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Time in Jazz 2012

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Berchidda e dintorni - 09-16.08.2012

Time in Jazz 2012, festival sardo che ha doppiato la boa del quarto di secolo, ha trattato il tema del fuoco, l'ultimo della serie sui quattro elementi: tema serpeggiante, ora pertinente, con riferimenti anche drammatici, ora pretestuoso o soltanto nominale. Personalmente ritengo che un altro tema sia risultato predominante e persistente: quello dell'inestricabile, inevitabile e babelico intreccio di culture e dei rispettivi linguaggi che oggi stiamo vivendo. Tale aspetto è stato interpretato soprattutto, ma non solo, dalle voci invitate al festival, che quindi si sarebbe potuto sottotitolare "Voices," nel più ampio senso del termine, tenendo presente l'intera gamma delle sollecitazioni uditive dalle quali si era circondati.

Voci del pubblico in attesa dei concerti una volta raggiunti i luoghi più impensabili: scambi di opinioni e informazioni, esclamazioni, immancabili brandelli di conversazioni telefoniche ("...dove sei, cosa fai..." incipit ricorrente dal quale non riusciremo a liberarci mai più), per lo più chiacchiere, pigre, infarcite di luoghi comuni... per poi lasciare il posto alla concentrazione ed al silenzio più assoluti durante il concerto.

Voci della memoria rievocate con uno sforzo d'immaginazione: i canti e le preghiere innalzate per secoli nelle chiese romaniche e registrate dai blocchi di granito e trachite, gli ultimi lamenti di coloro che nel 1983 sono rimasti soffocati nell'incendio di Curraggia...

Voci della natura che accompagnano i musicisti: campanacci delle pecore in lontananza, il canto dei grilli e degli uccelli (pochi per la verità), il ronzio delle enormi pale eoliche a Tula, la voce del vento che trasporta odori di ogni sorta, di mare e soprattutto di monte...

Voci che sono affiancate da un'ampia gamma di stimoli visivi: gli abbigliamenti variopinti del pubblico, i cieli mutanti, le diverse gradazioni del verde degli olmi, degli ulivi, dei vigneti, delle querce da sughero, inframmezzati dagli affioramenti di granito... Da non dimenticare poi le qualificate e numerose mostre del Progetto Arti Visive, ricche di opere di alta valenza concettuale. Se si aggiungono gli aspetti climatici e i sapori dell'enogastronomia locale, si comprende come partecipare a Time in Jazz costituisca un'esperienza sensoriale forte e a tutto tondo, oltre che un'esperienza umana coinvolgente, dalla quale non ci si può sottrarre.

Seguendo questo filo rosso della commistione fra culture, linguaggi e voci, veniamo a recensire alcuni concerti di questo festival, dalla spiccata identità e articolato su un ampio bacino territoriale, a cominciare da "Lingue di fuoco," progetto del trio Monica Demuru, Gabrio Baldacci, Cristiano Calcagnile, prodotto in collaborazione con il festival valtellinese Ambria Jazz ed ospitato nella stupenda Basilica di Santa Maria di Saccargia.

Il trio si è cimentato con un repertorio trasversale di canzoni di diverse epoche e tradizioni, tributando un omaggio ad emblematiche voci femminili del Novecento: Bessie e Patti Smith, Maria Carta, Nilla Pizzi, Cassandra Wilson, Cathy Berberian, Nina Simone... La partecipata interpretazione della cantante-attrice sarda ha costituito il fulcro della performance, prendendo enfasi e modulazioni diverse a seconda dei testi affrontati, senza replicare mai gli originali, anzi deformandoli fino a renderli irriconoscibili. Si tratta però di un vero trio, simbiotico, paritario, finalizzato a un consistente e coerente risultato musicale: Baldacci e Calcagnile non si sono limitati a fornire un semplice accompagnamento, ma hanno creato un contesto musicale cangiante, ora denso ora liquido ed evanescente ora scabroso, che di volta in volta è cresciuto ed ha respirato in sintonia con la voce.

Interprete filologicamente corretto del patrimonio sardo fra colto e popolare è invece Paolo Angeli quando, ricorrendo ad un tipico "vibrato gallurese," rivisita canti della sua tradizione sacra e profana. "Melodie vernacolari di nessun interesse ma demagogicamente forti" scrisse sul Manifesto molti anni fa Giampiero Cane, non apprezzando questa scelta da parte del chitarrista. Nell'apparizione solitaria al Santuario della Madonna di Castro, le sue tre interpretazioni vocali si sono incastonate come gemme in un tessuto strumentale apparentemente anomalo. La sua chitarra sarda preparata non ha subìto modifiche negli ultimi anni, ma Angeli prevede di introdurne alcune nel prossimo futuro. Sta di fatto che oggi la sua tecnica ci sembra meno eccentrica, il suo percorso sonoro meno astruso e sperimentale di un tempo, più legato a inflessioni melodiche e ritmiche ben percepibili, che si rifanno appunto alla tradizione popolare sarda. D'altra parte se Bill Frisell, come ha confermato anche a Berchidda, si appella al folk statunitense, perché mai Angeli dovrebbe vergognarsi di attingere alla propria origine culturale?

Con "Giornale di bordo" la sardità di Angeli viene corroborata da quella di Antonello Salis e Gavino Murgia e si coniuga con la pronuncia afro-americana del drumming del chicagoano Hamid Drake, jazzisticamente il più canonico dei quattro. In questo caso al languore popolaresco del canto del chitarrista di Palau si sono contrapposti i vocalizzi "nuragici" del sassofonista, gutturali e cavernosi. È comunque prevalsa un'improvvisazione strumentale esuberante, frenetica, di alta valenza ritmica e melodica, che è divampata e si è spenta come un fuoco, sostando in pochi momenti di raccordo più distesi. Al suo interno è stata inserita anche un'interpretazione dell'"Ave Maria" sarda e, nel bis, Salis ha suggerito un'epopea western, intrecciando "Apache," uno dei primi successi chitarristici della fine degli anni Cinquanta, e un paio di temi di Morricone per i film di Sergio Leone.

Altre latitudini, altre culture, altre voci: quella di Tigran Hamasyan, dalle inflessioni afone, delicate e malinconiche, racchiude nostalgicamente l'origine etnica dell'Armenia dalla quale proviene. Al pianoforte Tigran (a Time in Jazz in due set diversi: in trio con i bravi Sylvain Romano e Jeff Ballard e in un solo esaltante attorno alla chiesetta rurale di Santa Lucia a Mores) contamina quel patrimonio musicale con consistenti reminescenze classiche e soprattutto con una prepotente e prevalente componente jazzistica approfondita in America. Il suo pianismo, sempre innervato da un'evidente cantabilità, accosta un periodare perentorio e granitico a più apprezzabili fasi meditabonde, dalle sonorità scampanellanti, anche grazie a discreti accorgimenti elettronici. Particolarmente emozionante la sua ricerca instancabile, ricca di sfumature, su un brano come "I'll Remember You". A parte qualche ingenuità dettata dalla voglia di strafare, il venticinquenne Tigran ha dimostrato uno stile indubbiamente personale e di spessore; è probabile che, dopo Brad Mehldau, Craig Taborn, Ethan Iverson e pochi altri, egli possa contribuire ad un sensibile rinnovamento del piano jazz.

Quasi totalmente giocato sull'interplay ritmico è stato il set del duo Maria Pia De Vito - Patrice Heral, ambientato nell'"infernale" scenario della cava della vulcanica pietra pomice nera a Ittireddu. A parte le interpretazioni lente e sentimentali di alcuni classici di varie tradizioni mediterranee da parte della cantante napoletana, i due hanno intrapreso frenetici scat vocali e pecussivi, anche scambiandosi i ruoli e facendo largo e sapiente uso delle risorse elettroniche. Una tecnica smaliziata, un timing infallibile e grande senso dello humour hanno portato il duo verso una comunicativa esplicita ed esibizionistica di sicuro impatto.

Ben più impegnativa, per strutture, motivazioni e messaggi veicolati, è risultata la musica dell'ambiziosa opera "The Spark of Knowing / Roden Crater Project," sorta di work in progress ispirato a una complessa installazione che l'artista americano James Turrell sta realizzando da oltre trent'anni nel cratere di un vulcano estinto in Arizona. In questo caso la musica del settetto pilotato dalla De Vito ha acquisito una dimensione teatral- visuale: ha preso inizialmente le distanze da una densità terrena ed ancor più dagli ammiccamenti di una comunicazione spettacolare, per proiettarsi verso il futuro, verso inconsistenze cosmiche, pur collegandosi misteriosamente a miti e civiltà ancestrali e calandosi di nuovo, nel finale, in una magmatica realtà terrena. All'interno di una narrazione stringente, anche se un po' ridondante e compiaciuta, non sono mancate sequenze di delicato melodismo, accensioni di scabro rumorismo o ossessioni percussive.

La cantante ha scelto con cura i suoi partner: la violoncellista Anja Lechner (che si era esibita in solo nella piazza di Ozieri la sera inaugurale del 9 agosto), il chitarrista Eivind Aarset, il pianista Huw Warren, Michele Rabbia alle percussioni, Maurizio Giri all'elettronica e il videoartista Vj Klein, autore di un parallelo percorso visivo, proiettato su uno schermo alle spalle dei musicisti. Tutti, con esclusione della Lechner, hanno messo in azione una consistente componente elettronica, che in questo caso ha assunto un senso preciso, non di mero accessorio esibizionistico. D'altra parte quello del variato ma ricorrente uso dell'elettronica potrebbe costituire un ulteriore filo conduttore attraverso il quale leggere l'attualità jazzistica presentata dal festival sardo, ma non solo.

Ancora incontro/confronto fra culture e tradizioni musicali con il trio di Omar Sosa, Paolo Fresu e Trilok Gurtu, formatosi un paio di anni fa: da un lato del palco lo spirito latino del misticheggiante pianista cubano, dall'altro l'attualizzata cultura millenaria del percussionista indiano, al centro, quasi a fare da conciliante trait d'union, la decantata ma persistente origine sarda del trombettista, tradotta in un sound morbido e in guizzi di vitalità. Tutti unificati comunque da una pluridecennale esperienza internazionale e da un interplay di natura jazzistica. Un trio di forti personalità, dai dichiarati intenti spettacolari e di sicuro impatto, in quanto la sua musica si regge su meccanismi melodici e ritmici tutto sommato elementari, ma azionati con impeccabile tempismo, con sonorità piene, con la naturalezza e la foga interpretativa dei professionisti consumati.

Anche in questo caso sono intervenuti i flussi omogeneizzanti dell'elettronica, come non è mancato il ricorso alle voci: Sosa e Gurtu hanno ingaggiato un frenetico e scherzoso battibecco in quel tipico scat della tradizione indiana (fantasiosamente adottato e adattato anche dal pianista). Anzi a tale proposito bisogna sottolineare che oggi esso è diventato un luogo comune alla portata di tutti, un idioma universale, certo deformato, ibridato, inautentico e sicuramente esibizionistico, ma comunque legittimo; tanto è vero che al festival ne hanno fatto uso, per altro con grande abilità, Patrice Heral, Tigran e forse anche altri. Il trio (inizialmente il duo Sosa—Fresu come da programma) si è generosamente esibito anche la mattina successiva presso la chiesetta campestre di San Michele prima del tradizionale pranzo di ferragosto.

In tutti i concerti fin qui analizzati è stata dunque la voce umana ad esternare in modo esplicito un'appartenenza culturale o l'incontro fra più culture, mentre la componente strumentale si è attenuta prevalentemente al linguaggio internazionale ed unificante dell'improvvisazione jazzistica, che per altro è da sempre sinonimo di incrocio fra culture diverse.

A Time in Jazz 2012 non sono mancate inoltre le voci recitanti di performer/attori/scrittori. In "Food Sound System - Riflessioni di un gastrofilosofo" Daniele Don Pasta, accompagnato a San Pantaleo da Marco Bardoscia al contrabbasso e Raffaele Casarano ai sax, ha imbastito una paradossale performance verbale-gastronomica: ne è risultato uno spettacolo indubbiamente estroverso ed anche originale, ma ibrido, che a mio parere dovrebbe trovare una identità più definita. Così com'è oggi esso non possiede la coerenza, il rigore e la documentazione per essere teatro di denuncia, non si basa su battute sufficientemente folgoranti per essere teatro comico di qualità, non è abbastanza eccentrico e trasgressivo per essere uno spettacolo surreale, fuori dagli schemi.

Per ricordare le nove persone decedute nel 1983 nell'incendio di Curraggia, alle porte di Tempio Pausania, si è ricorsi alla voce di Alessandro Haber, che con tono bolso, perennemente affannato e dalla cadenza fortemente emiliana ha letto passi da "La strada" di Cormac McCarthy, testo opportunamente scelto da due dei numerosi volontari indispensabili all'organizzazione del festival. Ai lati dell'attore Fresu e Gurtu hanno improvvisato un mobile e pertinente tessuto sonoro.

Per il terzo anno consecutivo, i concerti serali in Piazza del Popolo a Berchidda sono stati inframmezzati dai resoconti in diretta da parte dell'arguto scrittore Flavio Soriga, che ha fornito una "cronistoria giornaliera semidelirante del festival e dei suoi dintorni, ...un diario sognante e visionario, eccessivo e dunque bugiardo...," mescolando realtà e fantasia e prendendo di mira soprattutto il direttore artistico Paolo Fresu.

Foto di Roberto Cifarelli.

Ulteriori immagini di questo festival sono disponibili nella galleria dedicata al concerto di Bill Frisell.

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