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Ljubljana Jazz Festival 2012
C'è una piccola città europea, a un centinaio di chilometri dalla tristezza delle italiche rassegne, che da qualche anno è entrata nel novero delle capitali mondiali del jazz. Il meglio, prima o poi, passa da Lubiana; dal palco di un festival che, zitto zitto, nel 2012 ha tagliato il traguardo dell'edizione numero cinquantatre. E lo ha fatto alla sua maniera, vale a dire con l'ennesimo cartellone sfizioso e stimolante, apparecchiato con buon gusto e intelligenza: un occhio al cuore e l'altro al botteghino. Niente integralismi e bando ai vezzi da festivalino cult frequentato solo da parrucconi e alternativi. Ma allo stesso tempo nessuna resa alle logiche gastronomiche del "ceto medio" o ai cartelloni fotocopiati. Insomma, una proposta equilibrata, che non rinuncia a offrire un punto di vista sul presente, preoccupandosi però di piazzare qualche set a "presa rapida". Il tutto per un evento che si presta a due tipi di approccio: uno superficiale, turistico, l'altro più approfondito e intimo. Una distinzione consapevole, come dimostrano la politica dei prezzi e il binario doppio seguito per le location: da una parte il Križanke, un'arena da un migliaio di posti ricavata nel cortile di un convento secentesco, il luogo ideale per i nomi di richiamo e i concerti a pagamento; dall'altra il CD Club, avveniristico locale riservato alla parte più "impegnativa" del programma; duecento posti, non di più, e gli eventi sempre a ingresso libero. Risultato? Ottima risposta del pubblico, sia di qua che di là. Tanto per dire che mettere in piedi un festival degno non è poi così difficile quando ci sono le idee, la competenza e la professionalità.
Idee, competenza e professionalità garantite dallo storico direttore artistico, Bogdan Benigar, e dal direttore artistico aggiunto Pedro Costa, il signor Clean Feed. Insieme, per il 2012, hanno ideato un percorso centrato sulla tromba e sui trombettisti, spina dorsale di una tre giorni che ha avuto però il suo apice nell'esibizione di una cantante accompagnata da un sassofonista, un contrabbassista e un batterista.
Dopo le lodi sperticate a The Cherry Thing, pubblicato dalla Smalltown Superjazz meno di un mese fa, la curiosità di vedere all'opera Neneh Cherry, Mats Gustafsson, Ingebrigt Håker Flaten e Paal Nilssen-Love era davvero tanta. Se non altro per verificare sul campo l'impressione che quanto fissato su nastro fosse il frutto di un'intesa profonda, istintiva, lontana da compromessi e mezze verità. Ora possiamo dirlo: l'impressione era quella giusta. Neneh & The Thing sono una band, non un progetto. E le band vere, quelle che hanno sangue e budella, si esaltano dal vivo, quando sentono addosso il fiato caldo del pubblico.
Pubblico subissato e travolto da un set incandescente, massiccio e incazzato. Otto brani: la scaletta del disco riproposta per interno. Otto cartucce sparate a bruciapelo: dall'iniziale "Too Tough to Die" a "What Reason Could I Give" di Ornette Coleman, il momento più evocativo, con la Cherry ad amoreggiare con una splendida luna piena. Nel mezzo spazio a slabbrature e agguati in successione da parte dei sax baritono e tenore di Gustafsson, che rispetto al lavoro in studio hanno potuto godere di ampi margini di libertà (sfruttati alla grande, con la solita intensità ayleriana). E spazio a una sezione ritmica, quella formata da Nilssen-Love e Håker Flaten (al contrabbasso e al basso elettrico), che non ha indossato pantofole e guanti da forno in segno di rispetto per l'ospite d'eccezione: massimo dei giri e del volume, che tanto la rediviva Neneh non si è dimenticata di come si tiene il palco. Padrona della scena e al centro della musica, con quella sua voce dannatamente "black" e la criniera leonina, è rimasta in perfetto equilibrio sulle onde da tsunami scatenate dai rumorosi compagni. Senza timori e indecisioni. Nemmeno quando, in coda ad "Accordion," il trio ha alzato un muro di suono da sgretolare le vetuste pareti del Križanke. La voce, con ululati berberi e grida, ha partecipato al sabba; fino a quando il riff acuminato di "Dirt" ha sciolto la tensione facendo esplodere il pubblico. Dopo il disco dell'anno, il concerto dell'anno.
Tornando invece a trombe e trombettisti, la scena l'hanno rubata Nate Wooley e Peter Evans. Due i gettoni per entrambi, dei quali uno in coppia nel quartetto Trumpets and Drums, completato dalle batterie di Paul Lytton (che con Wooley ha già inciso Creak Above 33 per la Psi) e Jim Black. Alla prima uscita mondiale, i quattro hanno messo sul piatto un set spigoloso, urticante, difficile da maneggiare. La scelta è stata quella di lavorare esclusivamente sul "suono," ricorrendo ad abbondanti dosi di elettronica. Riuscitissimi gli incastri tra le due trombe (Evans e Wooley, non a caso, hanno un disco in duo alle spalle: High Society). Un po' meno quelli nei quali hanno provato a inserirsi le batterie. Lytton, se non altro, lo ha fatto con grande intelligenza. Mentre lo spaesato Black è apparso un corpo estraneo alle dinamiche della band. E allora il dubbio resta: probabilmente un Trumpets without Drums avrebbe funzionato meglio. Conferme, in merito, le avremo quando la Clean Feed pubblicherà i nastri della serata.
Non c'è bisogno di attendere il disco, invece, per promuovere a pieni voti la Full Throttle Orchestra di Adam Lane. In questo caso il CD (che, manco a dirlo, porterà impresso il marchio Clean Feed) servirà soltanto per strappare qualche sospiro di rimpianto a chi non c'era. Con il contrabbassista californiano (che raramente, diamine!, troppo raramente varca l'Atlantico) una delle due trombe di cui sopra, Nate Wooley, tre sassofonisti, il prodigioso Matt Bauder al baritono, David Bindman al soprano e al tenore e Avram Fefer al contralto, una trombonista, Reut Regev, un batterista, Igal Foni, e una seconda tromba - che rincontreremo più avanti -, quella della portoghese Susana Santos Silva. In scaletta gran parte dei brani di Ashcan Rantings, uscito su Clean Feed (ma dai?) nel 2010.
Medesimi i brani, identico l'approccio. Un pizzico di Ellington, un po' di Mingus, qualche goccia del Threadgill più "danzereccio," ma anche richiami più ancestrali e sottili: come quello all'orchestra di Mel Lewis e Thad Jones, o, volendo proprio risalire alle origini, al Count Basie degli anni d'oro. Insomma, un gran bel sentire. Brani pennellati con mano ispirata. Orchestrazioni ariose, squillanti: in perfetto equilibrio tra complessità e orecchiabilità. Un senso del timing tutto americano, intessuto di riff e contro-riff. Due i solisti sugli scudi: Nate Wooley, che a Lubiana ha confermato di essere uno degli astri nascenti della tromba a livello mondiale; e Matt Bauder, musicista dalle potenzialità enormi. Il primo ha dalla sua, oltre a una tecnica impeccabile, la capacità di far scorrere il sangue nella musica, di trasmettere pathos e calore. Il secondo si è distinto per un paio di assoli costruiti con rigore, nota dopo nota, in un gioco di incastri entusiasmante.
Dalla band più numerosa alle tre esibizioni in solo: quella di Peter Evans, della pianista slovena Kaja Draksler e del gigante Joe McPhee. Ipervitamico il set del trombettista. Per un paragone tocca scomodare Evan Parker, con il quale Evans suona e ha suonato (ad esempio nel recente Scenes in the House of Music). Se non altro per il massiccio ricorso alla respirazione circolare e per la vorticosa concezione dei "brani". Armato della classica tromba, ma anche di un trombino (la piccolo trumpet) a quattro pistoni, l'atletico Peter si è lanciato in una serie di funamboliche improvvisazioni, testando i limiti propri e dello strumento, facendo sfoggio di una tecnica e di un'intonazione a dir poco scintillanti. Qualcuno ha obiettato (non a torto) che c'è un che di gelido e cervellotico nei suoi solo. Ma l'esperienza d'ascolto è di quelle che lasciano il segno, che pongono quesiti e stracciano le certezze.
Molto più "mainstream," al confronto, il set di Kaja Draksler. Una pianista da tenere d'occhio. Sfuggente e sensuale, attenta ai s uoni e alle impalcature più che alle melodie. Notevole la rilettura di "Work" di Monk, così come quella cageana di "For the Army of Me" di Björk. Insomma, una solista non banale, sintonizzata sul presente del piano jazz (dichiarato, in apertura, l'omaggio a Vijay Iyer).
Infine Joe McPhee, per il quale non servono molti aggettivi. In quel di Lubiana si è diviso tra il contralto e la pocket trumpet. Doppia la dedica: a Ornette Coleman e a Don Cherry. I padri, dei quali lui è degno figlio. Perché nelle sue dita vibra la storia del jazz; perché i piedi sono ben piantati in quel "continuum" che fa della tradizione afroamericana qualcosa di unico e diverso. E allora, tendendo bene le orecchie, ecco spuntare Rex Stewart, Bubber Miley e Hot Lips Page; non solo Cherry. Albert Ayler, Lucky Thompson, Chu Berry, Johnny Hodges; non solo Ornette. "Ancient to the Future," per dirla alla maniera di Chicago. Con la consueta, straziante, intensità; con la consueta, disarmante, sincerità. Altrettanto emozionante il duo con il contrabbassista Ingebrigt Håker Flaten, a ripercorrere le orme del recente Brooklyn DNA. Spalla migliore, per un gigante del genere, non ci poteva essere. In alcuni momenti i due han giocato pesante, spingendo sui volumi e la concitazione, ma le cose migliori sono arrivate nel finale, quando McPhee, al contralto, ha ricamato una ballad di una dolcezza commovente, con l'archetto del norvegese a distendere un tappeto di velluto rosso. Brividi.
Rimandata a settembre la trombettista Susana Santos Silva, che a Lubiana si è esibita anche alla testa del trio Lama (completato dalla batteria di Greg Smith e dal basso di Gonçalo Almeida). Reduci dal debutto su Clean Feed, Oneiros, i tre han confermato che la proposta è sbarazzina, intrigante. Jazz che sa di anni zero, sporcato di elettronica e lontano da qualsiasi vezzo esibizionista. Tuttavia, mancano ancora cuore e unghie per passare dalla categoria dell'interessante a quella del convincente.
Chiusura di rito con i "prescindibili". Poco da dire sui due eventi acchiappa pubblico: Dee Bridgewater, che funziona sempre e dà ancora la paga a molte giovani colleghe, e John Scofield, che ormai si dibatte stancamente in un'eterna reiterazione del proprio canone (in questo caso resa ancora più stucchevole dalla presenza di un clone, Kurt Rosenwinkel). Messi in cartellone per attirare il pubblico "onnivoro," hanno fatto il loro dovere. Ma il vero festival è passato altrove.
Foto di Nada Zgank.
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