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Emozionalmente efficace: intervista a Claudio Fasoli

Ho il terrore della monotonia in musica.
Claudio Fasoli è un musicista innamorato del proprio mestiere. Ha un rapporto diretto con la materia musicale e con i propri strumenti. Da molti anni sulla scena jazzastica non esclude nuove prospettive di sviluppo formale, anzi, se stimolato in maniera positiva reagisce con entusiasmo a istanze di cambiamento. Testimonianza di questa attitudine sono le sue più recenti incisioni: Avenir, album di suoi originali suonato con un nuovo quartetto, dove giocano ruoli decisivi chitarra elettrica e spunti elettronici; Duology, in duo con il contrabbassista Luca Garlaschelli, nel quale si respira aria di intimità e tradizione, grazie anche alla rivisitazione di standard. Difficile delineare l'interezza del suo pensiero e della sua figura in una sola conversazione: di seguito, però, proponiamo un profilo interessante.

All About Jazz: L'album Avenir ha rappresentato un momento di svolta e di cambiamento nel tuo percorso artistico?

Claudio Fasoli: Avenir effettivamente è in parte un'evoluzione, nel senso che nel precedente quartetto, l'Emerald Quartet, mi ero dedicato molto a un tipo di ricerca compositiva estremamente particolare e personalizzata, suscitando forti coinvolgimenti emozionali in chi ascoltava, grazie alla cifra intimistica di alcune composizioni. Era, ed è tuttora, un quartetto squisitamente acustico, con organico molto convenzionale, con pianoforte, contrabbasso e batteria al mio fianco. Dopo oltre un decennio in cui ho sperimentato gruppi caratterizzati dalla "sottrazione" di uno strumento - come in tutti i miei svariatissimi e infiniti trii - ho voluto individuare un carattere all'interno di un organico, in un certo senso, abusato e prevedibile sviluppando una serie di brani particolari e personalizzati. Ho avuto molta soddisfazione con questi musicisti straordinari, anche per via delle escursioni dinamiche durante le esecuzioni, che andavano dal pianissimo fino a momenti di grande intensità. Questo aspetto era ben riuscito e acquisito e molto percepito e vissuto da chi ascoltava.

AAJ: Cosa ti ha spinto a tentare una nuova via espressiva?

C.F.: Mi incuriosiva potenziare certi aspetti ritmici e coloristici. Quindi aspetti legati all'uso dell'elettronica. L'opportunità si è verificata durante un piccolo tour fatto nel Veneto in cui ho invitato a suonare con me, dopo molti anni che non ci vedevamo, un gruppo di musicisti con cui avevo già suonato negli anni Novanta, il chitarrista elettrico Michele Calgaro, il contrabbassista Lorenzo Calgaro e il batterista Gianni Bertoncini. Doveva essere un'occasione senza seguito, ma in realtà ha destato molto entusiasmo in noi e nel pubblico, così abbiamo deciso di rimanere insieme per un periodo di lavoro. Anche perché Gianni Bertoncini ha un talento particolare per la gestione dell'elettronica, e tutta la parte di suoni e rumori è stata affidata a lui. Naturalmente va gestita insieme, però è lui che mi sottopone sempre delle soluzioni imprevedibili che poi vanno ad arricchire il discorso di questo quartetto. L'intenzione e la realizzazione è molto originale.

AAJ: Quindi state continuando a suonare?

C.F.: Abbiamo già registrato un secondo lavoro, che uscirà tra un paio di mesi. Siamo in fase di mixaggio. Sono brani un po' di tutti noi, mentre in precedenza - per mia tradizione - ho sempre usato brani miei, ma in questo caso, dato l'interesse e l'apporto degli altri, abbiamo deciso di mettere brani di tutti.

AAJ: La musica che producete può essere definita "serena"?

C.F.: Non mi riconosco in questo aggettivo e non penso ad Avenir in questi termini. Anzi, penso che ci siano degli sviluppi di grande creatività, che ci siano anche momenti di alta drammaticità. Non definirei Avenir un album sereno, forse la definizione più pertinente per la nostra musica è "emozionalmente efficace," perché c'è un equilibrio tra alcuni punti tragici e altri più distesi, c'è un po' di tutto.

AAJ: Nel frattempo ti sei dedicato al progetto in duo con Luca Garlaschelli per l'album Duology. un'esperienza diametralmente opposta.

C.F.: La premessa è che io ritenevo assai enigmatico il progetto di un CD di solo contrabbasso e sax. Ho il terrore della monotonia in musica. Ma Luca alla fine mi ha convinto. Il problema si è posto nel momento di decidere i brani che avrebbero delineato il clima generale. In queste circostanza il problema principale è che si deve ricercare la massima varietà possibile per, ovviamente, evitare la noia. È chiaro che meno sono gli input sonori e più è facile cadere in questa trappola, e in un progetto come il duo questa possibilità la sentivamo concretamente. Quindi siamo stati estremamente severi sotto questo aspetto, perché un disco noioso è un disco inutile, superfluo e sprecato, perché non ha senso, comunica poco, rimane in un grigiore che non dà soddisfazione, né di ascolto né di condivisione.

AAJ: Qual è l'elemento indispensabile per la riuscita di un lavoro in coppia?

C.F.: Bisogna essere molto convinti di ciò che si sta facendo. È molto importante che ci si ponga in un atteggiamento ideale nel cercare uno sviluppo che sia vario, sia sul piano progettuale che sul piano della realizzazione, anche all'interno del singolo brano. Abbiamo riflettuto molto sull'architettura, come era giusto fare. Il telaio di un disco è fondamentale, dopodichè bisogna vagliare le possibilità di alternanza tra i due strumenti. Chiaramente il contrabbasso non ha le stesse possibilità che può avere un pianoforte o una chitarra. Il risultato però ci è piaciuto. Siamo riusciti a fare musica che ha la sua ragione di essere e che viene assai apprezzata nelle performance live.

AAJ: Nelle note di copertina Luca Garlaschelli definisce la musica di Duology come "essenziale e scarna". Sei dello stesso parere?

C.F.: Dipende dai punti di vista. Certamente si tratta di musica essenziale e scarna, anche perché prodotta da due strumenti monolineari. Sul piano emozionale la direi ricca di chiaroscuri, oppure piuttosto varia, tutto sommato, anche perché alterno le voci del soprano e del tenore. La scaletta dei brani mi sembra indovinata, anche lì c'è alternanza tra standard e un pacchetto di brani nostri concepiti proprio per questo tipo di progetto.

AAJ: C'è una splendida "Dear Old Stockholm," standard tra i più suonati. Che rapporto hai con la tradizione jazzistica?

C.F.: Forse era molto suonato tempo fa, oggi un po' meno. Certamente è molto conosciuto. La curiosità è che abbiamo mantenuto l'arrangiamento che Davis usò nel registrarlo nel 1955, su 'Round Midnight. Personalmente ho sempre avuto molta cautela nel suonare gli standard, perché se penso a come erano suonati da Dexter Gordon, John Coltrane, Sonny Rollins o da altri di allora, mi dico che questo patrimonio è meglio che rimanga nelle loro mani. Loro hanno inventato un linguaggio, lo hanno portato avanti e lo hanno definito. Ciò non toglie che mi piaccia suonare gli standard quando capita, sono stati per me materiale importante e lo sono tuttora anche se mi identifico molto di più in un repertorio di mie composizioni. Sia su disco che dal vivo gli standard non sono mai stati una parte prioritaria del mio modo di esprimermi: ho una larga scelta di brani miei, ho voglia sempre di suonarli dal vivo. Alcuni standard però non sono stati precedentemente molto suonati in duo, quindi questa dimensione così particolare ci ha spinto anche verso queste interpretazioni. Le abbiamo fatte con molta gioia.

AAJ: C'è una caratteristica che invidi del contrabbasso?

C.F.: Per un periodo ho suonato il contrabbasso, uno strumento che mi affascina da sempre. Il suo suono mi ha sempre sedotto. Ha delle possibilità espressive veramente importanti e paritetiche rispetto ad altri strumenti, anche se nei gruppi a volte viene messo un po' in ombra. Del resto succede che siano altri strumenti a catalizzare l'attenzione di chi è chiamato ad ascoltare. Ma sul livello espressivo, se messo in mano a grandi musicisti, può dare molto. Non ho invidie per lo strumento in sé, potrei averle - in senso positivo - per chi suona determinati strumenti.

AAJ: L'immagine di copertina di Duology è tua.

C.F.: Sì, perché da molti anni metto in copertina mie fotografie.

AAJ: Nella tue composizioni in che modo si relazionano immagini e musica?

C.F.: Questa è una domanda enigmatica. Perché non è così semplice spiegarlo. La prima relazione possibile è intuitivamente una relazione in senso architettonico. Ci possono essere delle relazioni, anche se a volte sembrano pretestuose. La musica è suono, quindi è difficile connotarla come immagine. Sul piano degli equilibri tonali però c'è un filo che lega questi due concetti.

AAJ: Hai un obiettivo da raggiungere che ti sei prefissato?

C.F.: Per fortuna vivo di obiettivi. Sono mete inesauribili. Ogni giorno ho un rapporto speciale con i miei strumenti, con i quali ho un feeling e un contatto fisico quotidiano. Studio tutti i giorni, cerco di avere con loro un contatto mai convenzionale. Non che li picchi (ride, N.d.R.), però cerco di coglierne gli aspetti più sottili, di trovare le ance che mi aiutano in questo. Dico sempre agli allievi che con il sax ci deve essere un rapporto di profonda amicizia però anche di grande rispetto. Meno sono stretti e più vibrazioni e frequenze sono in grado di dare. Ho in mente degli sviluppi che si evolvono di volta in volta. Ora sono rapito da questi due progetti, diversi tra loro: quello assai speciale del duo, e quello del quartetto con chitarra elettrica e parti elettroniche. Sono cose estremamente affascinanti che continuerò ancora per un po' a studiare e verificare. Sono sorprendenti e imprevedibili. Il mio obiettivo per ora è questo.

Foto di Roberto Cifarelli (le prime tre), Edward Rozzo (la quarta) e Dario Villa (la quinta).

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