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Un italiano a Londra: a colloquio con Antonio Forcione

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Si parla tanto di talenti italiani costretti ad andare all'estero. Ebbene, eccone uno che spopola in Inghilterra, suona in tutta Europa ed è stato perfino chiamato da Charlie Haden - uno che di chitarristi se ne intende - per registrare un disco in duo, ma che in Italia conoscono troppo pochi: Antonio Forcione, virtuoso della chitarra, compositore e bandleader molisano, trasferitosi a Londra da ventotto anni. Lo scorso anno abbiamo avuto il piacere e il privilegio di ascoltarlo in un concerto dal vivo (clicca qui per leggerne la recensione), adesso lo abbiamo intervistato per i lettori di All About Jazz e ne abbiamo compilato una discografia e guida all'ascolto.

AAJ: Antonio, comincerei con il chiederti qualcosa sulla tua storia, umana e artistica, che vada aldilà delle mere informazioni biografiche.

Antonio Forcione: Sono molisano, di un paesino in provincia di Campobasso, Montecilfone. Innanzitutto vorrei descriverti il contesto in cui vivevo quando incominciai a suonare all inizio degli anni '70. L'onda del '68 arrivò anche nel mio paese grazie alla TV, ma soprattutto ai numerosi studenti che tornavano spesso dalle università di Milano, Bologna, Perugia, ecc. A me sembrava che tutta la gioventù del paese fosse impegnata a fare qualcosa che portasse aria nuova in paese. Venne aperto un club dove si suonava e si facevano discorsi "alternativi," fu messo in piedi un modesto cineforum, poi c'erano delle radio libere... Io avevo solo otto-dieci anni, ma avvertivo tutto questo fermento anche grazie ai miei fratelli più grandi che vi partecipavano attivamente. Crescere sentendo attorno il desiderio di fare e costruire cose nuove ha senz'altro contribuito a formarmi un certo spirito di ricerca di "autenticità," che ancora coltivo e cerco di riversare nei miei lavori.

Musicalmente ciò che mi ha attratto per primo non è stata la chitarra, ma il ritmo: battevo il tempo dappertutto, non stavo mai fermo con le mani, cosicché mio fratello intuì che forse avevo bisogno di uno strumento a percussione. Ho ancora la bellissima immagine di lui che arriva sommerso da una batteria Hollywood di seconda mano dentro la minuscola Fiat 500... e io che comincio subito a esercitarmi come un pazzo! Il passaggio dalla percussione alla chitarra è stato forse "merito" del calzolaio sotto casa, che non ne poteva più di sentirmi picchiare... ma la batteria è stata la mia prima passione e sicuramente mi "condiziona" nell'approccio alla chitarra e alla composizione.

A dieci anni ho cominciato così con la chitarra acustica, poi con quella elettrica, ascoltando di tutto: da Jimi Hendrix ai Black Sabbath, dai Deep Purple a Santana - che mi colpì subito molto per il suo lato melodico-ritmico. Suonavo in una band insieme a mio fratello e altri, cioè con persone che avevano dai 5 ai 15 anni più di me. Ma ero io che, con grande passione, dedicavo più tempo allo strumento e ai brani. Allora i miei impegni erano tutti concentrati sulla musica e sul pallone! Tra l'altro di quel periodo conservo un'immagine molto bella, quella di una cantina del paese con vecchietti che suonavano violino, mandolino e fisarmonica, da cui uscivano melodie antiche e deliziose in valzer, polke... Più della musica mi colpì l'atmosfera: ecco, quell'idea particolare del fare musica abbracciando, quasi con un effetto terapeutico, le persone che ti stanno intorno, non mi ha mai abbandonato, tanto che spesso ancora la ricerco con i musicisti e il pubblico.

Questo è stato il mio primo periodo formativo, molto stimolante e un po' "anarchico" (anche perché i miei genitori erano emigrati in Germania): mi ha regalato una specie di bussola che mi ha permesso di essere particolarmente aperto verso la vita, oltre che verso la musica.

AAJ: Quando lasciasti il paese?

A.F.: Nel '72, quando andai per un mese a Castelfidardo da mio zio, fisarmonicista professionista: con lui imparai ad accompagnare valzer e danze. Una bella scuola! Dopo quell'esperienza avrei voluto iscrivermi al conservatorio di Pesaro, ma non ci riuscii e avendo sempre avuto una particolare predisposizione per le materie artistiche dirottai su l'Istituto d'Arte di Ancona. Verso i sedici anni ho incontrato un critico musicale di Castelfidardo che aveva una fantastica collezione di dischi. Ci trovavamo bene insieme e mi invitava spesso per ascoltare musica. Fu da lui che sentii cose allora per me incredibili tipo John McLaughlin, Coltrane, e tanti altri.... Sentivo un gran bisogno di conoscere. In quel periodo ho assorbito tanta di quella musica: da un lato sentivo il jazz, dall'altro ascoltavo anche la Nuova Compagnia di Canto Popolare - tanto che iniziai a suonare anche il mandolino! Perché, già allora e come oggi, mi piaceva tutta la buona musica, indipendentemente dai generi. Mentre studiavo all'istituto d'arte e proseguivo la mia ricerca, mi guadagnavo qualcosa realizzando e vendendo sculture. Con quei soldi mi comprai un Akai a 4 piste per registrarmi. Registrandosi secondo me si acquistano consapevolezza e una certa autodisciplina.

AAJ: Ma intanto suonavi?

A.F.: Certo, suonavo un po' dappertutto: nelle discoteche (e mi mantenevo nel week end), suonando un po di tutto, dai Pink Floyd e Gloria Gaynor al liscio. Contemporaneamente avevo anche un gruppo rock con i compagni dell'istituto d'arte. Suonavo anche cose mie, perché dall'età di tredici anni mi sono sempre divertito a comporre, anche se i brani erano abbastanza semplici. È sempre stato un mio pallino.

Mi vedo un po' come un artigiano della musica, forse perché amo lavorare con le mani in generale: nel periodo dell'istituto d'arte amavo la scultura, che adesso purtroppo non pratico più. Però disegno: quando posso, in maniera molto impulsiva; mi sono fatto anche qualche copertina di disco quando ho avuto tempo e ispirazione.

AAJ: Quando hai iniziato a prendere lezioni?

A.F.: A dire il vero presto, a undici anni dal barbiere di Montecilfone...

AAJ: Dal barbiere?

A.F.: Sì, non lo sapevi che una volta i barbieri erano quelli che avevano piu possibilità di imparare a suonare gli strumenti? I motivi sono due: anzitutto, avevano più tempo a disposizione; in secondo luogo, il loro mestiere non rovinava le mani come ai contadini, quindi non avevano il problema dei calli nelle mani... Forse - come diceva a mo' di battuta un amico chitarrista inglese - quando a New York suonavano le orchestre di mandolini era impossibile trovare chi ti tagliasse i capelli...

AAJ: Poi sei andato a Roma...

A.F.: Sì, m'era venuta voglia di approfondire la mia conoscenza dell'armonia. Così, dopo aver assistito ad un concerto di Franco Cerri a Loreto, gli chiesi a chi potevo rivolgermi e lui mi fece il nome di un chitarrista della RAI, Sergio Coppotelli. Lo raggiunsi a Roma e feci oltre due anni di studi con lui, per dare una "disciplina" alla mia creatività un po' anarchica di autodidatta.

AAJ: E a Roma che hai fatto, oltre seguire le lezioni?

A.F.: Vivevo un po' fuori città e per andare un'ora a lezione dovevo fare quasi due ore di viaggio in autobus. Ho vissuto un periodo di intensa solitudine senza soldi e tantissimi dubbi sulla vita e la mia professione. È stato allora che conobbi la musica di Egberto Gismonti, Paco De Lucia, Ralph Tawner, Jan Garbarek, Keith Jarrett, ovvero stili un po' di confine che mi avrebbero influenzato molto. Anche per quello in quegli anni - erano il 1981 e il 1982 - studiavo e mi allenavo parecchio, però suonavo pochissimo in pubblico: non trovavo ingaggi, mi presentavo con la chitarra spagnola dove volevano chitarristi elettrici. Così, per pagarmi le lezioni Jazz ho fatto anche il muratore, per sei mesi. Un periodo duro: mi alzavo alle sei di mattina, facevo solfeggio, poi due ore di autobus per andare a Roma, andavo a Villa Borghese o a Piazza Navona e mi esercitavo su una panchina, cosi mi sentivo meno solo. Era un periodo di studio, frustrazione e solitudine.

AAJ: Il salto verso Londra è maturato in quel buio?

A.F.: Sì, un amico mi disse: "dai, andiamo a Londra, ho un conoscente in un'agenzia di viaggi che ci fa avere i biglietti gratis". Le parole "Londra" e "gratis," in quel buio, furono un lampo! Poi, sai com'è, tutti si tirano indietro, ma io invece no, volevo partire... Così parto e vado a Londra. Là conoscevo solo la mia ex ragazza, che mi venne a prendere, e il mio inglese non era poca cosa, era niente! Arrivato lì mi dissi: mal che vada imparerò un po' la lingua....

Era il maggio dell'83. Andavo nella metropolitana con delle basi registrate da me e suonavo: brani miei e di Django Reinhardt... Poi, qualche mese dopo mi hanno parlato di Covent Garden, dicendomi che lì si suonava e la gente ascoltava - diversamente dall'Underground, dove ti danno dei soldi per solidarietà, non perché ti ascoltano e ti apprezzano. Sono ovviamente corso subito là e per me è stata una vera svolta! Suonavo in piazza brani anche piuttosto difficili di Paco De Lucia, Al Di Meola e John Mc Laughlin, e qualche mia composizione, insieme a un chitarrista spagnolo che avevo incontrato là. Poi, dopo un paio di mesi - era il luglio dell'83 - la BBC organizza al Covent Garden un concorso per artisti di strada. Dico: la BBC! Per cui c'erano migliaia di persone, cinque o sei telecamere, artisti di qualsiasi tipo - musicisti, comici, danzatori, mimi - e Donovan tra quelli che ho riconosciuto nella giuria. Trecento partecipanti! Quando arriva il mio turno, suono una tarantella con il mandolino e un pezzo di Paco De Lucia con il mio amico spagnolo; poi - visto che la cosa andava per le lunghe e avevo l'affitto da pagare il fine settimana - vado piu in là e mi metto in un angolo a suonare come tutte le altre sere. Dopo un'ora arriva una ragazza e, un po' allarmata, mi invita a seguirla: io non capivo. Mi porta dalla giuria e scopro di aver vinto il premio! La BBC ci fece rifare il pezzo per filmarci e ci dettero un premio di circa 120 sterline. Capisci che, dopo aver trascorso tre anni a Roma senza una sola possibilità, vincere un premio della BBC dopo solo due mesi a Londra mi fece pensare: "io col cavolo che torno in Italia!"

AAJ: Il premio ti aprì delle possibilità?

A.F.: Più che possibilità, mi aprì gli occhi! Fu una cosa simbolica, un abbraccio con cui Londra mi accoglieva! Decisi di rimanere e, quando vidi che riuscivo a mantenermi con la musica, capii che era una grande conquista di libertà e indipendenza. Da allora, di conquista in conquista, sono venuti i primi concerti nei pub e negli Arts Centre, poi i primi due album, fino al grande salto, nell'87, segnato dal contratto con la Virgin per l'album Celebration e dalla turnée in Inghilterra e Irlanda con grandi chitarristi come Barney Kessel, Martin Taylor, Bireli Lagrane, Jorge Morrel e Vic Juris.

AAJ: Che repertorio avevate con il Duo?

A.F.: Brani originali, spesso scritti in un caffè durante le pause, nel nostro periodo "di strada".

AAJ: E il tuo stile di allora come lo definiresti? Era già simile a quello di oggi?

A.F.: Che vengo da lì si vede anche oggi, anche perché suonare per strada è una grande esperienza ed è difficilissimo: non devi solo suonare, devi sforzarti di attrarre l'attenzione, proiettare il tuo messaggio, vincere la distrazione. Da questo punto di vista mi sento un po' un privilegiato per aver fatto anche questo tipo d'esperienza. Però oggi credo di avere molta più maturità, specie dal punto di vista compositivo.

Tuttavia, trovo molto difficile definire uno stile, sento di aver assorbito tanta di quella musica e tante influenze che mi portano a dire "non sta a me definire il mio stile, io mi limito a suonare e comporre".

AAJ: Ho visto che hai anche esperienze come mimo.

A.F.: A Roma feci un corso di yoga e mimo, ma lo feci per me, per l'anima e il corpo. La mimica e il movimento sono due delle tanti espressioni che trovo molto interessanti. Negli anni '90 ho lavorato con un gruppo di teatro demenziale comico-musicale, che si chiama OLÈ: abbiamo dato spettacoli in tutto il mondo - Australia, Giappone, Hong Kong, Canada - vincendo anche premi ed è stata un'esperienza che mi ha dato moltissimo.

AAJ: Ma tu suonavi solamente?

A.F.: No, no, suonavo e coreografavo insieme al mio amico Paul Morocco; erano brani originali di musica, durante i quali si ballava e si palleggiava la chitarra mentre la si suonava contemporaneamente. Uno spettacolo comico basato su tre caratteri Spagnoli in forte competizione tra loro. Alcune di queste coreografie vengono ancora usate da nuovi gruppi OLÈ, e alcuni passaggi sono stati ripresi da comici Italiani come Aldo, Giovanni e Giacomo, che hanno avuto il gruppo OLÈ come ospite in televisione.

AAJ: Che poi è quel che fai anche oggi nei concerti, specie nei duetti con Adewale...

A.F.: ...ah, non e' proprio così, oggi faccio musica divertendomi, mentre in quelli spettacoli mi divertivo facendo un po' di musica! Anche se è vero che sono un po' un giocherellone: mi piace divertirmi, e il divertimento è una cosa molto seria per me.

AAJ: Capisco. E, personalmente, apprezzo: se un musicista è capace di suonare benissimo e di fare anche spettacolo, perché non dovrebbe farlo? In fondo è un vantaggio. Due spettacoli in uno!

A.F.: Sì, è un grande vantaggio. Quando, nelle mie tournée con gli OLÈ, mi è capitato di interrogarmi se non fosse il caso di tornare a suonare ed evitare la comicità, un grande clown argentino di nome Tanderika mi ha detto: "e perché mai? Chitarristi bravi ce ne sono tanti, ma chitarristi bravi che sanno anche fare quello che fai tu sul palcoscenico non ce ne sono!". E questo mi ha fatto pensare... Oggi io credo che se in uno spettacolo riesci a regalare al pubblico una rosa di emozioni più ampia - dal piacere musicale al riso, dall'impressione drammatica allo stupore - hai realizzato uno spettacolo più completo. Certo, qualche volta mi è venuto qualche dubbio se fare o non fare certe cose; ma alla fine mi sono ribellato alla pressione dei critici puristi o al cliché del musicista "serio". E la spinta definitiva è venuta dalla considerazione che la cosa più importante è essere se stessi (la vecchia scuola insegna!).

AAJ: Oggi, però, tu sei non solo uno straordinario chitarrista, ma anche il leader di un gruppo composto da gran bei musicisti e che fa una musica piuttosto complessa e personale. Come sei arrivato a mettere in piedi un quartetto con una varietà espressiva e tonale così ricca?

A.F.: Ascoltare tanta musica mi ha sicuramente aiutato a sviluppare una particolare sensibilità sui colori da usare quando si "dipinge" un brano. Il violoncello a me piace moltissimo, la sua voce è la piu vicina a quella della voce umana, il contrabbasso e le percussioni credo si sposino molto bene con le mie chitarre acustiche e le mie ambizioni musicali. E poi io non ho mai pensato solo alla chitarra, anzi, amo i cantanti e i sassofoni, perché per me la melodia è fondamentale...

AAJ: ...curioso, visto che hai iniziato dalla batteria!

A.F.: E infatti ritmo e melodia sono le due cose che per me sono centrali; se l'armonia ha il fascino della consapevolezza, la melodia ha per me quello dell'immediatezza.

AAJ: E quanto conta il rapporto umano con i membri del tuo quartetto?

A.F.: Tantissimo! Io ho lavorato con molti altri musicisti, prima, gente brava e anche famosa. Non è che non andavamo d'accordo, ma con questi musicisti siamo in primo luogo amici. Poi, hanno tutti la stessa voglia artigiana di crescere: c'è uno spirito comune, sento che hanno voglia di fare cose belle insieme. Poi, anche come singoli, sono straordinari: Nathan Thompson, il contrabbassista, insegna in una delle scuole di musica piu rinomate qui a Londra, ha vissuto per anni in Africa assorbendo musica africana; Adriano Adewale ha studiato percussioni al conservatorio di San Paolo ed è veramente bravissimo; Jenny Adejayan ha studiato musica classica, ha un orecchio assoluto ed è una delle poche violoncelliste che sa esprimersi anche con ritmi e fraseggi complessi. Non c'è niente che io possa fare e che lei non sappia rifarmelo al violoncello...

AAJ: Quanto conta l'improvvisazione nella vostra musica?

A.F.: Quanto il tema: è importante che ci sia l'improvvisazione, ma è importante che ci sia anche il tema. In certi casi, quando il tema racconta tutta la storia, è importante non appesantire con l'improvvisazione; altre volte il tema ha bisogno di essere ampliato e allora improvviso di più.

AAJ: Ma il tuo rapporto con il jazz qual è?

A.F.: Il jazz è l'aspetto più creativo della musica di oggi. Ed è un pezzo della mia storia musicale, perché quei due anni di studio del jazz a Roma me li tengo ben stretti. Per questo, sebbene l'aspetto compositivo sia quello che oggi mi dà maggiore soddisfazione, nelle mie composizioni c'è sempre spazio per l'improvvisazione e, anzi, la sfida per me più eccitante è salire sul palco e fare un pezzo, dall'inizio alla fine, senza averlo preparato. Quando mi sento bene, fisicamente e psicologicamente, è una sfida che a volte affronto. Anche se la liricità, lo ribadisco, mi attrae molto: è importante essere lirici, ben più che seguire una complicatissima serie di accordi in ritmi dispari.

AAJ: Su questo credo che nel tuo incontro con Charlie Haden non ci siano stati problemi, perché lui - pur essendo un musicista dalle frequentazioni improvvisative anche molto libere - senz'altro la liricità la sente fortemente.

A.F.: Sì, addirittura molto di più di quanto potessi pensare. Quando sono andato da lui a Los Angeles, stupito dalla sua chiamata, non sapevamo ancora neppure cosa avremmo suonato.

AAJ: Come ti aveva conosciuto?

A.F.: Qualcuno gli aveva fatto sentire dei miei dischi e lui li aveva molto apprezzati. Ricordo che era stato particolarmente colpito da un mio brano, "Snow": ci aveva sentito subito un tocco che gli piaceva e per questo aveva deciso di voler suonare con me. Io portai anche altri brani, un po più ritmati, ma lui ha preferito i piu lirici: voleva fare dei brani in stile ballad, com'è "Snow," che a me piacciono da morire. Avrebbe voluto anche fare degli standard, ma qui sono stato io a dire di no, perché credo che per suonare gli standard sia necessario lavorarci su a lungo e appropriarsi di un certo linguaggio, io ormai sono anni che non li suono quasi mai. "Non c'è problema" mi disse "suoniamo i brani tuoi". Di Haden dicono che sia persona molto severa nei rapporti; in realtà io ho constatato il contrario. Quando sono arrivato e la moglie mi ha aperto la porta, il loro cane mi è corso incontro scodinzolando. Non ti dico che fortuna è stata! Perché Haden ha detto subito che se piacevo a Jackson ero una persona positiva! Nota che Jackson è sulle copertine di tutti i suoi dischi, incluso Keith Jarrett e Michael Breker, quindi anche sul nostro....

AAJ: Un'ultima cosa: come ti spieghi il fatto di essere così poco noto in Italia?

A.F.: Eheh! Questo dovresti piuttosto spiegarmelo tu!

AAJ: Nemo propheta in patria?

A.F.: - Mah, potremmo dire che la società inglese, quanto a meritocrazia è senz'altro più sensibile e ricca di circuiti per i musicisti rispetto a quella italiana... Qui ho fatto delle cose e sono state accolte a braccia aperte; in Italia è successo meno... Anche se negli ultimi anni mi hanno assegnato dei premi, questo non è stato sufficiente a suonare con frequenza nel mio paese natale. La sensazione è che il "giro" dipenda da pochi e su tutto domini la TV. Di fatto l'Italia continua a essere il paese d'Europa in cui suono meno. Tu che spiegazioni mi dai?

AAJ: Certo il panorama organizzativo italiano è molto bloccato sulle "solite" proposte, questo è un dato drammatico per tutti. Più curioso è che tu sia poco noto anche tra gli appassionati: questo può dipendere dal fatto che il tuo stile non è ben classificabile - non sei jazz, non sei pop, non sei rock... - e ciò ha per conseguenza che non sei facilmente identificabile. Infatti, ti conoscono bene solo gli appassionati della chitarra come strumento, che ti apprezzano moltissimo per le tue qualità di virtuoso dello strumento. Ma si parla di una nicchia di persone con gli orecchi aperti per la chitarra.

A.F. - E, in effetti, i due grandi tour che ho fatto in Italia li ho appunto fatti grazie a un francese che lavorava per la Yamaha di Milano. Pazienza: mi basta poter fare le cose che amo... se poi riuscirò a suonare più spesso in Italia, sarà una soddisfazione in più che mi sarò tolta!


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