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Jazz a Milano - Conversazione con Dario Villa
"Vaste programme!", direbbe un uomo pragmatico come il generale De Gaulle.
"Vale comunque la pena di provarci", deve aver pensato Dario Villa, fotografo, collaboratore del nostro web magazine, e ideatore del progetto "Jazz a Milano".
All About Jazz: Cos'è "Jazz a Milano"?
Dario Villa: Si tratta di un progetto fotografico che ritrae i protagonisti della scena jazz milanese, che sono anzitutto musicisti ma anche addetti ai lavori e più in generale persone che animano e sostengono questo ambito musicale. Dal punto di vista fotografico, la peculiarità del lavoro è data dal fatto che tutte le persone vengono ritratte nel loro ambiente domestico.
Il progetto ha una tesi: mostrare, attraverso i volti delle persone che la rendono viva, che la scena jazz milanese può essere considerata come una cultura unitaria e aggregante. La scena jazz di Milano è oggi afflitta da scarsità di attenzione, luoghi e risorse. A peggiorare la situazione, spesso emergono parrocchie antagoniste, il che restituisce la sensazione di tanti piccoli percorsi che non riescono a trovare una rotta comune. Lo spirito comunitario di "Jazz a Milano" è un possibile antidoto agli atteggiamenti di separatismo che rischiano di far perdere di vista l'obiettivo comune: la valorizzazione della cultura musicale cittadina.
AAJ: L'idea come nasce?
D.V.: Nasce da un bisogno e da una ispirazione. Sentivo il bisogno di realizzare, usando la fotografia, qualcosa di "nuovo" e al tempo stesso utile per la cultura jazz.
L'ispirazione l'ho trovata in un progetto sulla scena jazz newyorkese della fotografa Lourdes Delgado (tra l'altro moglie del batterista Jeff Ballard). Da lei ho preso l'idea dei ritratti "casalinghi". Osservando il lavoro della Delgado, ho pensato: se è stato fatto a New York, perché non provarci a Milano?
AAJ: Per definizione, questo è un work in progress...
D.V.: Il progetto ha preso inizio nel 2009 e non ha una "data di scadenza": la cultura jazz è dinamica e mutevole e va fotografata nel corso del tempo. Una volta assunto questo presupposto, mi sono chiesto: da dove iniziare? Parlando con Antonio Ribatti (organizzatore del festival Ah-Um, NdR) - che è un amico e con il quale condivido molte idee riguardo la scena musicale milanese - è nata l'idea di cominciare a lavorare insieme.
La prima tappa di "Jazz a Milano" è il sotto-progetto "Ah-Um People," incentrato sul fotografare e intervistare le persone legate al festival Ah-Um e ai suoi dieci anni di attività. Il progetto è stato "celebrato" da una mostra che ha avuto luogo a maggio 2010 nel contesto del festival stesso.
AAJ: Come è stato lavorare con musicisti che spesso sono anche amici, e lavorare con loro in un ambiente che non è quello consueto del jazz, cioè il palco, ma a casa loro?
D.V.: Fotograficamente parlando, l'ambiente domestico e la ritrattistica "ambientata" permettono di far emergere il soggetto in maniera molto più personale e caratterizzata di quanto non accada sul palco. La dimensione di maggiore prossimità e intimità data dal luogo si accompagna a quel che le persone raccontano, che considero una grande esperienza di apprendimento. A ogni incontro ho l'opportunità di conoscere persone che magari ho fotografato stando sotto a un palco. Di sentirle raccontare le loro storie, spesso provenienti da tempi in cui non seguivo ancora la scena jazz, oppure legate a chi sta iniziando a costruire un percorso al suo interno.
AAJ: Che ritratto è emerso del jazz a Milano?
D.V.: Se le storie sono tante e variegate, da esse emergono chiaramente alcuni temi di fondo. In particolare, una chiave di lettura della scena attuale deriva dal passaggio storico da una Milano anni '80-'90, ancora molto ricca dal punto di vista culturale e musicale, a una Milano anni 2000 un po' più povera, soprattutto quanto agli spazi. Rispetto ai fasti del passato, a Milano oggi mancano "luoghi simbolo" in cui riconoscersi, creare aggregazione e fermento, poter suonare in maniera non episodica.
Secondo il parere di musicisti e addetti ai lavori, non è che a Milano non si senta jazz, ma si sentono pochi jazzisti milanesi!
Le note più dolenti riguardano i luoghi tradizionalmente deputati al jazz, cioè i club. Tra i più piccoli, quelli che riescono a offrire jazz con continuità - e a sopravvivere - si contano a malapena sulle dita di una mano (penso in particolare alla Salumeria della Musica e al Nordest). Quanto ai più grandi, c'è chi non riesce né ad avere una programmazione all'altezza del blasonato nome che porta, né a dare spazio ai musicisti milanesi. Purtroppo, piccoli o grandi che siano, questi club non riescono a essere "luoghi simbolo" come in passato il Capolinea o il Tangram.
Mescolando il mio parere a quanto emerso dall'indagine, vorrei registrare qualche aspetto positivo. Il citato Ah-Um fa sì che Milano abbia ancora un festival degno di questo nome. La rassegna "Atelier musicale" da anni offre una programmazione solida, a suo modo "didattica" e non scontata. "Break in jazz," "il Ritmo della città" o le redivive serate estive all'Arco della Pace si propongono come iniziative accomunate dalla volontà di stringere un forte legame tra jazz e tessuto urbano. Di positività potrei citarne anche altre come il sempre ottimo programma internazionale del Manzoni o le coraggiose proposte del Gheroarté.
AAJ: Una cosa che ho notato, osservando attraverso le tue fotografie le case dei jazzisti milanesi, è l'enorme quantità di libri, dischi, di arte in generale, di cui i musicisti si circondano.
D.V.: A proposito di questo, qualcuno mi ha anche fatto notare anche le tante librerie riconoscibilmente prodotte da una nota azienda svedese! Per tornare alla tua osservazione, oltre ai libri e ovviamente ai dischi si vedono anche molti quadri e altre opere d'arte. Purché non suoni come un luogo comune, il jazzista è di solito una persona che si circonda di simboli di diverse culture e non vive in un mondo separato, soltanto musicale. O quanto meno, questo è il modo in cui io leggo quest'evidenza. Da queste foto emerge una scena culturale che vuole sentirsi viva a 360° rispetto all'ambito cittadino, il che magari provoca anche un certo risentimento da parte di alcuni, per il non riuscire a esserne protagonisti quanto si vorrebbe.
AAJ: Questo infatti è un altro elemento che ho notato leggendo alcuni estratti delle interviste. La rivendicazione, una certa tendenza alla lamentela. Per certi versi questa è una cosa che mi è piaciuta poco. Mi spiego: capisco le difficoltà, e le frustrazioni, con cui un jazzista deve confrontarsi. Capisco meno, invece, la diffusa aspettativa - soprattutto economica - nei confronti dell'amministrazione pubblica. Personalmente, non credo nell'arte sovvenzionata.
D.V.: Riguardo al tema dei finanziamenti, ci sono esempi stridenti. Pensa alla musica classica, a quanto viva di sovvenzioni pubbliche, e a quante meno risorse sono riservate al jazz. Questo è un dato di fatto.
Poi c'è il contrasto tra aspettative, realtà e iniziativa individuale dei singoli. In alcuni casi si ha la sensazione di un certo attendismo, oppure che la percezione di una realtà piuttosto buia (che non mi sento di mettere in discussione) sia più forte della volontà di provare a cambiarla.
Potrà suonare sorprendente, ma i più speranzosi e aperti sono i musicisti più avanti con gli anni. Forse proprio perché ne hanno viste tante, i rappresentanti dell'età di mezzo sono i più "combattivi". I più giovani appaiono invece, sia detto senza nessun tono di accusa anche se mi rendo conto di generalizzare, piuttosto disillusi. Da parte di alcuni emerge una sorta di auto-isolamento. Spesso si preferisce concentrarsi sui lavori discografici e su molti progetti di breve periodo piuttosto che sul sostenere un progetto duraturo, più riconoscibile e costruito concerto dopo concerto. Si tende a stare nel proprio guscio piuttosto che a partecipare ad attività condivise e relazionate allo spazio della città, come l'andare ai concerti di altri musicisti, partecipare a jam session, confrontarsi con l'esperienza di musicisti più anziani. Se i musicisti per primi si comportano così, mancando di dare vivacità alla scena, come aspettarsi di più dal grande pubblico?
Mi sembra che quelli che suonano di più siano anche quelli che si danno più da fare. E che magari suonano in situazioni piccole e poco remunerative, che tuttavia sul lungo periodo rendono il musicista parte del tessuto culturale e sociale cittadino. Credo che, in una situazione difficile come quella odierna, questa sia una delle poche strade premianti.
AAJ: La tua sensazione, a questo punto del lavoro?
D.V.: Provo soddisfazione per essere riuscito a mettere in piedi questo progetto e avere avuto una prima occasione di condividerlo con la città attraverso la mostra "Ah-Um People". Devo molto all'aiuto di Antonio Ribatti, che mi ha accompagnato in questa prima parte di lavoro.
In questo momento l'orizzonte è aperto. C'è un sito internet che raccoglie tutti i ritratti. Ci sono, in corso di rielaborazione, le interviste realizzate da Antonio in occasione di ogni foto. La prospettiva è quella di continuare il lavoro allargando la prospettiva sulla Milano del jazz e provando a coinvolgere nuovi soggetti. Visto che questo lavoro riguarda il rapporto fra la città e una delle sue culture musicali, non nascondo che mi piacerebbe riuscire a portarlo all'attenzione delle istituzioni e dunque volgerlo in maniera più solida alla cittadinanza. Così come mi piacerebbe che il tutto potesse prendere la forma di una pubblicazione.
Per completare la lista dei desideri, vorrei veder emergere uno spirito da chiamata alle armi. Spero che questo progetto possa funzionare come un richiamo, rivolto ai musicisti e agli addetti ai lavori, a impegnarsi di più in nome collettivo. È un invito a metterci la faccia, a raccontare che una cultura jazz a Milano esiste.
Foto di Dario Villa (tranne la prima, di Claudio Casanova).
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