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Umbria Jazz: gli spettacoli al Teatro Morlacchi

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Teatro Morlacchi - 07-15.07.2012 [per la recensione dei concerti all'Arena Santa Giuliana clicca qui]

Una delle scelte portanti e opportune di Umbria Jazz 2012 è stata quella di celebrare due ricorrenze importanti per il mondo del jazz: il centenario della nascita di Gil Evans e il trentennale della morte di Thelonious Monk.

Nella programmazione del Teatro Morlacchi, in cui l'atmosfera e il cartellone erano ben diversi da quelli degli appuntamenti all'Arena Santa Giuliana già recensiti, c'era molta attesa per "The Gil Evans Centennial Project," vale a dire un ciclo di sei concerti che la Eastman Jazz Orchestra diretta da Ryan Truesdell ha dedicato a vari periodi della carriera di Evans, che a metà degli anni Ottanta fu uno dei protagonisti indimenticabili del festival umbro.

Il lavoro svolto dal trentaduenne Truesdell offre lo spunto per una considerazione su un certo modo di affrontare il jazz. Egli è infatti un ricercatore preparato, monomaniaco, che ha eretto un monumento alla memoria del grande compositore e band leader tramite un'analisi puntigliosa dei suoi spartiti, scovati nell'archivio degli eredi grazie anche alla collaborazione della vedova Anita, recuperando anche materiale inedito. Nei concerti perugini sono stati così ripercorsi i dischi principali di Evans secondo una rilettura filologica, ma sono stati anche proposti brani che non sono mai stati incisi o arrangiamenti che la sua orchestra aveva suonato solo dal vivo per un paio di settimane negli anni Cinquanta.

Non è certo questa la prima volta che il jazz viene concepito come musica di repertorio, come un patrimonio di documenti storici da salvaguardare, analizzare e rileggere filologicamente. Per inciso ricordo che anche in Italia e recentemente le composizioni di Gil Evans sono state oggetto di un'impresa analoga da parte di Bruno Tommaso che, coadiuvato da Roberto Cipelli, ha diretto la big band degli allievi del Conservatorio di Trento.

Stiamo parlando dunque di una delle tendenze degli ultimi decenni, che non contraddice però la concezione portante di una musica basata sull'improvvisazione, in continua evoluzione ed espressione dell'attualità. Una tendenza che si avvicina quindi all'approccio interpretativo proprio della musica classica, ma, esattamente come nella musica classica, è appunto l'interpretazione a rappresentare il momento della verità, in quanto unico modo per far rivivere lo spartito e ricontestualizzarlo, dandogli un senso attuale ed indirizzandolo al pubblico di oggi, senza per altro poter prescindere da un confronto con le interpretazioni precedenti.

Tornando allo specifico dell'operazione di Truesdell, non si può fare a meno di evidenziare che nella recente edizione discografica (Centennial: Newly Discovered Works of Gil Evans), incisa in studio, egli è contornato da solisti di rilievo (Frank Kimbrough, Joe Locke, Donny McCaslin...), mentre a Perugia guidava la big band di un College americano (tutti giovanissimi, tutti bianchi), dopo un accurato rodaggio per montare l'ambizioso progetto.

I pareri sui risultati sono stati i più discordi. Personalmente, nell'ottica di un tentativo teso a rispettare l'originale il più fedelmente possibile, ho apprezzato l'impasto delle voci, il sound complessivo morbido e rilassato, le dinamiche fluide, alcuni spunti solistici. Tutto ciò è emerso soprattutto nel primo concerto della serie, in cui la formazione, senza ospiti, ha interpretato brani del repertorio della Claude Thornhill Orchestra e degli LP Out of the Cool e Individualism of Gil Evans.

Per gli altri cinque concerti Carlo Pagnotta, direttore artistico del festival, ha pensato bene di irrobustire l'offerta, affiancando alla Eastman Jazz Orchestra noti jazzisti, soprattutto italiani, nei repertori a loro più congeniali: i motivati e spericolati Francesco Cafiso e Stefano Di Battista sugli standard e sui brani di New Bottle, Old Wine, Scott Robinson ancora sui repertori della prima serata, l'impeccabile Paolo Fresu alle prese con Porgy and Bess e Sketches of Spain e il dinamico Fabrizio Bosso per interpretare Miles Ahead e Quiet Nights. In tutti questi casi, a parte l'interpretazione poetica e davisiana di Fresu, gli inserimenti hanno portato l'orchestra su terreni più disomogenei, verso colori più vivi e dinamiche più movimentate, con risultati ibridi, in parte contraddicendo l'obiettivo di una fedele rilettura filologica del mondo evansiano.

Se a Santa Giuliana la celebrazione monkiana era affidata al trio di Stan Tracey, aderente all'originale in modo incredibile, nello spirito e nelle forme, ma apparso forse meno motivato ed efficace che nel concerto orvietano dello scorso gennaio all'interno di Umbria Jazz Winter, al Morlacchi sono stati chiamati in causa due validi gruppi italiani, che hanno dato interpretazioni molto diverse del repertorio del grande pianista e compositore.

Con il Tinissima Quartet di Francesco Bearzatti i brani di Monk, dopo oltre sessant'anni dal loro concepimento, hanno subìto una radicale trasformazione in chiave punk-rock, trasgressiva e rivitalizzante in pari misura. Il contesto ritmico e i pedali forniti da Danilo Gallo e Zeno De Rossi non hanno evitato di ribadire noti cliché, quasi con funzione banalizzante. Gli arrangiamenti mandati a memoria (mai nei concerti del quartetto compaiono leggii o spartiti) hanno avviato le entrate, gli unisoni, gli assoli e gli intrecci tesi, a volte mozzafiato, fra le voci dei due fiati, spesso deformate da filtri e sordine. Da segnalare alcuni interventi memorabili, per foga e asciuttezza, di Falzone, sia alla tromba che alla voce.

La coraggiosa rielaborazione del repertorio di Monk, saldamente interconnesso con temi altrettanto classici del rock (dei Queen, dei Led Zeppelin, di Lou Reed...), ha dato consistenza ad una proposta di grande vitalità, in cui i prevalenti toni di scabra e frenetica concretezza non hanno escluso passaggi di scanzonata arguzia.

Relativamente più vicina all'originale, comunque contrapposta a quella del Tinissima Quartet, si è rivelata l'interpretazione monkiana da parte della Lydian Sound Orchestra diretta da Riccardo Brazzale: una formazione di ottimi elementi (peccato cha al Morlacchi fossero assenti Robert Bonisolo e Kyle Gregory) e ben consolidata, che già da molti anni affronta con successo il repertorio di Monk. In questo caso le sofisticate armonizzazioni e gli elaborati arrangiamenti hanno conferito una rilettura obliqua e anomala (ma in questo monkiana), includendo audaci alternanze dinamiche; la molteplicità delle voci non ha contraddetto la compattezza dei collettivi e l'agilità di certe soluzioni.

I brani erano introdotti dai brevi interventi della voce recitante di Franco Costantini su testi da lui elaborati partendo da varie biografie di Monk: ne è risultato un ritratto credibile e amorevole del personaggio.

Non avendo potuto seguire l'ultimo omaggio a Monk, nel giorno finale del festival, da parte del quartetto pianistico formato da Kenny Barron, Mulgrew Miller, Eric Reed e Benny Green, fra gli altri concerti del Morlacchi vale la pena di soffermarsi su quello di Ambrose Akinmusire. Rispetto all'impressione poco convincente suscitata a Bergamo, il trentenne trombettista californiano ha in questa occasione dimostrato una personalità spiccata.

Le sue composizioni, recenti o meno, hanno presentato strutture insolite, dinamiche diversificate, atmosfere surreali. La sua mobile pronuncia strumentale ha palesato ricchezza tecnica e varie influenze: se in un brano lento e dolente, in duo con il pianista, ha ricordato Arve Henriksen, l'austerità e la concentrazione della lunga introduzione al primo brano sembravano provenire dal Dixon di qualche decennio fa, mentre gli stacchi più crepitanti e stentorei nei brani veloci non nascondevano il tributo ai trombettisti dell'hard bop. Quella di Akinmusire è sembrata quindi una musica d'ispirazione autentica, consapevolmente radicata nella tradizione nero-americana, lontana da accattivanti cliché odierni; un jazz di sintesi, che rivisitando e concettualizzando in chiave personale gli stilemi del bop e del free può portare a risultati di particolare densità.

Tutti i partner del suo quintetto sono risultati congeniali per il loro eloquio consapevole e avanzato: il tenorista Walter Smith III, dal fraseggio espressivo e ben sviluppato, Harish Raghavan, asciutto bassista hadeniano, Sam Harris, pianista intelligente e selettivo, tutt'altro che di maniera, e l'incalzante, perentorio batterista Justin Brown.

Come Sonny Rollins ha rappresentato la chiusura jazzistica di Santa Giuliana, così l'apparizione di un altro gigante del sax, Wayne Shorter, ha costituito l'ultimo, vero evento jazzistico della programmazione al Morlacchi. Inizialmente sospesa sull'andamento meditabondo di un semplice tema melodico, l'atmosfera si è progressivamente movimentata fino a sfociare in una contrastata e plastica versione di "Orbits". Il concerto è continuato su questa linea di un'improvvisazione collettiva esuberante, dal turgore espressionista e informale, pur con momenti di decantazione, passaggi obbligati, cadenze ritmiche più regolari e spunti melodici più decifrabili.

Al soprano Shorter ha costruito frasi di tagliente lucidità; relativamente più involuta e di lenta elaborazione la sua pronuncia al tenore. I tre partner, gli stratosferici Danilo Perez, John Patitucci e Jorge Rossy, sono stati i concelebranti di uno dei riti imperdibili del jazz degli ultimi dieci anni. Un'ora e dieci minuti di avvincente creatività e di ineludibile intensità.

Foto di Riccardo Crimi.

Altre foto del festival sono disponibili nella galleria dedicata al concerto di John Scofield e Ambrose Akinmusire.

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