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La mia duplice anima: intervista a Eugenio Macchia

L'artista jazz deve essere parte di uno spirito di ricerca.
Ha suonato al Dizzy's Club Coca Cola di New York presso il Lincoln Center, nel luglio 2010 ha vinto in piano solo la prestigiosa Luca Flores Piano Competition di Firenze, e appena due settimane dopo ha vinto l'International Jimmy Woode Award. È considerato tra i migliori pianisti emergenti e per Eugenio Macchia - classe 1981 -, dopo il buon riscontro di Living in a Movie, è arrivata l'ora di confrontarsi con un nuovo lavoro in studio, nei negozi fra pochi giorni, In Between. Lo abbiamo raggiunto durante le concitate fasi di registrazione per farci raccontare questo suo splendido momento.

All About Jazz: Qual è oggi il tuo modo di intendere il jazz?

Eugenio Macchia: Esistono due modi di pensare il jazz. Se accetti il fatto che il jazz è una forma d'arte che si sta sviluppando ed evolvendo non puoi chiamarti fuori, devi sapere cosa sta succedendo ed essere parte attiva di un processo. Oppure accettare il fatto di essere legato allo swing, agli anni Sessanta e decidere di fare solo quello. Io sono più interventista, a mio avviso l'artista jazz deve essere parte di uno spirito di ricerca.

AAJ: Sei partito dalla musica classica. È stato un bene?

E.M.: È stato un bene ritornarci dopo molto tempo. Quando inizi a studiare musica classica, senza avere delle concezioni armoniche, diventi il "pappagallo" di un altro, il che va benissmo in una fase iniziale. Le dita iniziano a muoversi su cose che senza studiare non riusciresti a riprodurre. Ci sono passaggi in Mozart o Bach che in qualche modo ti "costruiscono" la mano, ma se non capisci armonicamente cosa sta accadendo non ha senso. Ci sono pianisti che escono da questa condizione e altri che purtroppo senza lo spartito non sono in grado di andare avanti. È stato bello, come dicevo, ritornare alla musica classica, con una mia coscienza armonica, per poter capire cosa sta succedendo nella musica che suoni. In questo modo si coglie la poesia di un certo materiale.

AAJ: Oscar Peterson è stato il tuo primo amore jazzistico?

E.M.: Sì perché a casa, da piccolo, c'era un suo disco. In realtà succede quasi sempre così. Mi piaceva il suo ineguagliabile controllo dello strumento, e anche quello di Art Tatum. La grandezza di questi musicisti non sta nel virtuosismo, ma nel loro modo di essere musicisti. Oscar era Oscar, era riconoscibile, riusciva a essere se stesso con grande potenza. La differenza non la fanno le note, in giro tutti sono capaci di fare mille note, ma pochi sono in grado di essere se stessi. Solo i più grandi ci riescono. All'inizio mi ha folgorato lui, per la chiarezza delle idee, si capisce benissimo e con esattezza cosa voglia dire. Questo mi ha educato molto. Vorrei con la mia musica essere chiaro come lui.

AAJ: Chi stimi di più tra i pianisti coetanei?

E.M.: Domenico Sanna, con cui sono amico, e anche se non lo conosco mi sento di dire Claudio Filipppini, perché ascoltandolo mi sembra che condividiamo molti aspetti musicali. Questi nomi non sono casuali perchè mi piacciano molto i pianisti che hanno una "vena nera," molto blues.

AAJ: Sei considerato tra i migliori pianisti emergenti: inizi ad avvertire il peso delle aspettative?

E.M.: Diciamo che avverto di più il peso delle aspettative da parte di me stesso che degli altri. Nel senso che le aspettative degli altri sono un concetto relativo, dovrei avere degli altri un'idea alta, non che io non ce l'abbia, ma non tendo a sopravvalutare il pubblico. Sono comunque molto grato alle persone che mi ascoltano. Assecondo le mie aspettative per creare una musica che possa sempre piacere e non deludere. Il segreto è viaggiare molto e nutrirsi di tante cose nuove che poi alla fine faranno parte di te stesso. Adesso rispetto al passato le distnze, anche musicali, sono più facili da colmare.

AAJ: Sei pugliese, la tua regione ultimamente si è posta al centro dell'attenzione generale per la grande fertilità artistica: perché?

E.M.: Credo che ci siano diversi fattori. Sicuramente c'è una vena molto emotiva al sud, molto mediterranea. Sarannno forse i tramonti e, a parte gli scherzi, la gente è molto vera. L'arte ne risente in maniera positiva. Sono persone che hanno una componente poetica e sanno tradurre questo aspetto in arte. Persone semplici, dall'animo puro, che non trovi al nord, dove sono immersi nel lavoro; noi ci fermiamo a pensare, tendiamo a essere più riflessivi. Nell'ultimo periodo sono uscite molte cose interessanti dalla Puglia, speriamo continui così.

AAJ: Hai un obiettivo da raggiungere?

E.M.: Sì, mi piacerebbe riuscire sempre a rinnovarmi pur mantenendo un'identità; vorrei costruire un suono che sia riconoscibile. Credo che questo sia uno degli obiettivi primari di ogni musicista. Poi spero di risucire a collaborare con qualche mio idolo nel Mondo, mi piacerebbe poter girare con un gande mentore per assorbire una grande lezione di musica e di vita.

AAJ: Come sarà il tuo prossimo album?

E.M.: È una cosa nata pochissimo tempo fa. Concettualmente ci avevo pensato appena dopo l'uscita di Living in a Movie, e praticamente si è sviluppata a inizio di quest'anno. Si tratta di nuovo materiale suonato con un nuovo trio. Un album dalla duplice anima, in quanto mi cimenterò sia in brani suonati al pianoforte che al Fender Rhodes. Un doppio approccio dunque, dovuto anche al fatto che il Fender mi è sempre piaciuto molto. Ho scritto appositamente per i due strumenti. Dovrebbe uscire a maggio per l'Auand di Marco Valente e sono molto contento di come sta venendo.

AAJ: Con chi suonerai?

E.M.: Il batterista è Nicola Angelucci, che avevo conosciuto l'estate scorsa quando abbiamo registrato un live a Tuscia Jazz, mi era piaciuto moltissimo il suo suono, il suo tocco adatto per un piano-trio. Al basso ci sarà Dario Di Lecce, con il quale avevo già collaborato al Lincoln Center nel 2010. Proprio l'esperienza newyorkese, per la quale devo ringraziare Antonio Ciacca - che era il responsabile della programmazione artistica in quel periodo -, è stata molto formativa, ho assorbito moltissimo, e parecchia musica del nuovo disco deriva da ciò che ho imparato osservando e ascoltando i grandi musicisti incontrati in quei giorni.

AAJ: Differenze rispetto al primo lavoro?

E.M.: I brani del primo album sono stati i miei primi esperimenti musicali e di scrittura. Avevo esperienze come pianista e mi ero cimentato con la scrittura, ma i brani del prossimo lavoro saranno molto più indirizzati a uno stile jazzistico. Ho dovuto fare i conti con il fatto che la mia connotazione è fortemente jazzistica. Mi piace un tipo di approccio moderno al piano, mi piace molto Antonio Faraò per esempio, ma questo dal primo disco emerge pochissimo. Ho sviluppato il mio filone "hancockiano," e ho scritto questi brani - alcuni molto asimmetrici e swing - cercando di realizzare un lavoro che mi rappresentasse in pieno. La genesi di Living in a Movie è stata un po' lunga, l'ho registrato nel 2008 ed è uscito l'anno scorso. È stato un parto lunghissimo, era una foto nella quale quasi non mi riconoscevo più.

Foto di Davide Susa (la prima) e Filippo Silvestris (la terza e la sesta).

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