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Garrison Fewell: diario afghano

Garrison Fewell: diario afghano

di Corrispondenti esteri

Nel decennio tra il 1960 e il 1970 artisti e musicisti dalle più diverse estrazioni hanno lavorato insieme per creare maggiore consapevolezza e sensibilità a proposito delle disparità razziali ed economiche che affliggevano la società Americana. Cominciai a suonare la chitarra nel 1963 e iniziai ad esibirmi sul serio verso il 1967, proprio quando l'attivismo sociale e la contro-cultura avevano cominciato a permeare la vita quotidiana di noi Americani. La chitarra mi diede modo di esprimermi e di entrare in contatto con quel movimento sempre più diffuso che sfidava il conservatorismo Americano.

La cultura popolare e la musica di quei giorni erano pervase da un'unità spirituale che oggi è scomparsa, perché allora sapevamo tutti che le cose non potevano restare così come erano. Le forze del cambiamento erano evidenti in ogni aspetto della vita quotidiana. Martin Luther King e John F. Kennedy si batterono e morirono per i diritti umani mentre i musicisti lavoravano per attuare quella benefica trasformazione attraverso la musica, l'arte e la cultura alternativa. Il brano di John Coltrane "Alabama" del 1963 era una decisa presa di posizione contro il razzismo e contro l'attentato dinamitardo che uccise quattro ragazze di colore in una chiesa a Birmingham. Crosby, Stills e Young composero la canzone "Ohio" che conteneva la strofa "quattro morti in Ohio," chiaro riferimento al massacro alla Kent University del Maggio del 1970.

Il 1970 è stato un anno intenso: la guerra in Vietnam, lungi dal terminare; in Aprile, il presidente Nixon diede inizio alla campagna di bombardamenti che fecero da prologo all'invasione della Cambogia, un atto che infiammò la protesta studentesca sia negli Stati Uniti che nel resto del mondo. Le dimostrazioni studentesche contro la guerra portarono allo scontro tra gli studenti e il governo Americano. E uno degli episodi più noti fu appunto il massacro alla Kent University, nel quale la Guardia Nazionale dell'Ohio uccise quattro studenti e ne ferì nove.

La mia opposizione alla guerra del Vietnam si concretizzava nello scrivere e suonare musica contro la guerra, esibendomi nei locali, nelle chiese e nei "Moratorium," che erano in pratica dei concerti di musica folk, rock e blues organizzati per attirare l'attenzione sulla natura distruttiva della guerra. E nel Maggio del 1971, con l'intensificarsi del conflitto in Vietnam, partecipai alla marcia di protesta su Washington. Forti della non-violenza predicata dal Mahatma Ghandi, eravamo determinati a fermare la macchina da guerra del governo, anche se soltanto per un giorno, bloccando di fatto il traffico della capitale.

In quell'occasione ben 13.000 dimostranti pacifisti furono incarcerati, il più grande arresto di massa nella storia degli Stati Uniti. Ci furono così tanti arrestati che il governo dovette utilizzare un grande campo da football circondato da filo spinato e persino un'arena sportiva (il Coliseum) per trattenere tutti quei "prigionieri politici". Io fui portato in prigione e dormii in una delle tende allestite nel cortile, e il giorno dopo mi trasferirono al Coliseum: lì unità della Guardia Nazionale presidiavano gli accessi, in quella che era una palese dimostrazione di forza. Dopo alcuni giorni la situazione si fece tesa sia per la mancanza di cibo sia per il collasso delle condizioni igieniche. La Croce Rossa gettava panini ai prigionieri dagli spalti dell'arena e il solo modo per uscire era pagare una cauzione di 20 dollari. In pochi possedevamo quella somma, e soprattutto non volevamo cedere così presto al ricatto del governo, ma un amico aveva dei conoscenti a Washington che ci pagarono la cauzione, così ci rilasciarono alla fine della settimana. Dieci anni dopo la Corte Suprema dichiarò quell'arresto illegale e, tra le altre cose, il governo fu costretto a risarcire quei 20 dollari ad ogni arrestato.

Alla fine la pace vinse.

Sono sempre stato assolutamente contrario alla guerra e ho sempre creduto fermamente nella musica come linguaggio universale—nel suo potere taumaturgico che trascende odio e violenza.

Scoraggiato dalla società Americana, nel Gennaio del 1972 decisi di partire per un giro del mondo musicale e spirituale. Armato soltanto della mia chitarra acustica, di uno zaino in spalla e del romanzo di Hesse "Viaggio verso l'Est," volai in Israele per incontrare un amico che suonava la chitarra e l'armonica. In cambio di vitto e alloggio, chiunque può lavorare in un kibbutz, una specie di comune dove si coltivano i campi. Noi andammo nel Kibbutz Ha'on, ai piedi delle alture del Golan.

Eravamo hippy navigati, e ben ci adattammo a quella vita in comune, che ci dava anche l'opportunità di esibirci e di formarci un repertorio di brani. Ma anche lì aleggiava la guerra. Le alture del Golan erano state teatro di una feroce battaglia tra Siria e Israele nel 1967, e le cicatrici erano ancora ben visibili. Ogni mattina alle quattro e mezza i soldati Israeliani ci svegliavano per andare al lavoro picchiettandoci il piede con il loro Uzi. C'erano trincee scavate tra le case e i campi, pronte in caso di un improvviso conflitto, e spesso vedevamo aerei da guerra inseguirsi sopra le nostre teste. Per quanto gli Israeliani fossero amichevoli e ospitali, quello non era certo il posto adatto per chi cercasse la pace.

Lasciammo Israele alla volta di Istanbul e il suo "Pudding Shop," punto di riferimento e di partenza per tutti i viaggiatori diretti all'est. Fondato nel 1957, il locale era frequentato negli anni Settanta da moltissimi viaggiatori, che lo utilizzavano sia come punto di incontro sia come fermo posta. Tenevano un grande registro nel quale potevi lasciare il tuo nome, quello dell'albergo e il tuo itinerario, e trovare dei compagni di viaggio diretti negli stessi luoghi.

Partendo da Istanbul e dirigendoci ad est via terra, attraversammo la Turchia servendoci di una combinazione di treni, autobus, pulmini presi a nolo: eravamo una comitiva di Occidentali alla volta dell'India. Ovunque andassimo, la musica era un modo per entrare in contatto con la gente e per esplorare nuove culture. Come nei tempi antichi, musicisti come trovatori, intrattenitori e cantastorie, esibendoci sui treni, alle stazioni degli autobus, nelle coffee house Turche, nelle piazze dei villaggi e nei ristoranti.

Non era facile viaggiare in Turchia. Niente era organizzato a priori e ci vollero settimane per attraversare il paese. Una notte, durante una tre giorni di treno verso Erzurum, rischiammo di finire in galera, o persino peggio. Stavamo suonando nel nostro piccolo scompartimento di terza classe, e nessuno parlava Inglese: c'era un gruppo di loschi figuri che ci importunava, così decidemmo di smettere di suonare e provammo a dormire. Ma ogni volta che chiudevamo la porta dello scompartimento, la piccola folla che si era radunata per ascoltarci la riapriva. Così la bloccammo con delle corde, e questo mandò su tutte le furie i Turchi che non volevano che lo spettacolo finisse. Allora infilarono un lungo coltello attraverso una fessura tra la porta e il montante per tagliare la corda, e quando stavano per riuscirci il mio amico, nel tentare di difenderci dalla piccola folla radunata in corridoio, ruppe accidentalmente il finestrino con un pugno.

La polizia Turca salì sul treno alla stazione successiva, ci trascinò fuori e ci gettò per terra, in piena notte. Cominciarono a prendermi a pugni nella schiena finché non riuscirono a confiscarmi quel poco denaro che avevo in tasca. A quel punto il trambusto cessò e nella notte silenziosa ci sedemmo sul terreno ghiacciato: la folla si era dileguata immediatamente all'arrivo della polizia. Ci incolparono del finestrino rotto e ci imposero di ripagare il danno, anche se la colpa era stata della piccola folla che aveva perso il controllo. Poco dopo la polizia tornò e con il massimo della cordialità mi compilarono una regolare ricevuta per il vetro rotto, includendo anche il denaro che mi avevano sottratto in precedenza.

Proseguimmo lentamente il viaggio attraverso la Turchia e giungemmo in Iran, e sul cammino si univano a noi altri viaggiatori stranieri, così che la comitiva cresceva: musicisti, scrittori, poeti, persone in cerca di spiritualità, girovaghi. Dalla capitale Teheran ci spostammo a est fino a Meshed, la capitale dei turchesi nonché città santa, che ospitava in quei giorni un grande pellegrinaggio alla moschea di un Santo Islamico. Arrivando alla stazione, un gruppo di volontari Iraniani ci raccomandò di non andare alla moschea, dove dei ferventi credenti musulmani si stavano flagellando con catene mentre marciavano in circolo cantando intorno alla moschea stessa. Tutti gli alberghi erano pieni di pellegrini, così ci indirizzarono ad una scuola pubblica dove potemmo dormire, dovendola però lasciare alle 7 del mattino successivo prima dell'inizio delle lezioni.

Gli Iraniani erano ospiti cortesi e ci invitavano nelle loro case a bere il tè, a suonare, a condividere le nostre storie, mentre tentavano di venderci turchesi nei loro negozi... e bere altro tè, e comprare altri turchesi. Quella Iraniana era una società molto sofisticata che offriva educazione di alto livello e opportunità di lavoro per le donne, una cosa che semplicemente non esisteva in altri paesi Islamici. Gli Iraniani sono fieri della loro cultura Persiana (non Araba), e la loro musica meravigliosa comprende stili sia vocali sia strumentali che sono una parte importante delle origini della world music. Ora come allora, gli Iraniani desiderano condividere la loro cultura con il mondo, continuando in parallelo a svilupparsi come una società moderna: esattamente l'opposto della mentalità retrograda dei fondamentalisti religiosi Iraniani, che presero il potere di lì a poco, con la rivoluzione del 1979 e che ancora oggi governano la nazione. Gli Iraniani non sono i terroristi sanguinari stereotipati così spesso da personaggi come Dick Cheney o George W. Bush.

Il viaggio da Meshed verso l'Afghanistan si rivelò abbastanza difficoltoso a causa della mancanza di trasporti pubblici. Alla fine affittammo un pulmino per arrivare al confine tra Iran e Afghanistan, una terra di nessuno nel bel mezzo del deserto. Poiché arrivammo poco prima di mezzanotte, le guardie Afghane ci accolsero coi mitra spianati informandoci che il confine era chiuso, ma che potevamo dormire in uno stanzone sporco e senza elettricità. Anche nelle città raggiunte dalle linee elettriche, l'energia era di solito disponibile solo per alcune ore al giorno. Le lanterne a gas erano l'unica fonte affidabile di luce.

Eravamo un gruppo ben assortito di viaggiatori e le guardie tentavano di comunicare in un misto di Inglese e Francese molto stentati: ci chiedevano "Avete hashish con voi" e noi rispondevamo alquanto nervosamente "No, non abbiamo alcun tipo di droga!" E loro ribattevano, in quello che sembrava una specie di scenetta studiata, "Volete comprarne un po'?" Saltò fuori che le guardie di confine fuori servizio arrotondavano lo stipendio vendendo "prodotti" Afghani ai turisti: e dato che allora la maggior parte dei viaggiatori erano hippy che sognavano un paradiso ben preciso, le guardie facevano ottimi affari.

Ci convinsero a comprare un po' di roba, così restammo alzati tutta la notte a suonare con le chitarre, l'armonica, la tabla, e cantando. Ci eravamo appena addormentati sul pavimento in terra battuta che fummo svegliati improvvisamente, all'alba, da quelle stesse guardie, che ci confiscarono l'hashish avanzato che ci avevano venduto la notte prima poiché era illegale importarlo in Afghanistan. Dagli Afghani imparai i molti significati della parola "baksheesh" (che fa rima con hashish), un termine medio-orientale che indica un regalo, o il restituire un favore o anche una mazzetta. Anche se fumare hashish era ufficialmente illegale, era comune in Afghanistan vedere gente fumarla nelle case da tè e nei ristoranti. Quando chiesi come ciò fosse possibile, mi risposero semplicemente "baksheesh". In Afghanistan l'abbondanza di papaveri e di coltivazioni di marijuana faceva sì che il "baksheesh" contribuisse sia alle economie locali sia a quella nazionale, fino ai livelli più alti di governo. Questo radicato sistema di corruzione e di bustarelle è oggi una delle maggiori lamentele dell'amministrazione Obama verso il presidente Afghano Hamid Karzai.

La mia prima tappa in Afghanistan fu Herat, un'antica città costruita con mattoni di fango secco fondata nel sesto secolo avanti Cristo che si trova nella parte occidentale del Paese, vicino all'Iran. Vissi lì per diversi mesi con molti altri musicisti e scrittori in un piccolo hotel al margine della città vecchia, Shahr-e-Kuhna, vicino alla cittadella di Qal'a-ye Ikhtiyar al-Din, costruita da Alessandro Magno. Imparai a parlare in Dari (un dialetto simile al Persiano) e feci amicizia con molti proprietari di negozi e ristoranti. Consigliavo ai turisti i ristoranti e i negozi dei miei amici, e questi compensavano i miei sforzi con il "baksheesh" sottoforma di cibo e, talvolta, di capi di abbigliamento Afghani—le tuniche lunghe e svolazzanti e i pantaloni rigonfi.

La vita quotidiana a Herat non era cambiata molto dal Medioevo ad allora. La mia stanza aveva un pavimento in terra battuta, non aveva il riscaldamento e l'elettricità c'era solo per qualche ora di notte, e andava e veniva abbastanza casualmente. Farsi una doccia era un evento raro, che implicava il pagare un ragazzo che salisse sul tetto portando dei secchi d'acqua, riempisse la piccola cisterna e accendesse il fuoco sotto di questa per scaldare l'acqua. Quando fosse stata calda a sufficienza, andavo in una piccola stanza sotto la cisterna, tiravo una corda e avevo la mia doccia. C'era un'atmosfera festosa ad Herat, rovinata solo dai numerosi senzatetto e accattoni che vivevano per strada cercando di muoverti a compassione. La vita in strada era molto dura, e ogni mattina un carretto di legno trainato da un piccolo cavallo raccoglieva quelli che erano morti di fame, malattia o per il rigore della notte. Era una scena molto cruda e per me era difficile conciliarla con il resto del modo di vivere Afghano che sembrava, almeno da fuori, molto positivo. Fu però una lezione importante: vivi pienamente il presente e non nasconderti dalla morte, come tendiamo a fare noi Occidentali, ma considerala parte integrante del ciclo della vita.

La sera suonavo la chitarra e ascoltavo musica Afghana nelle case del tè, ed era lì che avvenivano gli scambi musicali più profondi. La musica di Herat era fortemente influenzata dalla musica classica Persiana del Diciasettesimo secolo. Questa ha dei modi precisi e rigorosi, chiamati dastgahs, che per ogni brano indicano l'orientamento melodico fondamentale da tenere all'inizio, seguito poi dall'improvvisazione. I primi anni Settanta hanno dato molto alla musica Afghana, essendo stati un periodo di pace e di prosperità della cultura. Alla fine di quello stesso decennio, l'invasione Sovietica avrebbe reso i proiettili ben più diffusi delle note; e quando i Talebani presero il potere, la musica che non era direttamente strumentale al loro fondamentalismo religioso fu prontamente soppressa.La casa del tè è una delle istituzioni culturali della vita quotidiana in Afghanistan. Alla casa del tè di Jora, a Herat, i musicisti si esibivano spesso per gli uomini Afghani (le donne non frequentavano le case del tè) che sedevano sul pavimento di terra alla loro maniera tradizionale, accucciati coi piedi ben piantati al suolo, le gambe piegate sotto il corpo e delle camicie ampie come tuniche a coprire i piedi, ondeggiando avanti e indietro al ritmo della musica. A seconda di chi suonava, la musica poteva anche andare avanti tutta la notte. Il Tempo come lo concepiamo noi Occidentali non esisteva in Afghanistan dove, se si esclude il ritmo della tabla, il tempo si muoveva molto più lentamente. Un uomo con lo sguardo perso in lontananza sedeva in un angolo della stanza suonando una piccola tabla e bevendo da una teiera che teneva a fianco a sé. Una sera ebbi un attacco di dissenteria e quando questi si accorse del mio stato mi offrì una tazza del suo tè. Era un miscuglio medicinale di tè nero Russo e oppio—una cura potente ma appropriata per il mio malanno. Le proprietà allucinogene dell'oppio sembravano spiegare il suo ritmo ipnotico e alieno. Forse allo stesso modo l'eroina aveva ispirato molte sessioni notturne di bebop degli anni Quaranta e Cinquanta, e probabilmente la materia prima veniva proprio dall'Afghanistan.

Un giorno arrivò al Jora un gruppo di persone note come Malang. I Malang sono l'equivalente Afghano degli sciamani: santoni, mistici, guaritori e poeti che migrano da un posto all'altro, intrattenendo i clienti delle case del tè con storie e racconti di mistici poteri spirituali, suonando e parlando con uno strano linguaggio—una sorta di borbottio che secondo loro sarebbe la lingua di Allah e di altri santi. Vivono ai margini della società, e vengono in città solo per barattare merci e cibo, e se ne vanno via non appena hanno soddisfatto le loro necessità, senza concederti un bis. Vestono o in modo molto semplice o in una maniera molto elaborata, un'esotica combinazione di abiti, rattoppati con pezze prese da altri capi e di vestiti da donna, indossando collane di perle, bigiotteria e anche cappelli adornati con piume e altri oggetti. I loro capelli lunghi e le barbe talvolta tinte li rendono immediatamente riconoscibili dal resto degli Afghani. Sembrano l'anima gemella di Sun Ra e della sua Arkestra ma senza il tema dello Spazio. I miei capelli lunghi e la barba mi permisero di entrare subito in sintonia con i Malang, dei quali mi affascinava il comportamento decisamente eccentrico. Una volta un Malang venne al Jora stringendo a tutti le mani e dicendo "arrivederci." Pensavo si trattasse di un amichevole gesto di saluto prima di andarsene, ma in realtà si sedette e passò il resto della serata con noi.

Non potrò mai dimenticare l'esperienza che ho provato ascoltando e suonando insieme ai Malang. Fumano una miscela di erbe mescolate con hashish, e riescono ad entrare in una specie di trance mentre cantano, suonano o recitano poesie. Ti offrono prontamente consigli fuori dal mondo e riflessioni su problemi comuni e sofferenze. Pur parlando raramente ma in modo semplice e diretto, posseggono l'abilità di guidare gli altri per mezzo di una contemplazione molto profonda... e questo è un altro punto in comune con il modo di parlare e di recitare di Sun Ra.

Una sera il Jora era pieno di clienti e i Malang erano in gran forma e ci intrattenevano con risa e discorsi, quando un gruppo di musicisti si riunì per accompagnare la serata. Droni accompagnavano canti e poesie tratti da antichi testi Persiani, mescolati con il denso fumo di tabacco aromatico che saliva in spirali e volute verso il soffitto come se fosse un etereo fantasma. I pavimenti erano coperti da un mosaico casuale di tappeti a forme geometriche, terrei colori e motivi che si mescolavano in ogni angolo. Mi capitava di restare a fissare questi "dipinti," ammaliato dal motivo e dalle inevitabili rotture della simmetria. La musica non si interrompeva quasi mai e i ritmi erano così ipnotici che divenne impossibile rendersi conto dello scorrere del tempo. Suonavano molti strumenti Afghani tradizionali, tra cui il dootar a due corde, con il suo piccolo manico con i tasti e la cassa fatta con una zucca, il rubab a quattro corde che pare un incrocio tra un liuto e un piccolo sitar, con una moltitudine di corde regolabili e il richak, che assomiglia a un piccolo violino con un corpo da banjo che si tiene in piedi ed è suonato con un archetto di legno, e che produce un suono che sembra il richiamo di una sirena. Come capitava spesso, mi convinsero a suon di cibo e di tè a tirar fuori la chitarra e unirmi a loro per improvvisare su selvaggi groove modali in misure sciolte. Ho viaggiato molto, fino al Pakistan, al Kashmir e il confine settentrionale dove Afghanistan, India, Cina e Russia si incontrano. Ma credo che la musica Afghana raccolga i suoni più piacevoli ed appaganti di tutta la musica del Medio e del Lontano Oriente. Quando lasciai l'Afghanistan per l'ultima volta, mi portai due piccoli tappeti tribali (baluchi kilim) simili a quelli su cui ci sedevamo a suonare a Herat, pensando che mi aiutassero a restare in contatto con il mondo dell'immaginazione e della creatività.

Ora come allora non saprei descrivere quella musica, ma quello stato di trance e l'esperienza emotiva non le dimenticherò mai, e anche oggi mi sono d'aiuto quando mi dedico alla musica creativa e al free Jazz. Ci sono momenti nei quali le note che sto suonando scompaiono, e anche se vedo le dita che si muovono non saprei dire quali suoni vengano dalla mia chitarra e quali dagli altri strumenti. So che ciò capita anche ad altri musicisti e penso che sia il manifestarsi di una coscienza alterata dove "se" e "altri" non sono più entità ed ego separati, dove la musica emerge dallo spirito collettivo piuttosto che dalle personalità individuali. L'improvvisazione collettiva è una qualità comune sia al Jazz degli esordi sia alla musica di avanguardia, e trovo molte affinità in questo modo di suonare con musicisti come Albert Ayler, gli Art Ensemble, Bill Dixon, William Parker, Roy Campbell, Anthony Braxton, Derek Bailey, John Tchicai, Steve Lacy e Sun Ra. C'è anche una certa tensione che è un elemento cruciale dell'improvvisazione—non è soltanto "spirituale"—e la musica si nutre di quel momento dove l'ignoto è affrontato e svelato. Sto leggendo un libro del compositore Morton Feldman, "Give My Regards to Eighth Street," nel quale si trova una citazione dal suo saggio del 1965 "The Anxiety of Art." Feldman afferma, "Così come nella vita facciamo di tutto per evitare l'ansia, così nell'arte dobbiamo perseguirla." Questo è solo uno degli approcci che seguo quando registro e mi esibisco con il mio ampio ensemble, la "Variable Density Sound Orchestra".

Per i miei amici Afghani, la chitarra era uno strumento alquanto strano. Mi chiedevano di scambiarci gli strumenti così che potessero provare a capirla. Il modo che avevano di porsi nei confronti della chitarra era buffo ma ragionevole: suonavano note precise sulle due corde superiori, mentre sulle quattro inferiori strimpellavano un drone come se fosse un rubab; e dato che non gli piaceva il modo nel quale la chitarra era accordata, mi chiedevano di poterlo cambiare per ottenere un suono più gradevole. E mi piaceva il suono che ne derivava, era molto adatto alla natura della loro musica. Talvolta uso lo stesso approccio oggi, quando improvviso, scordando le corde inferiori durante un brano, o suonando con l'arco del violino mentre cambio l'intonazione della corda, per produrre melodie micro-tonali. In compenso il mio modo di suonare il rubab; provocava così tante risate che anche il suonatore di tabla lasciava da parte il suo tè all'oppio e si sbellicava. Ma ciò non mi dissuase dallo sperimentare. Anni dopo registrai parecchie composizioni di Jazz per fissare questa esperienza. Il brano "Journey to the East" (dal mio CD del 1993 Are You Afraid of the Dark? con Fred Hersch, Cecil McBee e Matt Wilson) ricordava una carovana di cammelli; e voglio anche citare "Devil at the Salang Pass" e "The Lady of Khartoum," tratte dal CD The Lady of Khartoum, due improvvisazioni eseguite in duo con il chitarrista Eric Hofbauer per la Creative Nation Music.

Trascorsi parecchi mesi a Herat, e un giorno presi un autobus per Kabul via Kandahar; e l'autobus era così affollato che erano rimasti solo i posti di terza classe, così viaggiai sul tetto (cosa comunissima, laggiù) insieme a 20 Afghani, delle galline e una capra. L'autobus era più decorato di un carro di carnevale, dipinto con colori sgargianti e arabeschi dentro e fuori, con la radio che sparava musica pop Afghana a tutto volume.

Nel 1972 Kabul era una città meravigliosa, con i suoi edifici in stile coloniale in pietra e legno che fiancheggiavano ampi viali alberati. Affittai una camera che si affacciava su un giardino recintato pieno di alberi in fiore, dove c'era sempre qualcuno pronto a fare un falò per cucinare i pasti, bollire l'acqua e persino preparare una zuppa di gallina a partire da galline vive. Il mio piatto Afghano preferito era il Qabali (Kabuli) Palau, riso basmati cucinato in un grosso wok con grasso di montone, uvetta marinata e talvolta carote tagliate sottili. Poteva anche essere servito con agnello o pollo, ma divenni vegetariano dopo aver visto le mosche che ricoprivano la carne appesa ai ganci nelle macellerie del mercato. C'erano così tante mosche che per capire di che carne si trattasse la colpivano con un bastone così da far allontanare le mosche per un attimo. Un'altra consuetudine cui dovetti abituarmi fu il fatto che gli Afghani mangiano con le mani prendendo il cibo da un piatto comune, e bisogna assolutamente ricordarsi di usare la mano giusta, a meno di non volerli offendere davvero.

Trovai lavoro a Kabul come disc jockey al "Chinchilla Club". Il proprietario era il figlio di un ricco Afghano che aveva studiato a Londra, dove aveva comprato la più incredibile collezione di dischi che avessi mai visto. Tra i classici del Rock e del Blues, ricordo che c'era anche un disco di Coltrane, "A Love Supreme," ma il proprietario non me lo lasciava suonare, insistendo sul fatto che non fosse ballabile. Le mie vicine, due ragazze Francesi, sapevano ballare molto bene, così le invitai al club. Dato che le donne Afghane non potevano prendere parte ad attività propriamente Occidentali quali ballare in pubblico, gli uomini Afghani frequentavano il club per poter ammirare la bravura delle ragazze. Nessuno si lamentò del brano di Coltrane suonato tra i Doors, gli Who, Jimi Hendrix, B.B. King e i Rolling Stones. Il "Chinchilla Club" era un locale popolare, l'unico dove vidi consumare alcolici, che sono vietati dal Corano e illegali in Afghanistan: ma il baksheesh rendeva possibile anche l'impossibile.

In questa storia c'è anche una coincidenza singolare. Vissi a Kabul dalla metà del 1972 al 1973, proprio il periodo in cui il musicista Hartmut Geerken cominciò a lavorare per il Goethe Institute di Kabul. In seguito invitò il sassofonista John Tchicai a suonare con lui, e registrarono due concerti che sono stati recentemente pubblicati dalla Qbico con il titolo The Kabul-Teheran Tapes. Esattamente trent'anni più tardi, incontrai John Tchicai a Boston, e cominciò un sodalizio che ci portò ad una serie di registrazioni ed esibizioni. Durante un concerto in duo che abbiamo registrato di recente all'Etna Jazz Festival, in Sicilia, ho suonato la chitarra con l'archetto di un violino, mentre John si alternava al canto e al flauto. I sovratoni che ne derivarono sono la cosa più vicina ai suoni di quelle sessioni al Jora che mi sia mai capitato di suonare ed ascoltare. Suono anche le percussioni, in particolare campane Afghane e dei particolari gioielli delle donne nomadi il cui suono è davvero unico.

A Kabul ebbi l'opportunità di assistere a concerti tenuti da bravissimi musicisti classici Afghani, il cui stile è molto simile a quello dell'India Settentrionale, cioè basato su raga (modi melodici) e tala (cicli metrici). Usano diversi modelli di tabla e un piccolo sitar per l'effetto drone, ma la musica pone più enfasi sul ritmo piuttosto che sullo sviluppo melodico. Spesso utilizzano testi e poesie Persiane, inframezzate da virtuose improvvisazioni strumentali con il rubab, parente stretto del sarod Indiano (molto utilizzato ad esempio da Ali Akbar Khan). Alcuni tra questi musicisti Afghani erano discendenti dei musicisti Indiani portati a corte a Kabul a fine Ottocento. E sebbene siano meno noti dei loro corrispettivi Indiani, quali appunto Ali Akbar Khan, Bismallah Khan o Ravi Shankar, sono comunque altrettanto validi, e la loro musica è pervasa dalla medesima, forte ispirazione. I concerti di Kabul non erano jam session come a Herat: erano occasioni nelle quali gruppi di artisti acclamati dimostravano a quali livelli di eccellenza la musica potesse arrivare. Sfortunatamente in Occidente la musica Afghana non è molto nota, ma sono riuscito comunque a trovare delle registrazioni eccellenti sia in LP che su CD, e devo ringraziare l'etichetta Francese Ocora.

Da Kabul, mi spostai nella regione dei laghi di Band-i-Amir, sopra il passo di Salang, che attraversa la catena montuosa dell'Hindu Kush a quota 3400 metri. Le vette di quella catena sono notevolmente più alte. Salendo per quel cammino tortuoso vedevi solo montagne, sia sopra che sotto di te. Il picco del Salang è un posto magico e misterioso immerso nelle nuvole. La strada che vi sale tortuosa è molto pericolosa, poiché viene erosa dalla pioggia che costringe anche a gettare continuamente nuovi ponti, fatti a mano, sopra gli innumerevoli torrenti che si formano di volta in volta. Un proverbio Afghano recita, "Ci sono solo ottimi guidatori in Afghanistan—quelli meno bravi giacciono in fondo ai burroni!"

In un'altra occasione visitai la Valle di Bamiyan e i suoi enormi Buddha scolpiti nella roccia; quelli demoliti dai Talebani con la dinamite nel 2001. Lì, lungo la Via della Seta, si trovava una prospera comunità Buddhista, specialmente attiva tra il Secondo e il Nono secolo. Quei Buddha meravigliosi, scolpiti all'inizio del Quinto secolo, erano originariamente colorati. Il mio primo incontro con il Buddhismo avvenne proprio lì, suonando la chitarra ai piedi di quei Buddha, statuari nella loro serena eleganza. Vi era anche una scala scolpita nella nuda roccia, grazie alla quale potei salire per raggiungere la cima della testa del Buddha più grande.

Fu lì, in un tempio scavato nel fianco della montagna vicino all'orecchio del Buddha, che ebbi una chiara visione della mia vita passata e mi sentii come a casa in quella comunità di Buddhisti che avevano lasciato il loro spirito nei dipinti del tempio. In quel momento, mentre suonavo la mia chitarra nel Bamiyan, presi la decisione di viaggiare per il mondo suonando e tentando di portare a tutti quel senso di positività che quella valle e quegli antichi Buddha mi trasmettevano. Ma fu solo dopo alcuni anni che capii cosa ciò significasse veramente—studiavo alla Berklee e stavo imparando a suonare il Jazz quando incontrai Herbie Hancock e Wayne Shorter e cominciai a praticare il Buddismo. Ora mi guardo indietro e apprezzo appieno quel periodo in cui sapevo poco di Jazz, e improvvisare era una cosa istintiva, che prescindeva dalla conoscenza, un modo di comunicare momenti di vita vissuta con gli altri, sia di questo mondo sia oltre. Quando oggi improvviso, faccio di tutto per suonare con quello stesso spirito semplice e aperto, non vincolato dal fatto di aver studiato musica, di essere un docente della Berklee da più di 30 anni, di aver scritto quattro libri sull'improvvisazione. In quel momento non importa chi sono, chi penso di essere, che cosa gli altri pensano che io sia: quando prendo la chitarra, le bacchette per i miei tamburi Africani, l'archetto del violino, una scatola di metallo, i gioielli Afghani, le campane, o qualunque oggetto collezionato durante i miei viaggi.

Al giorno d'oggi la situazione è molto diversa dal 1972-73, tuttavia si possono trovare similitudini tra le guerre in Afghanistan e Iraq e quella del Vietnam. Quel che talvolta mi sorprende è l'estraneità dei giovani d'oggi ai movimenti per la pace che si svilupparono negli anni Sessanta. Forse oggi non vediamo la morte e le distruzioni che avvengono costantemente in giro per il mondo, e viviamo come se non ci riguardassero a meno che o finché in questi conflitti non muore qualcuno che conosciamo. E tuttavia ci sono ancora molti musicisti che fanno rumore, un "rumore gioioso" come lo definirebbe Sun Ra, e che creano un'arte che incoraggia la pace e il rispetto per la dignità della vita.

Questa è la prima volta che scrivo della mia esperienza in Afghanistan e sono grato di avere l'opportunità di condividere le mie idee sulla musica, la politica e la cultura con i lettori di AllAboutJazz. Spero sinceramente di essere riuscito passarvi il messaggio che gli Iraniani, gli Afghani, o gli Iracheni, i Pachistani e le genti del Nord Africa sono persone culturalmente ricche e desiderose di vivere in pace, che però sono spesso ostaggio di governi o di gruppi di individui che usano la violenza invece del dialogo per cambiare la società.

Facciamo in modo che l'antico dialogo della musica conquisti il mondo, e riempia l'universo con un flusso di vibrazioni positive.

Traduzione di Stefano Commodaro

Visita il sito di Garrison Fewell.

Foto di Luciano Rossetti (la prima e la settima).

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