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Stefano Amerio: 20 anni di Artesuono

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Quel che vorrei fare con l’etichetta è aiutare le nuove realtà a sviluppare quel che loro manca. Lavorando come so fare: accogliendo i loro progetti, producendoli, aiutandoli a perfezionarli e poi facendo il mio lavoro di tecnico del suono e di editore
Sono passati ormai diversi anni da quando abbiamo intervistato Stefano Amerio, tecnico del suono e patron di Artesuono, lo studio di registrazione più noto e affermato d'Italia e anche d'Europa, almeno per l'ambito jazzistico. Ma Artesuono è anche un'etichetta discografica con un catalogo ampio e interessante, ancorché popolato di prodotti prevalentemente di area friulana. Un etichetta che quest'anno celebra il suo ventennale. Abbiamo colto l'occasione per recarci da Amerio e fare con lui una chiacchierata sullo stato dell'arte tanto dell'etichetta, quanto dello studio.

All About Jazz Italia: Ti abbiamo intervistato otto anni fa, quando lo studio di registrazione Artesuono aveva assunto da poco una valenza internazionale di primo piano iniziando a registrare con regolarità per la ECM; ci ritroviamo adesso in occasione del ventennale dell'omonima etichetta discografica, nata nel 1998 sulla scia dello studio, creato nel 1990. Che è successo nel corso di questi anni?

Stefano Amerio: Intanto c'è stato tanto, tantissimo lavoro, che potrei esemplificare con due dati: nel 2016 ho registrato 91 dischi, nel 2017 80. Tutte cose, oltretutto, di altissimo livello, perché tra i committenti principali c'erano la Cam Jazz e, appunto, la ECM.

AAJ: Con Eicher mi pare che il rapporto si sia ancor più consolidato: sono davvero tante le cose che registri per ECM.

SA: Sì, anche perché Manfred si trova sempre meglio qui, in quanto ormai ho imparato a lavorare con lui: preparo tutto in anticipo in modo che sia tutto pronto, così non deve preoccuparsi dei dettagli tecnici e quindi può concentrarsi sulla musica. E poi c'è questa grande intesa sulle scelte, tale che basta uno sguardo per capire in che direzione andare.

AAJ: E quando registri in trasferta, per esempio all'Auditorium della RSI di Lugano?

SA: È la stessa cosa: so che cosa serve e cosa vuole Manfred, così arrivo preparato e mi preoccupo di tutta la logistica tecnica. In questo modo facciamo tutto in due giorni, massimo tre, lavorando senza tempi morti.

AAJ: Puoi svelarci perché Eicher ha scelto quell'Auditorium come sede delle registrazioni?

SA: Perché gli piace l'acustica, molto da musica classica, un tipo di suono che lui ha sempre amato e che ama avere anche all'interno di una registrazione jazz. E ha voluto differenziarsi da tante registrazioni che si fanno oggi anche dal punto di vista della ripresa del suono: registrare nell'auditorium non è infatti la stessa cosa che registrare in studio, permette di effettuare molte scelte particolari, variate di volta in volta in funzione degli strumenti e del tipo di musica. Infine, in quel contesto Manfred pretende anche che i musicisti non utilizzino le cuffie, cosa che li costringe a produrre delle dinamiche completamente diverse da quelle che farebbero se si ascoltassero attraverso le cuffie, con le quali ogni musicista si bilancia i vari strumenti come gli aggrada di più e poi suona senza dover lavorare con loro in modo acusticamente dialettico. Una situazione irreale, però, ben diversa da quella che si crea in concerto, quando devi ascoltare gli altri strumenti e far ascoltare il tuo dal pubblico. Infatti è successo che molti batteristi si siano trovati inizialmente a disagio lavorando in questo modo: "non sento il pianoforte...," dicevano, e la risposta era ovviamente "devi abituarti a suonare con la dinamica corretta ed in base all'acustica dell'auditorium"!

AAJ: Quindi registrate anche senza spie?

SA: In genere sì. A parte in pochissime occasioni. Per esempio un disco di Norma Winstone, che canta in modo molto delicato, abbiamo usato delle microspie posizionate vicino alla testa dei musicisti a bassissimo volume.

AAJ: Però parlavi di una collaborazione pressoché stabile anche con la CAM Jazz.

SA: Si, perché dopo Manfred anche Ermanno Basso ha portato una cospicua parte delle registrazioni della CAM Jazz ad Artesuono, sia perché si trova bene e si fida molto del mio lavoro, sia perché i musicisti sono molto contenti di venire a lavorare qua. E, avendo affinato la nostra intesa, con Ermanno abbiamo anche sviluppato un progetto particolare, nato da una antica idea pensata nel 2006 da me e da Elda Felluga, che Basso ha raccolto e che abbiamo iniziato lo scorso anno: registrare dischi all'interno di cantine vinicole.

AAJ: Di cosa si tratta esattamente?

SA: Semplicemente di una serie di registrazioni effettuate nelle cantine delle aziende friulane, luoghi molto belli e carichi di ispirazione, ma che certo non nascono per registrarci dei dischi. Questa cosa ci ha obbligato a fare sopralluoghi, selezionare i posti, utilizzare attrezzature ad hoc, ma alla fine ha dato risultati eccellenti. Tanto che, dopo l'esperienza 2017, quest'anno abbiamo replicato con un'identica serie: sei cantine l'anno scorso, sei questo, con progetti diversi scelti da Ermanno in funzione della cantina dove registriamo. Quest'anno abbiamo coinvolto anche il conservatorio di Udine, tramite Glauco Venier che è direttore del dipartimento jazz, registrando alcune improvvisazioni degli allievi su filmati di vendemmie e vinificazione risalenti agli anni Cinquanta. Glauco ha curato musicalmente il lavoro, scegliendo gli allievi e le combinazioni di strumenti.

AAJ: Un lavoro complesso che non potrai svolgere da solo, immagino.

SA: No, infatti, si tratta del frutto del lavoro di una squadra composta da tante persone. Per esempio ne fa parte U.T. Gandhi, che -oltre a suonare in alcuni dei concerti -è attivo in molti modi, un po' un jolly, anche perché è a suo modo un'istituzione del territorio. Poi c'è Elisa Caldana che fa le foto, ci sono io con il mio team di lavoro, che ci occupiamo della parte tecnica, e c'è Ermanno che "dirige" tutto. E infine ci sono i responsabili delle cantine che ci danno una mano e ci dissetano.... Il tutto funziona molto bene, tanto che quest'anno abbiamo alzato l'asticella rispetto all'anno scorso, aggiungendo un gruppo per fare riprese video. È un'esperienza molto interessante proprio per la sua complessità: pone delle sfide sotto molti punti di vista ed è entusiasmante non solo risolverle, ma anche poi riascoltare le registrazioni e rendersi conto della loro eccellente qualità.

AAJ: Che tu mi parli di un progetto come questo è molto interessante, perché a distanza di anni dalla nostra precedente intervista conferma la centralità di un aspetto che mi era sembrato importante del tuo lavoro, specie con l'etichetta, vale a dire il rapporto con il territorio, con i musicisti e con le realtà locali. Aspetto che, unito al tuo stabile e fecondo lavoro con Eicher e Basso, potremmo dire che fa di Artesuono una realtà "glocal."

SA: Sono sempre stato dell'idea che lo studio e l'etichetta potevano avere sede ovunque, perché quel che conta per farle funzionare è e resta chi le gestisce, cioè l'uomo. Io ho intrapreso questa strada pretendendo da me stesso alta qualità e offrendola a chi si rivolge a me, non dando mai per scontato di essere capace di darla sempre, ma anzi mettendomi sempre in gioco per cercare di ottenerla. Oggi lavoro con grandissimi nomi, in alcuni casi tra i maggiori musicisti internazionali di ambito jazz, ma il mio approccio non è cambiato: cerco di registrare nel modo migliore possibile e mi faccio in quattro per capire ogni volta come riuscirci. Certo, ho la fortuna di aver incontrato Manfred Eicher e di aver ricevuto la sua fiducia, di averla ricevuta anche da Ermanno Basso e di aver costruito con loro un rapporto importante anche sul piano umano, cose che hanno fatto crescere la mia sicurezza: se produttori di questa importanza si fidano del mio lavoro, qualcosa vorrà pur dire. Ma, di nuovo, non ho cambiato approccio, né ho smesso di imparare, anzi, sono sempre attento alle nuove tecnologie con il desiderio di migliorarmi.

AAJ: Vedendoti lavorare nel tuo studio durante una registrazione e un missaggio ho notato che tu operi assieme ai musicisti: ascolti le loro richieste, ma fai anche delle proposte di correzione -delle dinamiche, dei toni, delle pause -e talvolta le effettui, sotto i loro occhi, persino senza che ti sia stato richiesto. Non lavori di testa tua, ma comunque ti comporti come un musicista aggiunto al gruppo: entro determinati limiti, dici la tua. E poiché i musicisti non sono tutti uguali, immagino tu debba adattarti a loro, come fa un buon sideman.

SA: Esattamente. Infatti i musicisti che lavorano con me di solito sono molto contenti proprio perché sanno che ho sviluppato la capacità di capire quello che vogliono da me. E poi, con l'esperienza, ho sviluppato anche un'estetica, che è poi quel che mi permette di anticipare le scelte del musicista e qua e là fare, come osservavi, anche interventi laddove non mi sono stati esplicitamente richiesti. Non so se avessi un talento naturale o meno per questo, ma certo mi ha giovato il lavoro di questi anni e, soprattutto, quel che ho potuto imparare da un maestro come Eicher, che a queste cose è sempre molto attento. Da lui ho appreso parametri estetici molto raffinati: per esempio come deve essere un riverbero, il perché di quel riverbero invece di un altro; ovvero, più in generale, un'estetica del suono, che ovviamente è la mia e non può, né deve valere per tutti, ma che è un riferimento importante, un buon punto di partenza. Certo, la mia estetica non corrisponde a certe cose che si fanno oggi, nelle quali per esempio si distorcono i suoni oltremisura per fare qualcosa di "nuovo" o si registra il "lo-fi" perché fa tendenza. Ma non lo è perché mi pare che, spesso, quell'estetica sia senza fondamenti, sia solo una moda: una ricerca di facciata, in realtà senza alcuna autentica ricerca alle spalle. Sia chiaro, non sono per principio contrario all'elaborazione elettronica del suono: ne ho fatte parecchie anch'io, anche con ECM, ma laddove il musicista partiva da uno studio del suono acustico dello strumento e da lì arrivava all'elaborazione elettronica di quel suono. Così come fa per esempio Francesco Bearzatti, che quando mette il distorsore sul sax lo fa perché vuol ottenere proprio quell'effetto; non suona acustico e poi distorce il suono in studio, ma suona con l'intenzione e il fraseggio corretti a rendere credibile la scelta. Spesso, invece, la sola motivazione è che "fa tendenza," è di moda, senza una profonda motivazione personale e artistica per fare proprio quel tipo di elaborazione sonora. E questo alla fine si sente! Perché se le cose funzionano bene in acustico, le elaborazioni elettroniche successive non funzionano più. È allora che, se fai domande, viene fuori la motivazione estrinseca: "vorrei farlo perché ho sentito un musicista che lo fa e mi è piaciuto," oppure "perché è un suono più contemporaneo...." L'importante è il concetto e l'approccio artistico di base, non l'elaborazione sonora fine a se stessa.

AAJ: Un concetto che è importante avere in generale anche per l'idea di musica che si vuol fare.

SA: Infatti un'altra cosa che comincio a non sopportare più è l'approccio "domani ci vediamo e facciamo un disco": va bene che il jazz è improvvisazione, ma per far funzionare le cose è comunque necessario che tra i musicisti nasca un'intesa, che si condivida un'idea di musica, così che anche l'interazione musicale abbia un senso compiuto, perché ciascuno è parte dell'idea di musica dell'altro. Ma questo è impossibile senza un lavoro alle spalle, senza una lunga collaborazione, senza prove e sperimentazioni -magari anch'esse registrate nella propria sala prove, in modo da poter verificare i progressi e gli errori di quel che si fa. E questo tipo di lavoro, spesso, non c'è. "Tanto è jazz...."

AAJ: È vero, così si finisce per far partire progetti su progetti, senza dare a ciascuno di essi il tempo di maturare ed esprimere tutte le proprie potenzialità.

SA: Altro errore gravissimo, che Manfred ha sempre stigmatizzato. Il trio di Keith Jarrett può piacere o non piacere, ma sono trent'anni che sviluppa un progetto e ormai lo interpreta in modo perfetto in ogni dettaglio; oggi invece si creano gruppi su gruppi, oppure si mantiene il gruppo ma si cambia progetto, o ancora si mescolano le carte del gruppo senza cambiarne la sostanza, con il risultato che non si fa mai il salto di qualità. L'iperproduzione, in generale, non giova alla qualità dei prodotti artistici. Ma oggi tutti vogliono fare un disco senza avere magari un progetto concreto proiettato al futuro e con la concreta volontà di vedere il progetto evolversi.

AAJ: E così siamo arrivati naturalmente a parlare dell'etichetta Artesuono, che appunto festeggia quest'anno il ventennale. Che puoi dirci di lei?

SA: Che è una grande passione, perché come sai è nata in primo luogo per dare voce ai musicisti locali, anche se ahimè è anche un grande impegno economico, perché oggi l'oggetto-disco non è facile da sostenere a nessun livello e fatica a maggior ragione se legato a un territorio ristretto. Ad oggi l'etichetta conta ben 182 dischi, qualitativamente anche assai diversi tra loro, ma che hanno comunque una loro storia e un loro significato. Tutti coloro che ci suonano sono bravi musicisti e brave persone, alle quali sono orgoglioso di aver dato questo supporto. Il problema è che se fino due o tre anni fa, sebbene si vendesse poco, si riusciva a capitalizzare abbastanza da potersi permettere di mettere in cantiere una nuova produzione, oggi questo è diventato impossibile: spendi una cifra e ti torna indietro talmente poco che puoi al massimo coprirci solo parte delle spese di produzione, cosicché diventa impossibile programmarne altri. Inoltre i musicisti, anche comprensibilmente, vorrebbero che i dischi fossero recensiti, resi disponibili ovunque, venduti: ma i negozi non esistono più, la stampa se ne occupa sempre meno, gli appassionati snobbano il formato.... Certo, dipende anche dal fatto che non ho in catalogo nomi eclatanti: un altro al mio posto avrebbe chiesto a qualche grande personaggio di fare delle ospitate, che magari sarebbero state fatte anche con piacere visti i rapporti d'amicizia che ho con molti di loro. Ma io non l'ho mai voluto fare per principio, perché credo che i musicisti debbano emergere per quel che sono, non perché nel loro disco c'è un nome illustre.

AAJ: Quale disco ha aperto l'etichetta, nel 1998?

SA: Clobeda's, disco di un omonimo gruppo di musica etnica, formato da tre archi -violino, viola e violoncello -e percussioni, tre ragazze e un ragazzo. In quel periodo in Friuli c'era un singolare movimento etno-folk: la lingua friulana veniva usata da una serie di cantautori che attingevano alla tradizione delle ballate folk americane e irlandesi, ma le cantavano in friulano. Da questa onda, iniziata all'incirca nel 1992 e durata una decina d'anni, era nato anche questo gruppo. I musicisti erano molto bravi, preparati, e per questo erano molto richiesti. Dopo quel disco facemmo Gorizia, di Glauco Venier con il grande Kenny Wheeler, al quale partecipano anche le stesse Clobeda's. In seguito ho pubblicato diverse cose con U.T. Gandhi e molte altre con Venier, che sono tra le cose più importanti in catalogo. Anche perché coincidono con le presenze di cui sono più orgoglioso: Lee Konitz, nel settimo disco, lo stesso Wheeler, Norma Winstone nel più recente Symphonika, del 2014. Proprio Symphonika è un lavoro a cui tengo particolarmente, sia per la qualità, sia perché è stata per me una doppia sfida, superata brillantemente.

AAJ: Perché doppia sfida?

SA: Da un lato perché era un progetto ambizioso, con tantissimi artisti da seguire e registrare al meglio in una registrazione unica (vi partecipavano la ben due orchestre, la FVG Mitteleuropa Orchestra e la Mittelfest Big Band), dall'altro perché il concerto si doveva tenere a Cividale, dove era stato predisposto tutto quanto, ma all'ultimo momento per ragioni meteorologiche fu spostato a Udine, al Teatro Giovanni da Udine, cosicché invece di fare l'allestimento in due giorni, come doveva essere, fummo costretti a realizzare tutto in un giorno solo. La mattina alle nove ci siamo ritrovati a smontare parte dell'attrezzatura da Cividale per portarla a Udine e lì rimontarla, con un tempo residuo per una prova generale di non più di mezz'ora, poi una pausa di un'ora e quindi la registrazione audio-video. Capisci che aver portato a casa il risultato è stata una bella soddisfazione!

AAJ: Nonostante tutto questo, però, al traguardo dei vent'anni l'etichetta arriva con il fiato corto...

SA: Si, per le ragioni cui accennavo e che, comunque, investono tutto il settore discografico. Per questo ho pensato di rivederne un po' le finalità e gli obiettivi, e facendomi aiutare da Federico Mansutti -che è un musicista, ma che si è appassionato a tutti gli aspetti organizzativi e burocratici che riguardano una label. Da solo non riuscivo più a dedicarle tutta l'attenzione e il tempo che richiede, troppo preso dal lavoro dello studio di registrazione.

AAJ: Però anche recentemente non sono mancate uscite di primissima qualità: mi viene ad esempio in mente Sleep Talking del duo Giorgio Pacorig e Zeno De Rossi.

SA: Quello è un disco bellissimo, strepitoso, e ha anche una storia particolare. In primo luogo perché Pacorig è uno degli artisti friulani che meriterebbe maggiore attenzione, perché scrive in un modo unico, mantenendo una vena melodico-melanconica all'interno di un tessuto nel quale l'improvvisazione la fa da padrona. Giorgio a mio parere è uno dei più interessanti musicisti a livello nazionale. Poi perché i provini di quel disco me li fecero ascoltare quasi per caso, solo per avere un parere tecnico sulla resa acustica, in quanto avevano intenzione di farci un bootleg da soli, da stampare in poche copie per venderlo ai concerti. Fui io, fulminato dalla qualità della musica, a dir loro che un lavoro così non si poteva far uscire "alla buona" e che glielo avrei prodotto io, registrandolo allo studio. Chiesi solo di avere la responsabilità dei suoni, perché mi era chiarissimo che su quelle dinamiche sarei andato a nozze. Lo considero un esempio della riuscita-tipo del mio lavoro: lì sono riuscito a fissare un momento magico, nel quale i due artisti hanno dialogato e prodotto qualcosa di veramente elevato!

AAJ: Tornando alle difficoltà del settore, qual è il tuo parere?

SA: Difficile averne uno, se non quello drammatico della totale scomparsa di un mercato! Per il resto, solo interrogativi, perché se la necessità di registrare ci sarà ovviamente sempre -per cui lo studio, magari con qualche flessione, continuerà il proprio lavoro -non si capisce cosa ne sarà delle produzioni discografiche. Oggi per fare un disco spendi 100 e ti torna indietro 10: non può proseguire così. E la cosa sta allargandosi anche all'ambito concertistico: la carenza di fondi e la diminuzione delle occasioni per suonare ha spinto sempre più musicisti a cercarsi dei posti nelle scuole e nei conservatori, rinchiudercisi dentro e smettendo di suonare, o quanto meno facendo solo poche cose, con una conseguente diminuzione di occasioni per ascoltarli e di offrire ai giovani musicisti opportunità di sentirli e crescere. Io li capisco, molti di loro avevano assoluto bisogno di avere una sicurezza economica, o anche di smettere di vivere facendo"marchette" solo per sbarcare il lunario. Era loro diritto. Allo stesso tempo, però, non posso non dispiacermi perché il loro impegno è giustamente indirizzato all'insegnamento e non allo studio del proprio strumento e alla ricerca artistica.

AAJ: Beh, qui si tocca un argomento molto più ampio e complesso, perché non è detto che lavorare di più migliori le qualità artistiche: come dicevi prima anche tu, ci sono un sacco di musicisti superattivi che però finiscono con il ripetersi, senza mai a fare qualcosa di originale....

SA: Purtroppo anche questo è vero. La preparazione tecnica degli artisti oggi è elevata, per cui quando vengono a registrare è raro che qualcuno suoni "male"; i guai, per esempio, nascono quando affrontano le improvvisazioni, che spesso risultano banali e ripetitive. Del resto, se non hai un approccio creativo di base, che ti permetta di improvvisare in modo credibile, meglio restare sulle cose strutturate, che hanno comunque una dignità anche nel jazz. E l'approccio creativo di base non tutti lo hanno, anzi, è merce piuttosto rara. Anche perché si lavora troppo spesso per schemi, non per la necessità di esprimere qualcosa di preciso, o per sviluppare una poetica pensata e strutturata. Nonostante questo, anzi forse proprio per questo e per dare un contributo ad andare oltre, l'etichetta andrà avanti. Partendo da alcuni ben precisi dati di fatto, il primo dei quali è che anche qui in Friuli è in corso un cambio generazionale.

AAJ: Cosa intendi dire?

SA: Semplicemente che i Gandhi, i Maier, i Venier, i D'Agaro, i Cojaniz, insomma quelli che io chiamo gli "artisti adulti," hanno delineato una strada ben precisa; poi c'è una fascia intermedia, quella per esempio di Luca Colussi, Alessandro Turchet e Mirko Cisilino -che sta completando la propria maturazione ed è veramente un artista di vertice -la quale, tutto sommato, ricalca molto l'altra, perché i musicisti ne sono allievi e successori; ma adesso c'è una nuova fascia di giovani artisti, che nasce dalle scuole, diversamente da quelli della prima fascia, che erano invece in gran parte autodidatti, e della seconda, che si era avvalsa soprattutto del sapere esperienziale donatole dai "musicisti adulti" permettendole di sviluppare comunque una parte teorica. Le nuove generazioni invece escono dal conservatorio, o comunque da scuole ben strutturate che hanno insegnato loro il vocabolario del jazz. Questi ragazzi hanno un'ottima tecnica e teoria di base, sanno bene cosa vogliono fare; quel che invece manca loro è proprio ciò che caratterizzava in modo eminente le altre fasce: la spontaneità. Un po' come accade con i musicisti classici, quando si avventurano fuori dagli schemi, là dove la sola perizia tecnica non è più sufficiente, traballano. E allora quel che vorrei fare con l'etichetta è proprio prendere queste nuove realtà e aiutarle a sviluppare quel che loro manca. Lavorando come so fare: accogliendo i loro progetti, producendoli, aiutandoli a perfezionarli e poi facendo il mio lavoro di tecnico del suono e di editore. Facendo far loro qualcosa di bello e mettendo a frutto quello che in questi anni ho appreso frequentando personaggi come Manfred ed Ermanno. Senza volermi confrontare con loro, sia chiaro, anche perché la figura del direttore artistico, così come la incarna Eicher, credo non esista più.

AAJ: No, non esiste più quasi in nessun settore: in campo editoriale, per esempio, non c'è più il curatore delle collane, il selezionatore della qualità di quel che viene pubblicato e il supervisore esperto che contribuiva a suggerire i miglioramenti agli autori. Mi pare che in ambito discografico valga la stessa cosa.

SA: Esatto: in assenza di una figura di questo genere tutti si sentono legittimati a mettere su piazza il loro lavoro, sia esso buono o meno buono. Senza alcuna presunzione, vorrei mettere a disposizione dei giovani artisti la mia esperienza, acquisita lavorando al fianco di questi produttori prestigiosi e con centinaia di artisti tra i più importanti e affermati del jazz, con il fine di aiutarli a sviluppare un'estetica, una sensibilità ai suoni, una spontaneità nell'abitare la musica.

AAJ: Con che impegno e cadenza per l'etichetta?

SA: L'intenzione sarebbe quella di investire su due o tre progetti l'anno, cosa sostenibile e che può risultare utile per l'etichetta, per gli artisti e -come è sempre stato nell'ottica di Artesuono -per il territorio. Questo per i prossimi vent'anni: in seguito vedremo cosa correggere per quelli successivi!

Foto di Luca D'Agostino

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