Home » Articoli » Interview » Sergio Caputo: Le mie canzoni tra Broadway e il pop

1

Sergio Caputo: Le mie canzoni tra Broadway e il pop

By

View read count
Ci viene in mente che forse Allaboutjazz è il primo jazz magazine a chiederti un'intervista... "Davvero? Ma in Italia dici? Non saprei..." Non raccoglie provocazioni Sergio Caputo. Sarà per timidezza o per quieto vivere. Eppure, sulla stampa di settore non ci sembra abbia mai avuto i giusti riconoscimenti. Lui, che con il jazz vive un rapporto quasi simbiotico e che da anni ci ha abituati a Swing e ritmi latini in uno stile tutto italiano. Abbiamo parlato di questo, ma anche di San Remo e dell'America in una saletta del Teatro Italia di Gallipoli, prima del concerto [per leggerne la recensione clicca qui]. Una chiacchierata molto cordiale di circa mezz'ora interrotta - peccato - dalla voce del tecnico: “Sergio, devi finire il sound-check...”

All About jazz Italia: Ti senti in caposcuola? Uno che ha dato vita ad una sorta di cantautorato jazz?

Sergio Caputo: No, non necessariamente. Tutt'ora ritengo di aver una mia identità che mi sono costruito da solo. Mi ritengo un cantante pop-jazz, se non altro per il fatto che ho preso il jazz e l'ho scaraventato nei circuiti tipici della musica pop e questo è un merito che mi viene riconosciuto: quello di aver portato il jazz in televisione gabellandolo sotto l'etichetta “pop” per poi somministrarlo con jazzisti autentici.

AAJ: Quand'è che il suono jazz ti ha colpito in maniera particolare?

S.C.: Sono cresciuto ascoltando ciò che passava la radio tanti anni fa... Gorni Kramer, le grandi orchestre, Glenn Miller. Poi con l'avvento della televisione sono rimasto colpito dal modo di suonare dei jazzisti, che facevano delle smorfie strane. Ricordo che questa cosa mi colpì in maniera particolare.

AAJ: I dischi che ti hanno influenzato?

S.C.: Stranamente non quelli dei cantanti, ma quelli dei sassofonisti, di Charlie Parker, di Coltrane, ma anche i dischi di Davis o di Gillespie. Infatti, non so quanti se ne accorgano, il mio modo di scrivere è molto legato a certi fraseggi che sono tipici di strumenti come sax o tromba. Direi comunque che tutte le parti strumentali mi hanno influenzato nel modo di scrivere canzoni, quindi le melodie.

AAJ: Cosa è per te il jazz?

S.C.: E' una forma d'arte (nata negli Stati Uniti e propagatasi nel resto del mondo) ancora in continua evoluzione. Quelli che a volte salgono in cattedra e tengono discorsi da “puristi” secondo me sbagliano tutto perché non hanno colto l'essenza stessa del jazz che è la contaminazione con le altre musiche, che siano il pop, il rock, la musica etnica. Del resto, il caposcuola di questa tendenza, che nel mio piccolo cerco di seguire anch'io, è stato Miles Davis, il quale - intanto è l'unico jazzista che non è morto povero, il che è una cosa che piacerebbe fare anche a me! [ride] - è riuscito a portare il jazz in posti dove non sarebbe mai entrato, come il Fillmore West. A volte paragono l'evoluzione del jazz al Cubismo per le novità che ha portato rispetto a certo canoni. Jazz e Cubismo sono molto vicini secondo me, con la differenza che nell'arte figurativa non puoi avere un Picasso, un Cezanne, un Matisse su un palco che dipingono e fanno arte insieme, mentre nel jazz questo è possibile.

AAJ: Dando uno sguardo alle tua discografia, agli inizi degli anni '90 si riscontra un cambiamento di stile, una virata verso un pop più aggressivo. Come mai?

S.C.: Mah... fu una scelta dovuta a tante cose. Intanto mi infastidiva molto essere accomunato a un certo modo di cantare e scrivere canzoni che non era il mio, quello di Natalino Otto e Fred Buscaglione per intenderci. Io scrivevo canzoni jazz, non facevo la macchietta del gangster di Chicago. Tanto di cappello a Buscaglione ovviamente, ma il mio modo di scrivere canzoni e di interpretarle era completamente diverso. Diciamo che il mio modo di scrivere era - ed è - molto vicino a Cole Porter, le cui canzoni avevano una struttura jazzistica, con la strofa, l'inciso, il solo. Inoltre, avevo voglia di espandere il mio raggio d'azione, un po' come fanno molto jazzisti, per poi tornare con più maturità ad un jazz più asciutto.

AAJ: Testimoniato dall'album I Love Jazz del '95, quasi un ritorno a casa....

S.C.: Esattamente.

AAJ: Quando componi, pensi già ai musicisti che intendi chiamare?

S.C.: Normalmente lavoro da solo fino a che non è il momento di registrare. Non registro gli strumenti tutti assieme, l'ho fatto nelle varie fasi della mia discografia con risultati disastrosi, nel senso che con i ritmi di lavoro sempre molto elevati spesso rischi di perdere il controllo delle cose. Per me avere il controllo di quello che si suona è importantissimo perché non voglio trovarmi dopo due mesi a sentire un solo che non mi piace, quindi di norma lavoro da solo fino a quando il pezzo non suona come voglio io, poi comincio a chiamare i musicisti. Naturalmente dal vivo diamo molto spazio all'improvvisazione, però per quanto riguarda la canzone mi piace sempre lasciarla con una impronta ben definita.

AAJ: Parliamo della tua esperienza americana. Vivi da anni in California. Perché questa scelta?

S.C.: La vita mi ha portato là. Non c'è una scelta precisa.

AAJ: Possiamo ancora parlare del jazz come musica-paradigma della cultura americana?

S.C.: Dipende. Credo sia abbastanza difficile vivere da jazzisti anche in America, devi sempre provare a fare il salto, a caricarti il jazz sulle spalle e a portarlo nel territorio pop, altrimenti non ce la fai. Sono pochi i jazzisti che riescono a vivere del loro lavoro.

AAJ: Con chi hai avuto modo di lavorare?

S.C.: Con tantissimi musicisti, alcuni dei quali molto bravi ma sconosciuti. Tendenzialmente non sono uno che va a tenere sessions in giro, non riesco a trovare il fine di tutto questo. Mi piace comporre e poi quando è il momento di finalizzare chiamare i musicisti. In questo modo nasce il famoso interplay.

AAJ: Vorrei un tuo giudizio su San Remo.

S.C.: E' un esperienza che non mi interessa più ripetere. Ho partecipato l'ultima volta nel '98 con un pezzo “latino”, “Flamingo”, che piacque molto al momento ma poi non ebbe gran seguito, perché la casa discografica, la Polygram - e queste sono cose che accadono spesso - venne comprata dalla Universal e da lì iniziarono una serie di problemi che tutt'ora non sono risolti del tutto. Non ho una posizione precisa sul Festival. Diciamo che ci tornerei nel momento in cui potesse farmi comodo per presentare un nuovo disco, perché comunque rimane una vetrina importante, anche se non c'è mai la possibilità di esprimerti veramente per quello che sei, serve solo a fare un grande passaggio televisivo.

AAJ: Quale potenziale travaso pensi esista tra il tuo pubblico e quello tipicamente jazzistico?

S.C.: Sere fa ho scoperto che Stefano Bollani è un mio fan di vecchia data. Avevo appena finito il concerto a Vicchio, vicino Firenze, quando me lo sono visto arrivare in camerino con tutta la famiglia per farmi i complimenti. Non saprei darti una risposta precisa. Da quando sono tornato ad esibirmi in Italia con una certa regolarità, noto che il pubblico è molto ringiovanito, c'è il trentacinquenne che è cresciuto con i miei dischi, ma anche un pubblico di ventenni ben preparato e agguerrito. Evidentemente si è rigenerata una audience per la musica che ho scritto che per motivi a me ignoti è riuscita a scavalcare diverse generazioni.

AAJ: C'è l'hai un sassolino nella scarpa? Qualcosa che vorresti dire a qualcuno (musicista e impresario) che non hai mai detto?

S.C.: Sai, facendo questo lavoro nelle scarpe si accumulano rocce non sassolini [ride]... Immagino però che tutti i lavori siano complicati per cui... No, non ho regrets. Sono uno che va avanti per la sua strada senza guardarsi indietro.

Tags

Comments


PREVIOUS / NEXT




Support All About Jazz

Get the Jazz Near You newsletter All About Jazz has been a pillar of jazz since 1995, championing it as an art form and, more importantly, supporting the musicians who make it. Our enduring commitment has made "AAJ" one of the most culturally important websites of its kind, read by hundreds of thousands of fans, musicians and industry figures every month.

Go Ad Free!

To maintain our platform while developing new means to foster jazz discovery and connectivity, we need your help. You can become a sustaining member for as little as $20 and in return, we'll immediately hide those pesky ads plus provide access to future articles for a full year. This winning combination vastly improves your AAJ experience and allow us to vigorously build on the pioneering work we first started in 1995. So enjoy an ad-free AAJ experience and help us remain a positive beacon for jazz by making a donation today.

More

Popular

Read Take Five with Pianist Irving Flores
Read Jazz em Agosto 2025
Read SFJAZZ Spring Concerts
Read Bob Schlesinger at Dazzle
Read Sunday Best: A Netflix Documentary
Read Vivian Buczek at Ladies' Jazz Festival

Get more of a good thing!

Our weekly newsletter highlights our top stories, our special offers, and upcoming jazz events near you.