Un quartetto di cui il chitarrista Aron Namenwirth è il primo (e sul CD l'unico) firmatario ma che abbraccia in realtà il "vangelo" dell'improvvisazione collettiva (facendo non poco leva sul polistrumentismo quanto mai eclettico di Daniel Carter, che affianca alla tromba sax tenore, soprano e contralto) firma questo brillante lavoro il cui sdipanarsi (sei episodi svarianti dai quattro ai dieci minuti) non mostra mai la corda, rischio così frequente (verrebbe da dire quasi fisiologico) in una formula tanto praticata quanto non di rado ingabbiata in una sorta di cul de sac entro cuiappuntoi "praticanti" fanno una gran fatica a districarsi.
Qui, invece, tutto marcia spedito, dando l'impressione che i musicisti sappiano sempre dove andare, con la capacità costanteingrediente primario, anzi indispensabile di ascoltarsi reciprocamente, senza mai avere l'ubbia (così diffusa, in effetti) di sopravanzarsi l'un l'altro. Ne viene fuori, così, una musica fresca, vitale, leggibile (anche se certo non accomodante), che qua e là ricorda quella storica del grande Sam Rivers (oggi fin troppo dimenticato). Ovviamente con in più la chitarra elettrica di Namenwirth. Con tutto ciò che tale inserimento può comportare e che è abbastanza facilmente intuibile. Discocome amiamo dire in questi casiterapeutico.
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Ecumenico ma (abbastanza) esclusivo, non sopporta la musica – e l’arte in generale – di routine, rassicurante e dozzinale, preferendo, se proprio deve, il brutto all’inutile. Un ideale spaccato dei suoi amori musicali (che non si limitano al jazz; e più o