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Intervista a Cristina Mazza

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Nata a Milano ma veronese a tutti gli effetti, Cristina Mazza è stata la prima sassofonista italiana ad operare professionalmente in ambito jazz, già sul finire degli anni settanta.

Diplomata al conservatorio di Bologna, è stata influenzata nello stile da Miles Davis ed Ornette Coleman. Dagli anni Ottanta ad oggi ha registrato sette dischi da leader o co-leader ed altrettanti in partecipazione con altri artisti, in particolare assieme al sassofonista e multistrumentista Bruno Marini.

All About Jazz: Dopo oltre un decennio di produzioni per così dire "impegnate" col disco The Gamble del 2001 inizia per te una nuova fase che dura tutt'ora, dove intrattieni una forte relazione con l'organo hammond di Bruno Marini e l'estetica è chiaramente influenzata dal funk e dal soul. Ce ne vuoi parlare?

Cristina Mazza: Dopo un disco molto composito come Lanxatura del 1994 ed il successivo 360° Circular, realizzato nella fine di quel decennio, avevo voglia di fare un disco diverso. Ho composto brani più legati al blues o ad un impianto modale piuttosto che atonale. The Gamble ha venduto molto, è piaciuto ed effettivamente grazie a questo CD ho raggiunto un pubblico più ampio.

AAJ: Dopo anni di permanenza nella nicchia dell'avanguardia è stata una soddisfazione?

C.M.: Si, è stato stimolante farsi apprezzare anche da chi non ascolta abitualmente jazz. Era un azzardo (da qui il titolo The Gamble) entrare in contatto con le radici del blues e del soul senza per questo snaturare il mio suono o il mio stile. È anche divertente vedere la gente che balla con una musica quasi totalmente improvvisata ed è tutt'ora interessante collaborare anche con i DJ.

AAJ: Con E-Waste realizzato sempre con Marini all'hammond ed U.T. Gandhi alla batteria c'è stata una ulteriore trasformazione...

C.M.: Si, la volpe perde il pelo ma non il vizio... Ho sentito la nostalgia di atmosfere più astratte e meno legate alle atmosfere acid jazz, senza per questo rinunciare al groove. C'è molta voglia di rischiare, i temi sono ancora più scarni e ho voluto ampliare le sezioni "aperte" sfruttando di più le possibilità "psichedeliche" dell'organo. Amo ancora lavorare con il trio classico, con basso e batteria, ma questa formazione con l'organo è una sfida stimolante dal punto di vista ritmico e timbrico, pagando anche il mio tributo al Miles Davis elettrico, che è stato centrale nella mia formazione.

AAJ: Vuoi ricordare alcuni dei tuoi progetti dell'ultimo decennio?

C.M.: Catch the Beat dallo stile più vicino al free funk realizzato con il cantante Daniel Sous, il Deep Down Sextet (un omaggio alla musica di Mal Waldron) con Sean Bergin, Marini (qui al sax baritono), Daniele D'Agaro, Jean Jacques Avenel e Sagoma Everett, Out to Lounge a nome di John Kinnison ed un lavoro molto particolare (No Trespassing) inciso nel 2008 con John Tchicai, Bruno Marini e un gruppo heavy metal.

AAJ: Ci spieghi in dettaglio com'è nata una cosa del genere?

C.M.: Tchicai ha ascoltato per caso un disco di Bruno Marini al baritono, gli è molto piaciuto e un giorno gli ha telefonato invitandolo a fare qualcosa assieme: lui stesso lo racconta nelle note di copertina. Bruno stava lavorando con un formidabile trio a cavallo fra heavy metal e hard rock (gli "Ice9") e gli ha proposto questo particolare organico con una front-line di tre sassofoni. Tchicai ne fu quanto mai incuriosito e desideroso di provare una nuova esperienza.

Suoniamo pezzi composti collettivamente e altri proposti da Tchicai.

AAJ: Per restare al presente vorrei che mi parlassi della tua collaborazione con gli Embryo. Puoi raccontarci com'è iniziata?

C.M.: Un loro amico aveva acquistato tramite internet Where Are You? il disco che avevo realizzato nel 1991 con Mal Waldron. Gli era piaciuto e mi contattò via mail dicendosi pronto a farmi conoscere Christian Burchard degli Embryo visto che condividevamo l'interesse per la musica del grande pianista. Ci siamo conosciuti e da allora è iniziata la nostra collaborazione per alcuni concerti in Germania dedicati a Mal Waldron.

AAJ: Strano questo legame tra gli Embryo e Mal Waldron...

C.M.: Devi sapere che nella seconda metà degli anni sessanta, Mal Waldron si stabilì a Monaco e divideva l'appartamento con il giovane vibrafonista Christian Burchard - che è stato poi il fondatore degli Embryo - e con Dieter Serfas, batterista degli Amon Düül e degli Embryo.

Per loro, che erano diciottenni o poco più, Mal è stato una sorta di maestro e spesso suonavano jazz insieme nei club. Per Christian, Mal Waldron è stato come un padre e gli ha insegnato moltissimo.

Ad esempio che la sperimentazione non può esistere senza rispetto per la tradizione. Tuttora Burchard conserva un patrimonio di spartiti rari di Mal Waldron.

AAJ: Non hanno però smesso di fare il repertorio per cui sono noti, legando il loro rock progressivo contaminato con aspetti etnici...

C.M.: No affatto, amano ancora girare per il Nordafrica e l'Oriente con un furgone, secondo lo spirito dei tempi che furono, collaborando con musicisti locali nelle varie tappe del loro percorso.

AAJ: Accennavi prima a Miles Davis, Se non sbaglio la tua passione per il jazz è nata proprio con lui...

C.M.: Si. All'età di 16 o 17 anni andai a sentire con degli amici il concerto che Miles Davis dette alla Fenice di Venezia nei primi anni settanta. Ne rimasi folgorata. Ricordo anche di aver ascoltato un concerto studentesco al Liceo Maffei di Verona, dove la presenza di un sassofono aveva catturato la mia attenzione al punto che provai ad acquistare qualche disco.

Il primo che attrasse la mia attenzione fu un Lp con un quadro di Pollock e una grande scritta che diceva Free Jazz. Era ovviamente lo storico album del doppio quartetto di Ornette Coleman... questo è sicuramente jazz, dissi tra me, e lo portai a casa...

AAJ: Sei rimasta sconvolta?

C.M.: No, l'ho presa bene. Percepivo l'onda della musica ed ero così coinvolta che andavo quasi in trance. Ero molto presa dal continuum delle improvvisazioni ed in particolare dal duo dei contrabbassi e da quello delle batterie prima del tema finale.

Tornando al concerto veneziano di Miles ricordo che fui molto colpita da Gary Bartz, un sax contralto assolutamente originale che mi affascinò per il suo suono che mi ricordava l'Africa. Immetteva effetti vocali nello strumento e introduceva negli assoli un climax che mi entusiasmava. Più che Ornette Coleman, che ho approfondito solo qualche tempo dopo, è stato proprio Gary Bartz la mia prima fonte di ispirazione.

AAJ: Il passaggio dall'ascolto alla pratica strumentale com'è avvenuto? Nell'Italia dei primi anni settanta sassofoniste jazz non ce n'erano. Mi confermi di essere stata la prima?

C.M.: Si, confermo. La decisione di suonare uno strumento è venuta dopo mesi di ascolto di dischi - tornavo da scuola e mi chiudevo in camera ad ascoltare jazz fino all'ora di cena con viva preoccupazione dei miei - e dopo tanti viaggi per ascoltare i miei idoli.

A quel tempo tentavo di dipingere ascoltando musica e mi resi conto che la musica mi offriva più possibilità di esprimere le mie emozioni immediate e la mia vena teatrale. Ho dovuto comunque vincere le mie battaglie familiari perché i miei erano molto perplessi e preoccupati. Ad esempio: visto che mio nonno aveva un'enfisema polmonare, prospettavano la stessa fine anche a me (!!!)

AAJ: Il fatto di essere donna ti ha avvantaggiato o svantaggiato nella carriera artistica?

C.M.: Direi entrambe le cose in momenti diversi. All'inizio una certa curiosità per l'insolito mi ha avvantaggiata e ricordo con riconoscenza i positivi giudizi e l'attenzione di giornalisti come Pino Candini, Franco Fayenz, Gian Mario Maletto ed appunto Angelo Leonardi. Poi le cose sono cambiate. Magari non rappresentavo la sassofonista che loro si aspettavano, non so... certo che è stato difficile esser presa come sul serio come strumentista e compositrice al di là del fatto epidermico.

AAJ: Della tua collaborazione con Mal Waldron abbiamo accennato ma non mi hai detto com'è nata...

C.M.: Dopo il diploma al conservatorio di Bologna mi iscrissi ai corsi di Diano Marina dove insegnava Giorgio Gaslini che ricordo ancora con grande piacere. L'anno dopo venne Mal Waldron a cui si affiancò fino al 1988 anche Steve Lacy. Ricordo ancora le parole che disse Waldron nella sua prima lezione: "Il jazz è una musica che parla di libertà. Ogni musicista di jazz deve trovare il suo suono. Io al pianoforte ho trovato questo suono". Andò allo strumento e suonò uno standard. Bellissimo. Non c'era più niente da aggiungere.

Ricordo che qualche allievo si lamentava perché non dava lezioni più formali ma il suo insegnamento era intrinseco nella persona, nelle cose che ci diceva, nel modo in cui suonava.

AAJ: È stato difficile proporgli di realizzare delle cose assieme?

C.M.: Ora penso di essere stata un bel po' temeraria e presuntuosa, come spesso accade da giovani. Però posso dire che proprio nei grandi artisti ho trovato una rara disponibilità, tanto in Mal Waldron quanto in Steve Lacy, Reggie Workman, Jimmy Carl Black, John Tchicai, Sean Bergin e in tutti gli altri che ho avuto la fortuna di incontrare.

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