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Enten Eller - una postfazione

Il testo di Guido Festinese che recuperiamo per Déjà lu è stato concepito come postfazione in una preziosa pubblicazione dedicata al gruppo Enten Eller, dal titolo omonimo (clicca qui per leggerne una recensione) pubblicata nel 2010 da Edizioni Tipografia Gianotti. Pubblicazione ampiamente raccomandabile, da leggere e da guardare, in quanto affianca due racconti di Flavio Massarutto a tredici fotografie di Luca d'Agostino, per concludersi con le biografie dei membri del gruppo (Massimo Barbiero, Maurizio Brunod, Alberto Mandarini e Giovanni Maier) e con una discografia completa.

Diceva il poeta T. S. Eliot che gli esseri umani non possono sopportare dosi troppo elevate di realtà. Aveva ragione, come spesso hanno ragione i poeti, capaci di condensare in quattro spiccioli di parole grumi pesanti di verità. Poi, si tratta di intendersi e di andare un po' più a fondo, e capirsi, su quella frase densa. Che è un invito a sostenere le erratiche ragioni di chi è colto da lampi di bellezza, e quella bellezza riesce a renderla, a acchiapparla per la coda della sua stessa ineffabile scaturigine. Su una pagina, in una torsione del pennello che libera la luce, in quattro crome che mettono in agitazione danzante le molecole dell'aria. Quattro crome che, per dirla con Frank Zappa, scolpiscono il tempo, che è la cornice del quadro e il foglio bianco del musicista, per poi tornare nell'etere assoluto che forse, chissà, conserva tutti i suoni e tutti assieme, mirabile archivio eufonico e cacofonico assieme delle possibilità che nessun megagiga di memoria sintetica potrà mai azzardarsi a contenere.

Noi umani, cultori assertivi di dosi esponenziali di realtà, ci siamo inventati trappole luciferine per imbrigliare luce e tempo, non molto tempo fa, storicamente parlando. Fotografia e fonofissazione (molto meglio di "registrazione": che contiene quel "res" latino che ingenera grandi equivoci tra "cosa vera" e molto relativa "immagine sonora" conservabile) sono cugini di primo grado di un secolo vicino che stantuffava vapore, esposizioni universali e (supposte) magnifiche sorti progressive. Poi, come è giusto che sia, e come Eliot ha sagacemente notato, l'arte tutta (e quindi musica, parola, arte visiva, danza, cinema...) ha smesso di essere umbratile ancella di una realtà da inglobare e restituire nel dettaglio fisiognomico, accettando l'altra sfida: quella degli esseri umani che "non possono sopportare dosi troppo elevate di realtà".

Che vuol dire esattamente il contrario di un estatico rapimento nelle gelide ed eburnee torri dell'arte ai margini della civitas dei produttori. E' la frizione, la contraddizione, lo sparigliamento di carte che rende vertigine e felice spaesamento l'oltranza dell'arte. E quindi della musica. E quindi, discendendo per li rami, quei musicisti (e fotografi, e registi, e scrittori, e pittori) che, non sopportando dosi troppo elevate di realtà (di banalità, di vaniloquio, di ripetizione coatta, di brusio da alveare, di urla mediatiche che amplificano un nulla deciso altrove, non il reale) combattono una battaglia quotidiana per rendere visibile l'invisibile, ascoltabile l'inaudito, tangibile ciò che le dita non credevano di toccare.

Questi sono tempi piuttosto amari per chi non si rassegna a incorporare intossicanti dosi di "realtà". Ma ci sono, queste figure, e vivono in mezzo a noi, e cavalcano un'ostinazione sorridente che non verrà mai a patti con le decisioni a tavolino prese da una scrivania all'altro capo del pianeta, e che stabiliscono cosa sia il caso di ascoltare, di vedere, di leggere. Lo fanno da decenni, ma il conto cronologico non è lo stesso della passione, dei fili grigi che spuntano tra i capelli, delle urgenze da ufficio stampa con il bollino "priorità".

Gli Enter Eller appartengono, chi più chi meno, a una generazione che, frettolosamente e sbrigativamente, qualcuno ha definito, in blocco, degli anni "di piombo". Erri De Luca, uno che non si è mai rassegnato a dosi massicce di realtà, nei suoi spettacoli e nei suoi libri preferisce definirla la generazione degli "anni di rame". Ovvero, in quel bagliore del metallo duttile, il rame, intuire la super-conduzione delle idee, l'apertura, la voglia del rischio e dell'azzardo, la fantasia figlia della pratica e dell'interazione, il confronto, lo stupore dell'inaudito che va coltivato e cercato con amore libero e metodico al tempo stesso. Lezione di un passato messo in archivio? Solo da chi preferisce abitare nel rassicurante, appiattito mondo dove ha vinto l'unica massiccia dose di realtà del "libero mercato" che tanto libero non sembra, nel carico di schiavitù che impone, nella pratica vera se non nell'alata formula che molto promette, e pochissimo mantiene, e solo per pochissimi.

Molto facile accusare di velleitarismo compiaciuto e narcisistico chi viene dallo scintillio del rame, e si ostina ad operare anche nell'alba livida del terzo millennio, accendendo bagliori di intelligenza e lucciole di creatività che continuano a condurre idee. Molto comodo, anche, per un mondo appiattito (come nella "Mela di Odessa" degli Area) sparare al bersaglio grosso di quel mondo di confine tra il jazz di ricerca e della libertà, le note che l'Occidente ha tautologicamente definito "classiche," l'ormai imponente, sedimentato carico di spunti e suggestioni dell'art rock finalmente "Storicizzato".

Enter Eller non è etichettabile, è un passo oltre. Viene "da prima," abita l'oggi, ha le antenne puntate verso domani. E solo un'era che ha schiacciato nella dittatura di un claustrofobico, infinito presente a una dimensione tutte le musiche possibili (salvo vendere poi oscena, imbellettata muffa ) può continuare a credere che si tratti di una sorta di appannato, debilitato sopravvivere a se stessi. Tant'è che, a leggerla sulla carta, la storia di Enter Eller (e di tutti i side - projects dei singoli musicisti che mettono in circolazione altra linfa inquieta) sembra una epitomica ricapitolazione di molto di quello che è stato ed è davvero importante "fare" con la musica.

L'ultimo corto circuito (in ordine di tempo e di mera cronologia) arriva ora, e, ancora una volta, storie di incontri fortuiti, o fortemente voluti, diventano paradigmi esemplari di quanto ancora si possa fare. Da un punto di vista musicale: ma è un'estetica che diventa sempre etica, ovvero "modo di comportarsi," interazione pulsante, che è una delle ragioni di fondo, costitutive del "jazz". L'ultimo corto circuito: Enter Eller con Javier Girotto, l'Argentino, e con le foto di Luca D'Agostino, e i racconti di Flavio Massarutto. Pochi scatti scelti, in questo testo (nel senso etimologico del termine: textum, tessitura di fili artistici diversi in unica trama) restituiscono l'intensità di un incontro, il grande vuoto dello spazio amplificato dalla processione ritmica delle capriate, e quella che Massimo Barbiero in un'intervista ha definito la "percezione dell'istante": altra ragione di fondo del jazz creativo, e della fotografia che non sia mera ancella degli "eccessi di realtà".

Una per tutte: quella in cui Javier Girotto, in dialogo con Giovanni Maier, sfodera quel mite, enigmatico mezzo suo sorriso abituale che lascia intuire l'intelligenza guizzante dell'uomo, rilanciata dalla passionale, sfocata vibrazione di un pugno chiuso. Da foto come questa Flavio Massarutto ha tratto i suoi racconti, restituendoci, per dirla con un altro grande, il segreto ineffabile di un mistero (l'arte: la musica e la fotografia) "che parla attraverso un mistero". C'è la storia criptata di Flavio e di tutto il suo metodico, smisurato amore per il fumetto in quel racconto dell'uomo - custode dell'auditorium che vive "immerso nelle storie che legge," e percepisce una sottile, rivelatoria affinità con i musicisti che "abitano un mondo altro". Un mondo dove la pulsazione regolare, ordinata, ragionieristica delle ore e dei minuti si sfarina nella dilatazione, nella contrazione, nella generazione di un tempo "altro". Cercare di coglierlo, con la luce e l'inchiostro, è ben più (e ben altro) che un tentativo.

Foto di Luca D'Agostino

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