Home » Articoli » Interview » A dialogo con Emanuele Parrini

A dialogo con Emanuele Parrini

A dialogo con Emanuele Parrini

Courtesy Maurizio Zorzi

By

Sign in to view read count
Emanuele Parrini è il più significativo interprete (non solo) nostrano del violino jazz. Membro storico del Dinamitri Jazz Folklore, già violinista dell'Italian Instabile Orchestra, collaboratore di molte formazioni (Nexus, l'orchestra di Dino Betti van der Noot, il quartetto di Cene Resnik), leader di un proprio quartetto con il quale ha realizzato nel 2016 l'eccellente The Blessed Pince, è da poco uscito con un nuovo disco nel quale compare alla cornetta uno dei più interessanti musicisti d'oltreoceano, Taylor Ho Bynum. Abbiamo conversato con lui per farci raccontare il suo percorso artistico.

All About Jazz: Il tuo disco appena uscito, Digging. Reflections on Jazz and Blues, costituisce l'ultimo episodio di un percorso iniziato nel 2012 e che ha già prodotto lavori di rilievo, con formazioni diverse.

Emanuele Parrini: Considero il trasferimento a Milano, dove ho abitato dalla fine del 2007 al maggio del 2010, una sorta di spartiacque. Fino alla mia partenza per il capoluogo lombardo le mie personali esigenze creative avevano trovato risposta soprattutto suonando con Dimitri Grechi Espinoza nel Dinamitri Jazz Folklore, del quale facevo parte fin dalla fine degli anni Novanta e che tuttora considero un grande laboratorio. Collaborare con tanti musicisti, poi, mi dava comunque la possibilità di sperimentare le mie proprie idee. Non sentivo ancora la necessità di andare oltre, di mettere a punto progetti stabili interamente miei o di far uscire a tutti i costi dei dischi a mio nome. Avevo però già cominciato a maturare delle cose. Avevo pubblicato insieme a Tiziana Ghiglioni Rotella Variations (Splasc(H), 2003), un'esperienza creativa estremamente stimolante il cui presupposto era quello di trasportare in musica il processo creativo che Mimmo Rotella applicava alle opere figurative. Qualche anno dopo è nato 1974 Io So Damn If I Know (Splasc(H), 2006). Allora suonavo con Tony Scott— esperienza per me fondamentale, artisticamente e umanamente—ero già entrato nell'Instabile e con il Dinamitri stavamo sviluppando i rapporti tra musica e poesia. Il nuovo disco voleva sintetizzare tutto questo, dando continuità a Rotella Variations e attualizzando l'idea della New Thing.

AAJ: Poi sei tornato in Toscana, stabilendoti a Firenze.

EP: Sì, e l'ho fatto con alle spalle anche l'esperienza Nexus, la frequentazione dei tanti musicisti milanesi, ma anche con il rafforzamento di rapporti con musicisti come Giovanni Maier e, in seguito, Tony Cattano. Tutto questo aveva fatto crescere in me l'esigenza di lavorare su qualcosa che fosse più propriamente mio. Per soddisfare questa necessità ho dato vita al quartetto e ho iniziato a sviluppare il lavoro in solo. Questa ricerca plurale mi ha portato a mettere a punto quel progetto sfaccettato che è Viaggio al centro del violino, composto da tre dischi che hanno in comune un'idea e anche alcuni brani.

AAJ: Si tratta in realtà di dischi con formazioni estremamente diverse tra loro.

EP: Esattamente. Nel primo disco, Viaggio al centro del violino—Volume 1 (Rudi, 2013), mettevo a frutto la ricerca condotta in quegli anni sullo strumento e sulle sue autonome possibilità performative. Il secondo, Are You Ready? Viaggio al centro del violino—Volume 2 (Rudi, 2014), era tutto al contrario il lavoro con il gruppo più ampio e, in un certo senso, ha un "suono Nexus." Infine, The Blessed Pince (Long Song, 2016) è realizzato con il quartetto. È un disco "cameristico" dal sapore un po' ornettiano, ma nel quale confluiscono anche una molteplicità di riferimenti diversi.

AAJ: Cosa pensi oggi di questo complesso percorso?

EP: Credo che mi abbia portato a un livello di consapevolezza più alto. Oggi mi considero più musicista che violinista. Sono contento, certo, ma penso al futuro. Il percorso continua.

AAJ: Infatti da questo articolatissimo progetto è scaturito il più recente Digging. Come ci sei arrivato?

EP: Nel 2015 ho partecipato al progetto Sonic Genome di Anthony Braxton, al Torino Jazz Festival. Lì ho avuto l'occasione di conoscere meglio Taylor Ho Bynum. L'avevo già incontrato in altre occasioni, ma a Torino abbiamo avuto occasione di parlare e di suonare, trovando un buon feeling sia artistico che umano. E lì abbiamo gettato le basi per una collaborazione, all'interno del mio quartetto. Quando, nel 2017, si sono create le condizioni e lui è potuto venire in Italia, fin dalla prima prova ci siamo resi conto che i punti d'incontro erano molti e che la musica viaggiava alta. Siamo riusciti a fare tre concerti italiani, dei quali è poi finito su disco quello di Padova.

AAJ: Come mai sono stati necessari tre anni per la sua uscita?

EP: Perché per me questi sono stati anni molto densi, soprattutto dal punto di vista personale: mi sono trasferito da Firenze a Livorno, poi mi sono sposato, ho avuto un figlio, ho perso mio padre e infine, con la pandemia, sono tornato a vivere a Orbetello, mio paese di origine. Ciononostante, in mezzo a tutte queste vicende, non ho mai smesso di occuparmi del disco, anche se in maniera saltuaria. Poi è sopravvenuta la quarantena per il Covid, che da un lato mi ha offerto il tempo per lavorarci, dall'altro mi ha reso quasi necessario farlo, per continuare a sentirmi un musicista anche in quel periodo assurdo. Non ho preso granché in mano lo strumento, mi sono mancati voglia e stimoli. Diciamo che, vista la situazione, le priorità erano altre. Invece il confronto quasi quotidiano con Renzo Pognant della Felmay, con il suo interesse e la sua accoglienza, è stato fondamentale per la buona riuscita della produzione. Rifinire il master assieme a Griffin Rodriguez, lavorare alla grafica assieme a mia moglie, raccogliere le foto—sono di Maurizio Zorzi, Enrico Romero e Luciano Rossetti, che ringrazio per l'aiuto che mi hanno dato—mi ha permesso di non chiudermi troppo in me stesso e di sfruttare anche un periodo così surreale. E di realizzare un lavoro di cui sono veramente contento, non tanto perché possa ritenerlo migliore degli altri, ma perché è un disco in cui ritrovo una maturità superiore ai precedenti.

AAJ: Parlaci del disco.

EP: Di fatto si tratta di una formazione composta da persone come Dimitri Espinoza, Giovanni Maier e Andrea Melani, con le quali da tempo condivido un percorso. Nei concerti del 2012—e tu ricorderai quello che facemmo a Cerbaia (clicca qui per leggere la recensione)—il repertorio era più derivativo e la musica più acerba. Gli anni e i concerti ci hanno fatto arrivare a The Blessed Prince con una suite che trova respiro nei chiaroscuri, nei cambi di densità e di direzione, forte di un gruppo compatto e dinamico. Digging, a seguito dell'ingresso di Taylor, sviluppa quella stessa musica, ma attraverso la rottura dei suoi equilibri. Infatti conserviamo quasi tutto il repertorio di The Blessed Prince, ma lo apriamo come una scatoletta: non si aggiunge solo una nuova voce che rende la musica diversa, la sua presenza soprattutto ci fa scardinare la struttura e rende necessarie nuove relazioni, nuove dinamiche.

L'album si apre con la title track, "Digging." Echi di una melodia molto larga e rarefatta si fondono con suoni in libertà sviluppando un intreccio tra gli strumenti molto pacato. Questa atmosfera misteriosa fa emergere brandelli di tema che piano piano prende corpo, sale la dinamica, la tensione aumenta fino a far esplodere la ritmica e si entra all'unisono in "Disk Dosk." Si tratta di un brano molto articolato in cui si alternano momenti di pieno e vuoto, impennate di dinamica si risolvono in improvvisazioni in solo, assoli su ritmo molto serrato lasciano il posto a melodie solenni. Poi, il ritorno all'informale di "Transizioni Morbide" ci porta a chiudere questa parte dell'album, che in un certo senso ne annuncia gli sviluppi, è una dichiarazione di intenti.

Si entra quindi, nel cuore del discorso, "The Blessed Prince," in tre movimenti: la dedica della musica si fa più presente e la rende una suite ricca di riferimenti. La nuova distribuzione delle parti ci allarga gli orizzonti e ci porta nuovi impasti sonori: trovano spazio gli archi e la sezione fiati, il formale e l'informale, gli echi di Ornette e del New York Art Quartet fino allo swing di "San Frediano," che arriva rompendo tutti gli equilibri, per essere poi risucchiato nel "rigore" della suite. Una organizzazione delle cose chiara e strutturata, per essere paradossalmente più liberi. "Blues P," col suo andamento sornione e i riff accattivanti, esaurisce questo episodio.

Dopo aver sviluppato un discorso molto definito, si arriva ad esprimersi in piena libertà con "Reflections on Jazz and Blues," dove la complicità e la passione sviluppate fin lì danno significato a tutto. Il risultato è un gran suono d'insieme, al quale si aggiunge la qualità dei solisti. In altre parole, la struttura è sempre quella di The Blessed Prince, ma ora in una forma tutta diversa, nuova. Una struttura che conserva elementi dei dischi della trilogia precedente, ma li sviluppa con lucida maturità, così da donarci una grande libertà di movimento, senza che si perda mai di vista il percorso che vogliamo fare. Infatti, emblematicamente, la conclusione del disco è un'improvvisazione. Come del resto già traspare dal titolo, Digging è scavare nel profondo, per rinnovarsi.

AAJ: Parlavi di un'anima ornettiana di The Blessed Prince; in Digging come si manifesta?

EP: Innanzitutto nella strumentazione, perché nella formazione sono presenti tutti e tre gli strumenti di Ornette: il sax contralto, la cornetta e il violino; poi negli unisoni, nell'intenzione di certi temi e in alcuni momenti collettivi. Ma Ornette è comunque solo uno dei riferimenti e, come tutti gli altri presenti nel disco, entra nella musica come ispirazione: non suoniamo né la sua musica, né quella di altri, suoniamo la nostra.

AAJ: Il disco arriva però in un momento piuttosto tragico, susseguente al completo congelamento delle attività artistiche del periodo più acuto della pandemia, e anche a distanza di tre anni da quei concerti attorno al quale è nato: quali nuove prospettive apre?

EP: Credo che abbia più di un significato averlo pubblicato. In primo luogo perché è un segnale di vitalità e di resistenza: durante la quarantena sono usciti molti dischi e questo lo trovo un segnale di fermento, un'affermazione di esistenza. Poi, come dicevo, a mio parere è un lavoro importante, perché documenta un passaggio significativo del gruppo, dandomi così una spinta ad andare oltre; infine perché comunque è la pietra da cui ripartire, anche con la presenza di Taylor. Infatti adesso ho l'esigenza di provare materiale nuovo, di nuovi suoni. Il primo concerto che abbiamo fatto, in quartetto al Jazz Festival di Torino in ottobre, ha già portato dei cambiamenti sia nel repertorio, sia nella formazione—una cosa, quest'ultima, che mi apre possibilità nuove dal punto di vista timbrico. Poi cercheremo occasioni per suonare sia in quartetto, sia in quintetto, sebbene in questo momento ci si muova veramente male, condizionati dagli alti e bassi della diffusione del contagio nelle diverse nazioni.

AAJ: I concerti sono ripresi?

EP: Per qualcuno sì, altri invece fanno una gran fatica... Il lockdown ha reso evidenti problematiche già presenti da tempo e ne ha aggiunte altre a un sistema concertistico bloccato da mille perversioni.

AAJ: L'esserti trasferito a Orbetello ti complica molto le cose?

EP: Non più di tanto, in realtà: spostarsi da qui o da Livorno non è molto diverso; certo, è cambiata la vita quotidiana, mancano gli amici e ci dovremo confrontare con una realtà sostanzialmente nuova, ma sarà da stimolo per darsi da fare.

AAJ: Accanto a questa formazione continuerai a portare avanti anche il lavoro in solo e in formazioni più piccole?

EP: Certamente, infatti sta per uscire un disco in duo con Roberto Bellatalla, con il quale ci siamo ritrovati dopo molto tempo. Un incontro felice: abbiamo sempre avuto una grande intesa e dopo un po' di concerti ne abbiamo registrato uno particolarmente ben riuscito. Per quanto riguarda il solo invece vorrei sviluppare anche nuove modalità, magari muovendomi in modo totalmente libero, cosa per la quale in passato non mi sentivo ancora pronto; ma lo farò forse un po' più avanti, adesso ho bisogno di dedicarmi ad altro.

Comments

Tags


For the Love of Jazz
Get the Jazz Near You newsletter All About Jazz has been a pillar of jazz since 1995, championing it as an art form and, more importantly, supporting the musicians who create it. Our enduring commitment has made "AAJ" one of the most culturally important websites of its kind, read by hundreds of thousands of fans, musicians and industry figures every month.

You Can Help
To expand our coverage even further and develop new means to foster jazz discovery and connectivity we need your help. You can become a sustaining member for a modest $20 and in return, we'll immediately hide those pesky ads plus provide access to future articles for a full year. This winning combination will vastly improve your AAJ experience and allow us to vigorously build on the pioneering work we first started in 1995. So enjoy an ad-free AAJ experience and help us remain a positive beacon for jazz by making a donation today.

Near

More

Popular

Get more of a good thing!

Our weekly newsletter highlights our top stories, our special offers, and upcoming jazz events near you.