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Testimoni del '68: Filippo Bianchi
ByQuesto per dire che se focalizzo solo quell'anno non riesco a cogliere la velocità di evoluzione delle cose, che era il tratto più interessante del tempo.
Nel triennio 67-69, ad esempio, gruppi come i Soft Machine o i Pink Floyd o i Cream allungano la durata dei loro pezzi avventurandosi nell'improvvisazione: si dilatano le coscienze (anche attraverso le droghe psichedeliche), e i territori cui attingere linguaggio (che si mescolano). Aprire la mente, slogan che oggi pare vuoto e demodé, pareva all'epoca un imperativo. Quelli, quorum ego, che hanno avuto la fortuna di sentire Miles Davis, Wayne Shorter, Chick Corea, Dave Holland e Jack DeJohnette (a Roma al Teatro Sistina), o Tony Williams, John McLaughlin, Larry Young, Jack Bruce (a Londra allo Speakeasy) non avevano dubbi che quella musica fosse parte di un immenso spazio sconosciuto che si voleva esplorare.
Non che fossero tutte rose e fiori: a sentire i Lifetime allo Speakeasy eravamo quattro gatti. E tuttavia Williams aveva concepito quel gruppo puntando al successo, perché allora tutto sembrava possibile. A condizione di saper esprimere lo zeitgeist, lo spirito del tempo, l'energia circostante. Sul piano sociale credo che, anche nella musica, abbia avuto un'importanza decisiva la feconda frizione determinata dall'interclassismo (l'appartenenza a una generazione contava molto più di quella a un ceto), poi scemato fino all'odierno ripristino delle caste.
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