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Umbria Jazz Winter 20
ByPer quanto riguarda le scelte artistiche di questa edizione del festival invernale, che ha toccato quota venti, esse hanno guardato alla scena più o meno consolidata americana come a quella italiana, privilegiando le voci e, forse non intenzionalmente, anche gli strumenti a corda. Inoltre, come si tende a fare oggi per evidenti motivi, quasi tutte le formazioni invitate hanno proposto il risultato di produzioni discografiche, pubblicate nell'ultimo anno oppure di prossima uscita.
Una delle "scoperte" di Umbria Jazz, e presenza costante nelle ultime edizioni, è la cantante chicagoana Dee Alexander. Nei cinque concerti orvietani, in cui il suo Evolution Ensemble era integrato dalla flautista Nicole Mitchell, la cantante ha affrontato repertori ogni volta in parte diversi, includendo suoi original e composizioni di colui che lei considera suo mentore: il poliedrico musicista chicagoano Henry "Light" Lincoln Huff, scomparso nel 1993 e dedicatario anche del CD Sketches of Light, che la Egea ha presentato in anteprima al festival.
Su ritmi sostenuti, regolari e danzanti, irrobustiti da riff e da reiterazioni incantatorie, oppure sulle linee melodiche più avvolgenti e dilatate delle ballad, la Alexander ha comunque perseguito una narrativa distesa e ipnotica, venata di una naturalezza e di una grazia primigenie. La sua espressività vocale e mimica si è estesa dalle inflessioni leggiadre e scanzonate della ragazzina vezzosa al più caldo e scuro periodare della matura e orgogliosa donna di colore. La Mitchell e la violoncellista Tomeka Reid sono emerse in evidenza solo a tratti, comunque con piglio deciso, mentre costante e pertinente è stato il lavoro del contrabbassista Junius Paul (particolarmente notevoli gli impasti armonici generati da cello e basso archettati) e soprattutto del batterista e percussionista Yusef Ernie Adams. Il chitarrista Scott Hesse, che in organico è subentrato al violinista James Sanders, ha contribuito con la limpidezza del suo fraseggio. Oltre che cantante dalle variate modulazioni, la Alexander si è confermata leader autorevole ed esponente autentica della cultura afro-americana della chicagoana AACM.
Se la Alexander era già ben nota al pubblico di Umbria Jazz, quasi madrina rassicurante della manifestazione, novità assoluta di questa ventesima edizione invernale è stato Gregory Porter. In questa apparizione italiana, il quarantenne cantante californiano è stato preceduto da un'esposizione mediatica (promossa in patria in occasione dell'uscita del suo secondo CD, Be Good della Motéma) forse sproporzionata rispetto al suo reale valore. Questo a dimostrazione del fatto che il mercato americano, e di riflesso quello europeo, è da tempo alla disperata ricerca di protagonisti trainanti nel mondo della vocalità.
Che dire di Porter? Talento autentico o personaggio costruito? Non è possibile per il momento azzardare giudizi definitivi; certo che a Orvieto la sua bella voce, dai timbri pastosi e bruniti, ben radicata nella tradizione nero-americana fra soul e jazz, è sembrata finalizzata a un approccio interpertativo un po' troppo generico, non particolarmente personale e tanto meno innovativo. Come decisamente sgangherata e velleitaria è parsa la band che lo accompagnava.
Ben più omogeneo e pertinente, con musicisti di calibro, alcuni dei quali da tempo al fianco del leader, si è dimostrato il quartetto che ha sostenuto un altro cantante, di classe più stagionata: Kurt Elling. Il suo progetto, già sintetizzato in 1619 Broadway The Brill Building Project, si basa su un repertorio pressoché sterminato di song. Elling ha esposto tutto il campionario di accorgimenti tecnico-vocali e interpretativi di cui dispone: accenti e inflessioni variate, enfasi, smorzature, una grande estensione dal grave all'acuto, soprattutto un timing arguto e insinuante, uno scat funambolico, dinamiche sapientemente gestite, introduzioni verbali, anche autobiografiche, con voce impostata e coinvolgente... Se per chi ama le etichette il canto crooner può costituire un genere interpretativo a sé stante, di quel genere Elling è uno degli esponenti più rappresentativi da decenni. Nel bis si è poi calato nel repertorio brasiliano con una magistrale interpretazione di "Luiza".
Se la musica brasiliana non può mancare a Umbria Jazz, allora che sia nelle forme espressive più veraci. Così è stato con il Paula Morellenbaum Cello Samba Trio, impreziosito dal grande violoncellista Jaques Morellenbaum, marito della cantante e già presente a Orvieto dieci anni fa. La formazione ha tradotto il samba in un'espressione cameristica, interpretando un repertorio di super classici con quell'approccio rilassato ed empatico che presuppone un'adesione intima alle ragioni della vita, un fatalismo un po' malinconico, ma mai arrendevole o pessimista, una scanzonata e poco ansiogena visione del mondo, una condivisione del proprio stato d'animo con amici fidati...
La voce della leader, diafana, confidenziale e senza vibrato, era sostenuta dalle trame danzanti e soft, ma talvolta più affermative, prodotte dal violoncello, dalla chitarra acustica del bravo Lula Galvão e dal misurato drumming di Marcelo Costa. Tutto autentico e coinvolgente quindi, anche se la sonorità compatta del violoncello privo di cassa armonica di Morellenbaum non era certo paragonabile a quella ricca di risonanze e vibrazioni di un violoncello classico.
La voce era ben presente, anzi protagonista, anche in due dei gruppi italiani che si sono avvicendati più volte e con grande successo sui palcoscenici di Orvieto. In occasione dell'uscita del loro ultimo lavoro, Quintorigo Experience, il versatile quintetto Quintorigo ha reinterpretato la musica di Jimi Hendrix. Arrangiamenti corposi e stringenti, la sonorità degli archi fortemente distorta elettronicamente, con il violoncello di Gionata Costa in grande evidenza, alcuni assoli ben strutturati del tenorista Valentino Bianchi, qualche breve e mirato spezzone storico di Hendrix proiettato alle spalle dei musicisti... E poi le voci: quella apprezzabile di Moris Pradella e quella ben più graffiante e bluesy dell'ospite Eric Mingus, senza dubbio uno dei più significativi e originali vocalist degli ultimi decenni. Tutto questo ha fatto sì che la rivisitazione del mondo del chitarrista americano sia stata efficace e ben motivata, tutt'altro che calligrafica, vicina allo spirito dell'originale omaggiato.
Alla testa del suo ampio e agguerrito gruppo Sousaphonix Mauro Ottolini ha invece riproposto il repertorio del suo doppio CD Bix Factor. Le due cantanti, Vanessa Tagliabue Yorke e Stephanie Océan Ghizzoni, diverse per timbro e ruolo, si sono alternate sul palco in un girandola di abiti-costumi sfarzosi; sono state loro, assieme all'arrochita voce narrante del leader e alle surreali diavolerie sonore e vocali di Vincenzo Vasi, a impersonare personaggi diversi, diventando le conduttrici della storia di fantascienza che costituisce la traccia pretestuosa di questa performance. Ecco che tramite riti woodoo sono stati evocati gli spiriti di Stravinskji, Beiderbecke, Armstrong, Goodman, Eddie Lang ed altri.
Come nel disco l'ambizione progettuale ha rischiato di diventare artificiosa e di prevalere sulla musica. Quest'ultima, nei variati ed elaborati arrangiamenti di Ottolini e sul granitico sostegno ritmico fornito da Danilo Gallo e Zeno De Rossi, ha concatenato brani di vari autori, mettendo in evidenza le diverse personalità della compagine: in particolare Paolo Degiuli alla cornetta, Guido Bombardieri al soprano e clarinetto, Dan Kinzelman al tenore e un superbo Paolo Botti alla viola e dobro.
C'era grande attesa per il nuovo trio di Giovanni Guidi, il cui CD inciso per la ECM nel dicembre 2011, City of Broken Dreams, sarà in circolazione in primavera. La giovane formazione riunisce collaboratori collaudati del pianista di Foligno: alla batteria João Lobo (già compagno di strada nelle esperienze del decennio passato), col suo drumming frastagliato ma sommesso, e Thomas Morgan, contrabbassista oggi richiestissimo e attivissimo (presente anche nel recente quintetto di Guidi), dotato di un sound pacato e asciutto, di un fraseggio lineare e selettivo. Il repertorio ha proposto i nuovi originals del CD, ma ha fatto bene il pianista a rispolverare altre sue riuscite composizioni che hanno già alcuni anni di vita. È il caso di "The House Behind This One," tema neo-folk intriso di nostalgia che è trascolorato in un'interpretazione del famoso "Quizás quizás quizás," prima diafana e malinconica, poi più tormentata e turbinosa.
Il concerto ha confermato che il mondo musicale e pianistico di Guidi si basa su un personale incrocio di varie esigenze e matrici: in primo luogo temi di spigolosa e danzante impronta ornettiana oppure di accattivante sensualità pop, un neo- impressionismo che cresce su lente progressioni rapsodiche, un minimalismo intimista che evita qualsiasi ripetitività statica... Nelle performance orvietane del trio (fra l'altro l'ambientazione mattutina nel Museo Greco ne ha favorito la dimensione cameristica) il tutto è stato tenuto in una tensione continua, in un equilibrio instabile fra delicatezza poetica e rovello, fra lirismo e articolazione costruttiva; come in una sospensione chimica di vari elementi, che decantano, si stratificano o emergono in superficie. A volte i passaggi di attesa e preparazione sono parsi forse troppo sfibrati e protratti, rendendo implicita o ritardando la bellezza melodica dei temi; ciò è interpretabile come un atteggiamento di pudico intimismo, che faceva tuttavia parte integrante di un percorso dinamicamente contrastato, altalenante fra un volume ora forte ora pianissimo, fra una ricerca insistita e folgorazioni percussive.
Non si può finire questa sintesi critica di alcuni dei numerosi concerti che a Orvieto si sono sovrapposti e susseguiti in varie sedi nei giorni a cavallo di Capodanno, sempre seguiti da un pubblico entusiasta, senza citare una tipica reunion band, che ha riassemblato la formazione che vent'anni fa partecipò alla prima edizione di Umbria Jazz Winter: il quintetto di Giovanni Tommaso, completato da Flavio Boltro, Pietro Tonolo, Danilo Rea e Roberto Gatto. Questa sorta di all star italiana ha proposto un jazz di alta qualità, in quanto innervato di una solidità e di una vitalità del tutto attuali. Innanzi tutto è risultato personale il modo di trattare il materiale tematico, sia che si trattasse dei pregevoli original di Tommaso, come "Cinema Moderno" o "Orizzonte," sia che venissero affrontati standard poco frequentati, per esempio "Angelica" di Duke Ellington o "The Bridge" di Sonny Rollins. In secondo luogo tutti i componenti del gruppo - forti personalità, maestri del proprio strumento e oggi nel pieno della maturità espressiva rispetto a decenni orsono - hanno sprigionato assoli notevoli.
Foto di Riccardo Crimi.
Altre foto di questa rassegna sono disponibili nella galleria dedicata al concerto di Kurt Elling
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