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Umbria Jazz: gli spettacoli all’Arena Santa Giuliana

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Arena Santa Giuliana - 06-15.07.2012 [per la recensione dei concerti al Teatro Morlacchi clicca qui]

Partecipare a Umbria Jazz è sempre un'esperienza unica, anche se, fra decibel assordanti e "struscio" obbligatorio più volte al giorno lungo Corso Vannucci, fra insidiose arie condizionate e alterazione del ciclo del sonno, dieci giorni al festival perugino possono mettere a dura prova la resistenza fisica individuale. Ognuno deve attenersi ad un proprio ritmo e costruirsi un proprio percorso musicale ragionato.

Da tanti piccoli segnali si è colto che la crisi economica ha influito anche su questo megafestival, ma la proposta musicale, indirizzata a pubblici diversi, gratuita o a pagamento, è risultata comunque abbondante e variegata. Come ormai è prassi consolidata, la programmazione degli appuntamenti a pagamento viene nettamente differenziata: gli spettacoli di grosso richiamo, travalicando generi, all'Arena Santa Giuliana e i concerti pomeridiani o dopo mezzanotte, destinati ad un pubblico più specialistico, al Teatro Morlacchi. Vale la pena quindi scindere in due puntate la recensione degli eventi di maggior rilievo: in questa prima tranche puntiamo l'attenzione sulle proposte dell'Arena Santa Giuliana.

Nel concerto d'apertura della rassegna ha confermato di essere un incontro congeniale quello fra i pianoforti di Stefano Bollani e Chick Corea, due personalità analoghe per l'estroversione del loro virtuosismo. Su propri original (su tutti il famoso "Armando's Rumba") e soprattutto su standard come "On Green Dolphin Street," "Jitterbug Waltz," "In a Sentimental Mood," essi hanno costruito variazioni continue, tramando un intrecciato arabesco a quattro mani. Non si è trattato solo di esibizionismo, di sapienza tecnica, di cura per la forma, ma anche di deviazione dall'originale, di estemporanea inventiva visionaria... insomma di alto concertismo pianistico.

Con l'ingresso in scena di Hamilton De Holanda il duo si è trasformato in trio, costituendo un trait d'union con la seconda parte della serata. Un paio di brani indimenticabili tratti dal primo Return to Forever hanno fornito lo spunto per una fantasmagoria di ritmo e melodia. Nel set successivo il virtuosismo di Bollani e De Holanda è stato indirizzato verso un ambito culturale, poetico e formale univoco: quello brasiliano, a parte un omaggio alla napoletanità di "Reginella". L'interpretazione di classici brasiliani ha lasciato minor spazio all'improvvisazione ed ha sempre aderito alle melodie originarie, esaltandone soprattutto il tono delicato e malinconico.

Tutto nell'apparizione del quartetto di Herbie Hancock (le introduzioni verbali del leader, il canto filtrato, il sound complessivo...) è sembrato un "inno alla tecnologia," alle strabilianti possibilità concesse da un ampio armamentario elettronico. Tutto è risultato sgargiante: il funky di "Watermellon Man" è stato dilatato in quindici minuti di effetti plateali, poi Hancock si è esibito al Fazioli in un brano solitario, in cui una lunga introduzione divagante e neo- impressionista ha preceduto una sospesa versione di "Maiden Voyage". Le schermaglie fisiche da lui intraprese con il chitarrista Lionel Loueke, il batterista Trevor Lawrence e il bassista James Genus potevano perfino ricordare l'atteggiamento che Miles, più scontroso, intratteneva con i suoi partner negli ultimi decenni di attività. Ne è risultato uno spettacolone pop disomogeneo e rutilante, in cui largo spazio è stato concesso agli estrosi collaboratori.

Non molto diversa l'apparizione dell'emergente Esperanza Spalding, per la quale non posso risparmiare il pollice verso. Favorita dal look e da un battage pubblicitario e mediatico imponente, la Spalding è in realtà musicista mediocre: contrabbassista e bassista appena discreta, cantante dalla vocina insignificante, compositrice e leader poco autorevole. Nel riproporre il suo ultimo lavoro,Radio Music Society, a Santa Giuliana era attorniata da una band di ottimi elementi, di stagionata esperienza, imbrigliati da arrangiamenti pop-jazz scintillanti, ma con soluzioni di dubbio gusto.

Ben più apprezzabile, in quanto più monolitica e autentica la sua matrice rock, si è rivelata la proposta del superquartetto Spectrum Road, attivo dal 2003 per rendere omaggio alla musica dell'ultimo Tony Williams. Sotto la propulsione iper-energica e iper- dinamica della batterista Cindy Blackman Santana e la pulsazione del "vecchio," carismatico Jack Bruce (ex Cream), bassista e cantante un po' greve e schematico, ma ancora efficace, l'organo di John Medeski ha rappresentato l'aspetto visionario e "cosmico," mentre la chitarra di Vernon Reid ha sciorinato una cantabilità arabescata e farneticante. Indubbiamente un set di ineludibile impatto.

In un festival oscillante fra rock duro e l'interminabile serata raggae, fra edulcorazioni pop e Sting, l'evento che ha chiuso il festival, fra le acrobatiche affabulazioni vocali di Al Jarreau e la spettacolarità robotizzata della sofisticata Erykah Badu, il concerto della David Murray Big Band ha rappresentato uno dei momenti di più alta caratura jazzistica, anzi l'unico autenticamente legato alla più viva tradizione del jazz e del blues nero- americano.

La recente formazione, con elementi americani e inglesi, e l'inedita collaborazione con la cantante soul Macy Gray hanno originato un concerto movimentato e imprevedibile, anche se penalizzato dalla non perfetta amplificazione dei fiati. A fronte di una conduzione ritmica regolare e solida da parte di basso e batteria, gli arrangiamenti dei fiati prevedevano eccentricità, impasti armonici insoliti, aperture di libera improvvisazione collettiva. Sotto la guida informale del sassofonista, autore anche di numerosi assoli pregevoli, si è mossa una big band di impostazione free ma con un groove decisamente bluesy. Su questa base, in alcuni brani si è ben inserito il canto di Macy Gray, ruvido, screziato, a tratti scontroso, nel solco della più concreta tradizione nera, in particolare memore dell'insegnamento di Nina Simone.

Ancora ottimo jazz statunitense, ma di diversa impostazione, è venuto da autorevoli protagonisti bianchi: John Scofield, Pat Metheny e Joe Lovano con Dave Douglas.

La John Scofield Hollowbody Band, completata dai bravi Kurt Rosenwinkel, Ben Street e Bill Stewart, ha siglato un set di classe. La riuscita sintesi fra blues, swing e country non ha escluso una delicata sosta su una ballad come "Moonlight in Vermont" o deviazioni verso situazioni più astratto-informali. Il leader ha cercato e trovato un alter ego insostituibile nel più giovane Rosenwinkel: perentorio e affermativo, con progressioni visionarie il piglio di Scofield, più elaborato e insinuante il fraseggio del partner. Particolarmente pregevole è risultato uno scambio teso e dagli intrecci neo-cool fra le loro chitarre nel brano d'apertura.

Quella del quintetto di Joe Lovano e Dave Douglas è stata invece una proposta particolare e "difficile," considerato il contesto di Santa Giuliana: avrebbe meritato condizioni fisiche più raccolte e d'ascolto più concentrato. Gli original dei due co-leader, oltre a brani di Shorter, prevedevano introduzioni lente, prevalentemente divaganti e meditabonde, prima di sfociare in andamenti melodico-ritmici più decisi. La pronuncia strumentale fortemente caratterizzata del sassofonista e del trombettista ha strutturato sapientemente i rispettivi assoli ed ha intrecciato tese chase. Ottimo il contributo della sezione ritmica: il giovane Lawrence Fields ha sviluppato un pianismo di grande eleganza, la contrabbassista Linda Ho ha fornito un ancoraggio solido e regolare, e l'esperto Joey Baron ha arricchito la propulsione ritmica con sussulti eccentrici di grande efficacia.

Quanto alla Unity Band di Pat Metheny, che con i superlativi Chris Potter, Antonio Sanchez e Ben Williams si presenta come un vero superquartetto, sembra rappresentare un'evoluzione nella carriera del peltro-crinito chitarrista, un ritorno ad un'alta caratura jazzistica. Certo Metheny non ha saputo rinunciare a qualche prolissità, ad una debordante lunghezza del concerto (due ore e dieci minuti), né a ricorrere, ma brevemente, a quell'infernale propaggine strumentale che è l'Orchestrion (a ben vedere un discendente evoluto degli automati del Settecento). Tuttavia la sua pronuncia chitarristica, sempre sontuosa e ridondante, ha evitato inutili eccessi virtuosistici, risultando più asciutta e diretta che in altre occasioni. I suoi noti cavalli di battaglia, dall'inconfondibile impatto melodico, e un paio di brani di Ornette sono stati interpretati, a volte in duo con i singoli partner, con motivazione e con teso interplay, in uno scambio continuo dei ruoli protagonistici.

Se Enrico Rava si è avvicinato e appassionato alla musica di Michael Jackson, tanto da volerlo interpretare, è stato anche su sollecitazione della moglie Lidia (...ineffabile potere delle mogli!). In contemporanea con l'uscita del CD della ECM, che sintetizza i due concerti romani del maggio e novembre 2011 all'Auditorium Parco della Musica, quella perugina è stata la terza apparizione della formazione.

Va detto subito che si tratta della proposta più eccentrica ed eccessiva che Rava abbia concepito negli ultimi trent'anni. Merito dell'input dei brani di Jackson e degli arrangiamenti di Mauro Ottolini, che ha svolto un lavoro imponente. A parte i brani di più marcata impronta funky e soul, di danzante sensibilità motoria, concentrati soprattutto nella seconda metà del concerto, le orchestrazioni hanno presentato varie, inventive soluzioni: introduzioni insinuanti affidate al piano di Giovanni Guidi o alle astrali evanescenze elettroniche di Franz Bazzani, furibondi passaggi free con il tenore di Dan Kinzelman in grande evidenza, reminescenze dixieland, frenesie afro-cubane, lucidi spunti descrittivi dovuti al contralto di Daniele Tittarelli, scanditi riff della sezione dei fiati, energici squarci di bass&drum prodotti da Dario Deidda e Zeno De Rossi... Ognuno dei membri della PMJ Orchestra ha avuto una funzione importante e modo di emergere, mentre il leader, fortemente motivato nell'affrontare questa nuova fatica, si è riservato molti assoli, tonici e crepitanti, proiettati ad esasperare l'aspetto melodico oppure verso visionarie deformazioni nel registro acuto.

Per Sonny Rollins, che ha rappresentato l'ultimo appuntamento jazzistico all'Arena, era questa la quarta volta a Perugia negli ultimi sei anni. Chi si attendeva la replica del favoloso concerto del 2010 è rimasto in parte deluso; anche l'ottantaduenne "saxophone colossus" deve arrendersi all'avanzare dell'età.

Il concerto è iniziato come sempre con "Patanjali," su cui il tenorista ha affrontato venti minuti di assolo, travolgente per fantasia improvvisativa, per mobilità di timbri e accenti. Poi, di tutti gli altri brani ha dato interpretazioni più succinte, lasciando più spazio del solito ai collaboratori: il fedelissimo e affidabilissimo Bob Cranshaw, che ha suonato solo il contrabbasso acustico, il trombonista Clifton Anderson, apprezzabile in un paio di assoli, i bravi Kobie Watkins e Sammy Figueroa alla ritmica, e Peter Bernstein alla chitarra, che ha fatto molto rimpiangere la personalità e il drive di Russel Malone, in squadra due anni fa.

L'interpretazione di "Don't Stop the Carnival," dedicato espressamente all'amico Vittorio Franchini, è stata ben lontana dalle trascinanti, reiterate versioni di un tempo. Ha sfoderato altre ballad, con un sound deciso ma sviluppi essenziali, quasi rinunciatari, poi, dopo un'ora e mezza di concerto, Sonny ha salutato frettolosamente il pubblico e immediatamente è calato il nero sipario. Nonostante che la folla accalcata sotto il palcoscenico lo invocasse a gran voce, non si è più ripresentato; cosa mai successa in passato quando si concedeva con generosità ben oltre le due ore. Della cosa in seguito sono state date un paio di versioni, nessuna delle quali pienamente credibile. Sta di fatto che il "grande vecchio," probabilmente davvero stanco e insoddisfatto, non se l'è più sentita di continuare.

Ma Rollins tornerà di nuovo a Umbria Jazz. A tale proposito vale la pena riportare testualmente la parte più sensazionale del comunicato stampa diramato dagli organizzatori a chiusura della presente edizione: "Intanto, è stato definito il primo tassello del programma dell'edizione 2013. Sonny Rollins da tempo pensava ad una formula con due trombettisti, da lui mai frequentata. Come omaggio ad Umbria Jazz ed al jazz italiano, i due trombettisti saranno Enrico Rava e Paolo Fresu".

Foto di Riccardo Crimi.

Altre foto del festival sono disponibili nella galleria dedicata al concerto di John Scofield e Ambrose Akinmusire.

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