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Il super-musician che considera la musica una scienza

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La gente ha impiegato trent’anni per comprendere e apprezzare ciò che facevamo negli anni ‘70, forse ci vorranno altri trent’anni perché venga riconosciuta la musica che facciamo oggi.
Andrea Ravagnan ha condiviso la realizzazione dell'intervista e la stesura di questo articolo

“Parmi, oltre a ciò, di scorgere nel Sarsi ferma credenza, che nel filosofare sia necessario appoggiarsi all’opinioni di qualche celebre autore, sì che la mente nostra, quando non si maritasse col discorso d’un altro, ne dovesse in tutto rimanere sterile ed infeconda; e forse stima che la filosofia sia un libro e una fantasia d’un uomo, come l’Iliade e l’Orlando furioso, libri ne’ quali la meno importante cosa è che quello che vi è scritto sia vero. Signor Sarsi, la cosa non istà così. La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l’universo), ma non si può intendere se prima non s’impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezi è impossibile intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto.” (G. Galilei, Il Saggiatore)

“Nulla è cambiato per ciò che ci riguarda. Facciamo ciò che abbiamo sempre fatto: pratica, prove, studio. La nostra è una musica che non si ferma mai, che ci sottopone ad una sfida continua: è una questione di apprendimento e non basta una vita intera per afferrare tutto ciò che c’è da apprendere”.

Non concede molte soddisfazioni agli intervistatori Roscoe Mitchell.

Con cordiale pacatezza liquida in poche battute le domande di chi pure è teso allo spasimo per recepire ogni sua minima concessione. È evidente che non ama essere investito di un ruolo che non sente proprio: Mitchell si considera semplicemente un musicista, poco importa che noi lo si veda come uno dei maggiori esponenti della creative music.

Eppure qualcosa deve pur essere cambiato in oltre quarant’anni di ricerca musicale: le ragioni dietro una musica che si definisce e difatti risulta ‘creativa’ devono pur essersi rinnovate seguendo i tempi, le condizioni sociali, i mutamenti tecnologici; qualche differente sfumatura deve pur aver impreziosito il senso che sta dietro l’espressione Great Black Music. E invece pare di no, e noi - almeno qui - non possiamo che attenerci a quanto dice Roscoe Mitchell.

Fulgido esempio di carriera da musicista afroamericano, il percorso di Mitchell è forse tra i meno tortuosi ma indubbiamente tra i più esaltanti. Nelle sue parole si rincorrono all’impietosa velocità del ricordo tappe che è solo possibile intuire quale enorme influenza abbiano avuto sulla sua formazione: il periodo trascorso nell’esercito di stanza in Europa, in un periodo in cui la musica di Ornette ancora non la si riusciva a digerire ma già si avvertiva la potenza del suono di Albert Ayler, quando i diversi reggimenti s’incontravano per qualche momento distensivo; l’incontro con Muhal Richard Abrams e l’ininterrotta sinergia stabilita dapprima con la sua Experimental Band - ambiente devoto di sperimentazioni prima impensabili - e in seguito con l’Association for the Advancement of the Creative Musicians, istituzione d’immenso valore artistico e sociale, dei cui principi Mitchell si fa tuttora promotore (“I tempi erano maturi. Le cose mutano nell’universo: ci sono persone in grado di avvertirlo e persone che non sono in grado di avvertirlo. Tutto dipende dal fatto che le orecchie e la mente siano aperte per accogliere questi cambiamenti, e ovviamente esistono percorsi differenti per tradurli in musica, per cui il modo in cui la musica si è sviluppata a Chicago è completamente diverso dal modo in cui si è sviluppata a New York”); la lunga gloriosa esperienza con uno dei gruppi più rappresentativi della creative music, l’Art Ensemble of Chicago, dai fasti della capitale francese (“Non ho mai più visto Parigi così viva come allora”, racconta) alla tragica scomparsa di Lester Bowie prima e Malachi Favors poi, eventi il cui impatto sul suono dell’Art Ensemble è ancora tutto da valutare.

Qualcosa deve pure essere cambiato, no? E invece...

“Questa è una musica che richiede un’assidua dedizione. Il jazz, come la vera tradizione, è una musica che evolve costantemente e noi non possiamo che inserirci in questa evoluzione e cercare di suonare ciò che risulta vitale, momento per momento”. Con Mitchell non c’è spazio per riflettere sui luoghi da dove la musica proviene. Solo sui modi e sui tempi per andarle incontro, dovunque essa sia: “Il nostro obiettivo è suonare una musica che rifletta la vita, che rifletta ciò che sta accadendo nel momento in cui la viviamo. Esistono diverse tendenze, certo, ma noi non seguiamo le mode seguiamo solo la musica”.

Eppure oggi pare si faccia molta confusione tra ‘musica’ e ‘mode’.

Evitando accuratamente di cadere negli sterili esercizi di distinzione culturale che finiscono per far perdere di vista la limitatezza di ogni osservazione, basterà soffermarsi a riflettere su un dato oltremodo concreto: qual è il livello di visibilità di cui gode oggi la creative music?

Discorso ampio, complesso e affascinante di cui ci verrà perdonato se salteremo alle conclusioni rimandando ad altro più conveniente contenitore il percorso argomentativo: un livello minimo. Indubbiamente insufficiente. Com’è che i jazzisti italiani in gita a New York riempiono pagine e bocche di parole lodanti, e quasi nessuno si accorge che - giusto a pochi giorni dalla nostra intervista con Mitchell - sempre a New York all’Iridium Anthony Braxton celebrava il culmine di una lunga stagione creativa, accomiatandosi dalla Ghost Trance Music per lanciarsi in chissà quale geniale vertigine?

Verità è che la creatività sembra non interessare e in definitiva, dunque, non pagare - né gli operatori, che faticano a reperire le risorse per proposte di questo genere, né i musicisti, costretti come i nostri ricercatori a rimanere costantemente incatenati alla dea esigente dell’(auto)promozione, stretti in spazi immeritatamente angusti, all’espatrio e a combattere coi compromessi sempre in agguato.

“Il fatto che essa non venga riconosciuta non ha nulla a che vedere con la musica creativa. Le persone impegnate nell’esplorare nuove possibilità rispondendo alla sfida di una musica in costante mutamento vanno avanti comunque. Nella mia vita ho assistito al succedersi di infinite tendenze, che s’impongono per un attimo e poi scompaiono, ma nessuna ha mai avuto influenza su di me e sulla mia musica. Io rimango concentrato sulle stesse identiche idee che ho sempre avuto: cercare di apprendere sempre di più e sviluppare la mia musica senza sosta. Maturare una piena consapevolezza e padronanza di questa musica richiede moltissimo tempo e non si ha bisogno di distrazioni quando si è impegnati nella ricerca”.

Non siamo i soli a rilevare una causa esterna e a tralasciare le argomentazioni, pare. La concentrazione di Mitchell sulla propria specifica attività lo assorbe interamente in una invidiabile forma di bonaria cecità.

Nonostante la cassa di risonanza costituita dall’Art Ensemble è comunque indubbio che difficilmente Roscoe Mitchell riuscirà a effettuare lunghi tour con i progetti di cui è leader - Nine to Get Ready, ad esempio, o il nuovo mirabolante quintetto che l’anno scorso ha licenziato un ottimo disco per la Rogue Art. E che dire del corposo repertorio di composizioni orchestrali (‘Memories of A Dying Parachutist’, ‘Variations and Sketches from the Bamboo Terrace’ e ‘Fallen Heros’), poemi sinfonici (“Non Cognitive Aspects of the City” su testi di Joseph Jarman), brani per pianoforte (“8/8/88”) scritti nel corso degli anni?

“È un’ottima domanda, peccato che io non abbia una risposta”. Di nuovo.

“Sembra che molte persone non riescano a venire a capo di più di una cosa alla volta. È accaduto lo stesso a Coltrane: molti di coloro che amavano la sua musica prima che lui vi imprimesse un nuovo corso non sono riusciti a seguirlo nella sua ricerca. A me pare che stiamo uscendo da un periodo in cui la gente era terribilmente affascinata dalla musica del passato. Ma questo non è il senso della nostra musica: la nostra musica vive del momento attuale, di una crescita continua che non sappiamo dove potrà portarci; mentre molti musicisti si adeguano ad un certo stile e lì si fermano. Questo non ha nulla a che vedere con l’essere un musicista creativo interessato ad esplorare le infinite possibilità della musica. La nostra musica riflette la vita. Non è nostra intenzione ricreare il passato ma rimanere concentrati sul futuro. Il nostro compito è creare musica che sia rilevante per la vita delle persone di oggi.”.

Rimane il fatto che il lavoro di Roscoe Mitchell a tutt’oggi rimane esplorato solo in una minima parte. E questo non solo e non tanto nel senso che molti passi devono essere compiuti verso una piena comprensione da un lato di una ricerca costantemente in fibrillazione come quella del sassofonista, dall’altro del ruolo che l’ispirazione dell’AACM ha avuto nello sviluppo della creative music. Quanto nel senso che molta della sua produzione rimane sconosciuta ai più, sepolta sotto le coltri di ‘out of print’ o ‘not yet recorded’ o vedendosi semplicemente negata ogni possibilità di raggiungere il pubblico attraverso quella che dovrebbe essere la naturale conclusione di ogni ricerca musicale: l’esibizione.

Perché il Roscoe Mitchell compositore non gode della stessa visibilità del Roscoe Mitchell improvvisatore, quasi esistesse una spaccatura nel pubblico che ricalca quella distinzione tra composizione e improvvisazione che per i membri dell’AACM è l’ostacolo primo da superare, come viene prontamente ribadito?

“La mia unica preoccupazione è che la musica possa evolvere. Se non c’è uno sviluppo interno alla musica per me non c’è motivo di interesse. E per essere un buon improvvisatore occorre padroneggiare la composizione, perché si tratta del medesimo processo, solo che nell’improvvisazione tutto è velocizzato. Nel momento della composizione hai tutto il tempo di ragionare sulle tue scelte, di rifletterci a lungo e magari abbandonare per un giorno e ritornarci il giorno seguente. Ciò che cerco di fare è sviluppare le mie abilità al punto di poter prendere tutte queste decisioni all’istante. Una buona improvvisazione dovrebbe sempre prevedere molteplici possibilità, non dovrebbe mai risultare bloccata. Nell’improvvisazione si deve ritrovare lo stesso scenario che si ha di fronte durante la composizione. Ed è ciò su cui ha sempre insistito Muhal Richard Abrams: creare un’improvvisazione che rifletta la composizione che si sta suonando”.

“Molte persone vengono da me non solo per dire che hanno gradito il concerto: dicono di aver bisogno di questa musica, perché non ci sono occasioni di ascoltare, di esplorare la musica creativa”.

Vero. E difatti si incontra qualche difficoltà a comprendere quanto Mitchell ha più volte dichiarato riguardo la fortuna di cui la musica creativa godrebbe ai nostri giorni: “Il tempo in cui viviamo è indubbiamente favorevole alla musica creativa: alcuni aspetti della musica che suono oggi anni fa potevano essere solo spunti di riflessione perché non ero ancora in grado di metterli in pratica, mentre ora ho la possibilità di spingere avanti il pensiero e sperare un giorno di riuscire a suonare ciò che ho in mente oggi”. Incalzato sulla questione otteniamo infine di scoprire che la considerazione ha una valenza assolutamente personale, tutt’altro che generalizzabile; una considerazione sull’andamento della propria ricerca - il cui stato di grazia peraltro non necessitava certo di conferme - che conforta se non altro le nostre modeste capacità di analisti.

Perché in fondo - stando al gusto diffuso dai principali organi di informazione - i nostri sembrano essere più i tempi di Wynton Marsalis e della sua musealizzazione del jazz, che non i tempi della ricerca creativa di Roscoe Mitchell. Tanto più se anche un personaggio come Amiri Baraka - la cui storia dovrebbe metterlo al riparo da considerazioni condiscendenti verso la strategia-Marsalis - ha dichiarato proprio a chi scrive la sua ammirazione per il direttore artistico del Jazz at the Lincoln Center.

Al proposito Mitchell sentenzia implacabile con uno squisito gioco di parole: “C’è spazio anche per questo. L’importante è che sia ben chiaro alla gente ciò che sta accadendo: ci sono musicisti creativi e ci sono musicisti ri-creativi. Così, è indubbiamente utile mantenere viva la musica del passato e farla conoscere, ma ciò che io personalmente non mi stanco mai di ripetere è di ascoltare la propria voce interiore e di studiare ogni genere di musica. Ed è solo nel momento in cui si ascolta e si trova la propria voce interiore che è possibile cominciare ad esprimere le proprie idee secondo il proprio sentire. E questo è tutto ciò che ci si può augurare di trovare quando si è un musicista. Se ci si limita a studiare la musica del passato si rimarrà sempre indietro, si rimarrà sempre in attesa per vedere cosa fanno gli altri col risultato che la maggior parte della musica che si ascolta oggi non è nemmeno paragonabile a quella suonata da coloro che per primi la crearono”.

Per non correre allora il rischio di rimanere indietro, per non incappare nell’errore del Sarsi che intendeva il filosofare esclusivamente come prosecuzione di un discorso iniziato da altri, tentiamo di rincorrere Roscoe Mitchell - novello Galileo della creative music - su per quel ripido crinale che è il terreno di ogni serio ricercatore.

Usiamo come pretesto il monumentale triplo cd uscito nel 2003 per la Mutable Music, in cui Mitchell sviscera il mondo della sua musica ai sassofoni o alla percussion cage, in completa solitudine. Un album in solo non è certo una novità, in particolare per un esponente dell’AACM, che dell’improvvisazione solitaria ha fatto quasi un genere, ma chi scrive era caduto ingenuamente nell’idea che questo Solo 3 potesse rappresentare una sorta di ideale compendio del traguardo artistico di Mitchell.

Mostriamo il disco a Mitchell, che lo guarda senza riconoscerlo all’istante. Allora, forse, non è un disco tanto fondamentale come si pensava... Poi si scusa e ci illumina: “Ogni lavoro è un momento del percorso. Non riconoscevo immediatamente questo disco perché per me non segna un punto rispetto a un altro”. Anche un piccolo episodio come questo la dice lunga sull’idea di ricerca, sull’idea di musica creativa, senza per questo togliere il valore che un disco assume nel momento in cui fissa uno - anche se uno qualsiasi - dei punti del percorso.

“Per me tutto è legato e tutto è una questione di studio. Quando riascolto una mia registrazione tutto ciò a cui riesco a pensare è ‘bene, cosa mi aspetta adesso?’. Non mi sono mai immaginato a completare qualcosa: la mia ricerca consiste nel cercare di apprendere oggi ciò che forse sarò in grado di applicare un domani. È così per i dischi ed è così per i tour. Il modo di suonare cambia da un punto all’altro del percorso pur rimanendo in forte continuità. Ogni occasione che ho di suonare è un’occasione per scoprire qualcosa che prima non c’era, sviluppare una nuova idea e passare avanti”.

E difficilmente questo discorso potrebbe essere più evidente di quanto non lo sia nel disco della Mutable. Solo 3 ha qualcosa di misterioso, almeno per chi ascolta. Si ha la percezione di essere investiti dal processo creativo di Mitchell, prima di entrare inconsapevolmente in comunanza con una musica che ipnoticamente trascina in un universo sconfinato, che si apre grazie alle frasi centripete dei sassofoni, grazie a un sound che appare in tutta la sua unicità, venga esso da un’ancia o da quella funambolica invenzione che è la percussion cage, un fitto assembramento di un’infinità di particelle percuotibili dall’infinita potenzialità timbrica.

Ma il mistero si scioglie proprio grazie alle parole di Roscoe Mitchell, ci parla di come nascono le sue frasi, di come nascono i suoi suoni, di come convivono composizione e improvvisazione, per cui la prima è al servizio della seconda, respingendo, una volta ancora, ogni idea di staticità alla base del processo creativo.

“La pratica in solo è un momento di fondamentale importanza perché consente di diventare un buon improvvisatore. Ovviamente occorre saper suonare sia da soli che all’interno di un gruppo, ma per essere un buon improvvisatore all’interno di un gruppo è indispensabile essere in grado di mantenere la propria espressività individuale. In caso contrario si verificano situazioni prive di interesse in cui un musicista ne segue un altro, e questo significa restare indietro, privarsi di un ruolo attivo e vitale. La pratica in solo ha una valore disciplinare perché insegna a costruire la propria concentrazione e a sviluppare le proprie idee, di modo che esse possano essere impiegate poi anche in un contesto di improvvisazione collettiva”.

Ed ecco illuminata l’origine, il senso, lo spirito di quel monstruum che è la percussion cage, che in Italia è sempre apparsa - durante i concerti dell’Art Ensemble of Chicago - smembrata, ridimensionata, ridotta ai minimi termini, quando invece nella sua magnifica totalità appare come una reale gabbia fisica e concettuale che imprigiona il corpo in un groviglio di metalli per liberare ed espandere le possibilità che la mente può inseguire nella ricerca improvvisativa.

L’idea della percussion cage, mezzo d’improvvisazione solitaria, non può non rimandare a ‘The Maze’, composizione del 1978 per otto percussionisti che ha richiesto un anno di preparazione e ore e ore di accordatura degli strumenti per la sua registrazione, prodotta da Chuck Nessa; una cosmogonia - o una cosmogenesi? - popolata di elementi naturali scarnificati alla loro essenza materica, esile ma potente: purezza di suoni che si fanno voce, voci che si fanno coro in cui tutto è compiuto.

“Ho iniziato a lavorare all’idea della percusion cage negli anni ’60, da allora frequento i robivecchi in cerca di suoni stimolanti, materiali risonanti, campanelli e così via. Come ‘The Maze’ nasce dall’ambiente che in quegli anni si era sviluppato a Chicago, in cui molti musicisti sperimentavano le possibilità di sviluppare l’uso delle percussioni in un maniera melodica, spesso costruendo il proprio personale set di percussioni, così ad esempio Henry Threadgill sviluppò uno strumento basato esclusivamente su coprimozzi di automobili e Anthony Braxton sperimentava con i bidoni della spazzatura. Quella composizione ha rappresentato una sfida importante, perché si trattava di far coesistere tutte queste differenti espressioni e modalità di ricerca. Mi sarebbe piaciuto fare molto di più su queste basi”.

Ridotta a livello individuale, un intero disco di percussion cage - com’è The Percussion Cage and Music on the Go contenuto in Solo 3 - si rivela paradossalmente una delle esperienze uditive più esaltanti, grazie all’inesauribile inventiva di un musicista il cui studio approfondito delle possibilità improvvisative impedisce qualsiasi scadimento nella routine.

“La percussion cage aiuta a individuare nuovi suoni e nuove espressioni musicali: l’idea di suonare una nota e avere come suono successivo magari una campana o un gong. Sono sempre stato affascinato dall’esplorazione di tutto quanto si estende al di là della serie di dodici note, così come all’interno della serie di dodici note mi trovo costantemente impegnato nella ricerca di modi per renderle irriconoscibili, mischiando le note con espressioni multifoniche o altre invenzioni timbriche che non ci si aspetterebbe da me. Ciò che ho imparato sulla natura del musicista è che si tende sempre ad una soluzione. Ebbene, ciò che mi interessa non ha nulla che vedere con la ricerca di una soluzione. In genere nella serie delle dodici note puoi farla franca forse se ne impieghi due, ma quando cominci ad usare tre note per volta la gente non capisce più cosa sta accadendo”.

E ci si avvia così all’epifania del cuore della ricerca musicale di Roscoe Mitchell: “C’è una certa dose d’istinto nella pratica della percussion cage. Quanto meno il punto di partenza è rappresentato da un moto istintivo personale che lascia poi il posto ad una pratica rigorosa per sperimentare i modi di raggruppare i suoni. Recentemente ho calibrato le posizioni per cui se cerco un suono in una determinata posizione ho almeno tre diverse possibilità di raccordo per proseguire nella stratificazione della musica: suddividere i suoni per famiglie, creare alternanze e gerarchie, ci sono molte possibilità da esplorare”.

Come fu per Galileo, la ricerca di Mitchell passa attraverso una minuziosa meccanica ossessiva ricognizione delle infinite possibilità di una delle pratiche più libere e creative cui l’uomo può dedicarsi: l’improvvisazione musicale.

Una ricerca paradossale che tenta di domare con minuti cavilli l’ardente ferocia di una fiera: è la ricerca del super-musician, come lo definisce Mitchell.

“Il mio interesse principale sta nell’esplorazione delle possibilità che mi vengono offerte: io vedo la musica come una scienza. Ho sviluppato modalità differenti per questa esplorazione a seconda dell’ambito specifico di ricerca. Ad esempio, molto tempo fa avevo un sax soprano ricurvo che mi ha dato la possibilità di sviluppare un sistema assolutamente personale per quanto riguarda la diteggiatura, soprattutto nella sperimentazione coi quarti di tono e con la multifonia. Ho passato un’infinità di tempo ad annotare tutte le differenti diteggiature possibili, per poi raggruppare i suoni in categorie, e passare infine alla composizione di brani che usavano esclusivamente questi suoni senza mai ricorrere a vere e proprie note, poi di brani in cui mescolavo suoni e note. Per l’improvvisatore è di fondamentale importanza sviluppare ed allenare il proprio linguaggio personale in modo tale da poterlo parlare chiaramente qualsiasi cosa accada, in qualsiasi contesto ci si trovi. Ma sia ben chiaro sto ancora imparando: non ho ancora finito!”.

Foto di Emiliano Neri (B/N) e Claudio Casanova (colori)

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