

F.P.: E c'erano gli autori dei programmi che volevano la musica in un certo modo. La trasmissione era concepita con estrema cura. Ferrio sapeva con venti giorni di anticipo quello che avrebbe dovuto fare. Adesso ti dicono "Domani facciamo questo" oppure "Mettevi d'accordo che si registra fra un'ora".

D.P.: Tutto accrocchiato, come diciamo noi.

F.P.: Adesso sono rimasti in pochi, ad esempio Pippo Caruso che ancora scrive con cura. Ci sono dei giovani bravi, ma la concezione della trasmissione è del tutto cambiata, sono diversi i tempi, gli spazi, è tutto più improvvisato e la musica ne risente. Prima era tutto organizzato: c'era un balletto, poi la cantante, magari Mina che faceva il pezzo con l'orchestra!

AAJ: Dalle vostre espressioni immagino che lavorare con Mina vi desse molta soddisfazione!

D.P.: Franco no, ma io ho lavorato parecchio con Mina, abbiamo anche fatto un mese alla Bussola. In RAI passavano tutti i cantanti e spesso dopo facevamo i dischi con loro: da Jula de Palma a Helen Merrill, Aznavour, Caterina Valente.

AAJ: Caterina Valente è oggi quasi dimenticata, ma ha fatto cose notevoli anche nel jazz.

D.P.: Aveva una musicalità pazzesca, si accompagnava benissimo con la chitarra.

F.P.: Ha inciso anche con l'orchestra di Count Basie diretta da Thad Jones: Valente 86.

D.P.: Questi erano i cantanti d'elite, poi passava tutto. Noi facevamo anche Canzonissima, ma c'era sempre un'impronta di professionismo. L'orchestra suonava e suonava bene! I maestri scrivevano bene e pretendevano. Era così.

AAJ: Parlando di scrittura, tu Franco oltre che trombettista, ti sei presto dedicato all'arte dell'arrangiamento.

F.P.: Sì. Le big band mi sono sempre piaciute, sin da bambino. Amavo il suono dell'orchestra. Poi a circa diciassette anni ho iniziato a studiare arrangiamento con Giancarlo Gazzani e mi sono appassionato: passavo le giornate a suonare la tromba e le notti a scrivere. Mi facevo spedire le partiture americane e le analizzavo. Suonando in orchestra gli arrangiamenti di Ferrio, di Canfora, avevo nell'orecchio quel tipo di sonorità che poi andavo a verificare nelle loro partiture. Così mi sono creato un mio linguaggio e ho iniziato a scrivere subito. Il primo pezzo l'ho composto a circa diciotto anni.

AAJ: Quali arrangiatori ti hanno particolarmente colpito e formato?

F.P.: Gil Evans non smette mai di stupirmi, scopri sempre degli impasti, delle cose nuove, ha un modo di scrivere particolarissimo. Ti aspetti che magari un passaggio di agilità lo faccia fare ai sax, che poi lui non usa quasi mai, invece lo assegna a trombe e tromboni e ti stupisce con colori sempre diversi. Dopo di lui Thad Jones, con la sua concezione armonica innovativa, Bob Brookmeyer che continua a scrivere cose pazzesche. Anche Maria Schneider, che non per niente è stata copista di Evans e allieva di Brookmeyer. Ha una scrittura interessante, cambia molte situazioni, ogni solista è accompagnato da una diversa orchestrazione. Impasti, colori, una scrittura davvero bella.

AAJ: Basie, per tutti quelli che suonano in big band è una specie di papà, c'è un periodo che ami in modo particolare?

F.P.: Da ragazzo il disco con Neal Hefti, The Atomic Mr. Basie l'ho proprio consumato.

D.P.: Anche io, dopo Miller e Dorsey, ho amato Basie, ma anche Woody Herman mi piaceva molto, sempre divertente!

F.P.: Duke Ellington l'ho scoperto più tardi, la sua musica richiede maggior maturità per essere apprezzata. Basie e Herman sono più immediati. In Ellington mi affascina la sua concezione timbrica, la scrittura estesa delle suite.

AAJ: Infatti con una suite si apre un tuo disco di grande valore, Interplay for Twenty, purtroppo ora fuori catalogo. Mi viene da pensare che negli ultimi anni non avete goduto di una grande esposizione discografica, per fortuna alcuni progetti documentano bene la vostra musica. Parliamo del gruppo Idea6 che ha realizzato due CD per Dejavu.

D.P.: La proposta nasce dal produttore Paolo Scotti, che un giorno viene a Roma e mi telefona, chiedendo di registrare con me, Basso e Guido Pistocchi un primo disco: Metropoli. Questo perché aveva sentito delle cose che avevo fatto nella trasmissione Amico Flauto, era il 1972 e con me c'era Gino Marinacci che era un po' la mente del progetto. Allora andavano molto i flautisti e si fece questa trasmissione televisiva con tutti musicisti interni alla RAI e il successo fu enorme. Fra gli ospiti ricordo Art Farmer, Mina, Trovajoli, Gazzelloni, Franco Petracchi. Insomma Scotti la ricordava e voleva risentire il brano "Metropoli" che aveva ascoltato lì.

AAJ: Poi nel 1970 Gino Marinacci aveva inciso ...Idea e molti brani di quel disco furono suonati nella trasmissione. Da qui al nome Idea6 il passo è breve.

D.P.: Certo. Insomma accettai, ma si dovevano mettere giù gli arrangiamenti, non solo di quel brano ovviamente, ognuno di noi doveva portare qualcosa. E io ovviamente mi sono rivolto a mio figlio che ha partecipato come arrangiatore e autore. Basso e Pistocchi hanno portato le loro musiche e così abbiamo inciso questo disco che andava per il Giappone, dove è piaciuto e ci hanno invitato per un tour di dieci giorni. Sempre per il Giappone abbiamo inciso il secondo CD Stepping Out. Insomma pare che questa cosa vada, però... vediamo dalla SIAE! Sai le parole stanno a zero...

AAJ: Come mai in Italia nessuno compra più CD e in Giappone avviene il contrario?

D.P.: Non so risponderti, ma pensa che lì hanno richiesto anche la versione in 33 giri di Stepping Out per audiofili!

AAJ: Con Pistocchi avevate già lavorato?

D.P.: Sì, anche Franco ha suonato con lui. Io lo conoscevo quando suonava con Bob Azzam, avevano un'orchestra da ballo. Pistocchi è sempre stato un amante del jazz, ma all'epoca suonava nei dancing, allora veniva sempre ad ascoltare noi e Mina alla Bussola, magari prendevo lo strumento e faceva un blues. Bravo e appassionato.

F.P.: Molto preparato.

AAJ: Notavo in questi dischi che tutto è molto nitido e conciso, senza sbavature. Di rado le improvvisazioni durano più di un chorus. Sembra un piccolo manifesto di estetica musicale.

D.P.: E' una scelta di impostazione, se no fai quattro pezzi e hai chiuso il disco. Se fai tanti chorus o sei molto bravo, ma devi essere Coltrane, se no è meglio volare più basso. Quando il solo dura troppo, stai attento che mi hai già detto tutto prima. La regola è dire poche cose giuste.

AAJ: Senza Basso il progetto potrà avere un futuro?

D.P.: Sai ci sono molti musicisti bravi, tecnicamente anche superiori a quelli della mia generazione, ma in Basso c'era qualcosa di particolare, c'era un sound, un modo di suonare, un'intesa assoluta. Aveva tutte le caratteristiche del jazz acquisite in modo naturale, profondo. Io ho un piccolo gruppo con dei giovani e mi piace suonare con loro, ma se fai "Bernie's Tune" con Basso, tutto è giusto, le pronunce, gli accenti lo stile. Con gli altri c'è sempre qualcosa che non quadra.

AAJ: Un altro progetto discografico importante che vi ha visto assieme in questi anni è Omaggio a Armando Trovajoli, che avete inciso dal vivo alla Casa del Jazz ed è stato pubblicato da L'Espresso nella serie Jazz Italiano Live 2008.

F.P.: L'idea è stata nostra, volevamo fare un omaggio a delle canzoni che sono ormai entrate nel patrimonio di tutti. La sfida era nel dare una forte impronta jazz senza perdere la loro identità melodica.

D.P.: Una cosa molto difficile.

F.P.: All'inizio il Maestro quasi si tirò indietro, per una specie di eccessiva modestia e ritrosia. Sai ha un carattere severo e molto critico, anche con se stesso. Poi ha accettato e ha scelto i brani da rielaborare. E' iniziata così una collaborazione per me emozionante, andavo da lui tutti i pomeriggi per fargli vedere cosa scrivevo e ricevere la sua approvazione scrupolosa. Alla fine mi ha regalato una composizione inedita "Jazz Prelude," un brano difficile con tanti cambi di tempo, e mi ha detto in romanesco "vedi un po' cosa ci riesci a fare". Il primo concerto è stato nel 2007 per la settimana del cinema organizzata da Linzi alla Casa del Jazz. C'era Veltroni che fu così entusiasta da volerci in Piazza del Campidoglio per inaugurare la Notte Bianca l'8 settembre dello stesso anno. Dopo un periodo di stasi, Linzi ha proposto il progetto a L'Espresso e così è nato il disco, registrato nel marzo 2008 e che è andato bene, vendendo credo 20.000 copie.

AAJ: Trovajoli scrive ancora musica?

F.P.: Sì e sono brani davvero belli, innovativi, guarda sempre avanti, ha una mente giovane, non celebrativa.

AAJ: Dino, sei uno dei pochi specialisti jazz del trombone a pistoni, accanto al tuo di nomi se ne possono fare davvero pochi: Juan Tizol, Bob Brookmeyer, Bob Enevoldsen. Hai mai provato il desiderio della coulisse?

D.P.: Mai! Pensa che all'inizio suonavo nella banda un vecchio trombone a cilindri, neanche a pistoni... Ho provato una volta a suonare col trombone a coulisse, ovviamente conosco le posizioni, ma le mie idee non venivano fuori.

AAJ: Abbiamo accennato prima alla mitica Taverna Messicana, che ambiente era e quali musicisti americani ci sono passati?

D.P.: La taverna era un posto particolare, popolato da entreneuse e dai loro clienti, ma quando passavano a Milano le orchestre americane, dopo andavano tutti lì, a sentire musica, fare jam, mangiare pizza e bere! Oltre a Miles, sono passati Basie e i suoi musicisti, quelli di Stan Kenton, Conte Candoli, Quincy Jones, Brookmeyer. All'epoca li vedevamo come miti, per noi era una grande emozione e imparavamo tantissimo.

AAJ: Chiudiamo con un aneddoto sul rapporto fra Basso e Valdambrini?

D.P.: Gianni era sempre vitale, alla costante ricerca di concerti, iperattivo. Oscar era più introverso, soffriva di ipertensione, ma allora non sapevamo che stava male. Durante un tour lo dovemmo lasciare a Venezia perché un dottore gli misurò la pressione e proibì di proseguire.

Una volta con una vecchia FIAT 2100 scassata (una portiera si reggeva con lo spago) dovevamo fare da Alberobello a Clusone, c'era Romano Mussolini, ma l'auto ci lascia a metà strada. Gianni tutto positivo dice "Non vi preoccupate si sistema tutto," ma eravamo in salita, faceva caldo era il 15 agosto e chiede a Valdambrini di spingere. Allora Oscar perse la pazienza e iniziò a smadonnare contro tutti... per dieci giorni non si parlarono, si rivolgevano a me riferendosi all'altro come se non ci fosse. In pratica mi usavano come tramite per sfottersi, ma alla fine fecero pace: si volevano bene erano del tutto complementari.

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