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Dino Betti van der Noot all'Aula Magna della Bocconi di Milano

Dino Betti van der Noot all'Aula Magna della Bocconi di Milano
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Aula Magna dell'Università Bocconi
Milano
21.04.2016

Un concerto dell'orchestra di Dino Betti van der Noot è un evento sempre e comunque, vista la rarità con cui riunirla dal vivo si rende possibile, figurarsi nel momento in cui la Bocconi, all'indomani della sua sesta vittoria al Top Jazz (nello specifico con Notes Are But Wind), ha voluto celebrarne i trascorsi (ormai remoti, visto che il Nostro viaggia spedito verso gli ottanta, che compirà il prossimo 18 settembre) come suo studente, nonché animatore dell'attività jazzistica dell'ateneo.

Riferendosi a sessant'anni di jazz, il compositore e bandleader ha inteso allestire per l'occasione un programma ad ampio raggio, partendo da "Acts of Love Are Forever," brano del '55 che proprio in Bocconi ebbe la sua prima esecuzione e che sarebbe poi finito, in versioni prevedibilmente rivedute e corrette (come certo quella dell'altra sera), nell'86 nel pluripremiato Here Comes Springtime e quasi vent'anni dopo in Ithaca/Ithaki.

La scrittura di Betti ha confermato già in questo episodio praticamente preistorico, offerto come terzo in scaletta, tutte le sue ben note peculiarità, il progredire per macchie di colore, anche veementi, comunque plastiche (quindi pittura e scultura insieme, se vogliamo), a volte simili a palle di fuoco, altre volte adagiate su binari più lievi, allusi (se non allusivi), suggeriti, insinuanti.

È la grande lezione di Stan Kenton come di Duke Ellington, entrambe filtrate negli anni attraverso il vaglio gilevansiano (peraltro progressivamente sempre meno avvertibile, nella sua musica), la capacità (e la modestia, che non gli fa mai difetto) di non negare a parole ciò che sarebbe fin troppo evidente nei fatti, anche quando -come detto -tali retaggi vanno via via evaporando, come certi pulviscoli della sua musica, ciò che, nei primi due brani del concerto bocconiano, quelli in cui l'orchestra ha oliato a dovere i propri meccanismi, son parsi più palpabili.

Ci riferiamo a "Velvet Is the Song of Drums -from Afar" (già in Space Blossoms, 1989) e "That Muddy Mirror," particolarmente complesso (trattasi di una rivisitazione del celebre canto delle mondine "Sciur padrun da li beli braghi bianchi," inedita), cui è seguito il citato, e ottimamente compiuto, brano del '55, e in chiusura (in gloria) "Six Deaf Mice," dove i "sei topi sordi" si riferiscono alle citate sei vittorie al Top Jazz, alla cui premiazione il brano è stato eseguito in anteprima, e che qui ha goduto di una lettura più larga e tornita (anche perché nel frattempo gli esecutori sono saliti a tredici, fra cui Mandarini, Lo Bello, Begonia, uno straripante -anche come poeta -Cerino, Visibelli, Gusella, Zitello, Bertoli, Tononi...), rivelando un impatto ancora maggiore, in un crescendo climatico che è di fatto lo stesso del concerto, chiuso a mo' di bis da "Lullaby for a Lion" (in The Humming Cloud, 2007), che Dino Betti ha voluto per l'occasione dedicare, senza citarli, a tutti i musicisti scomparsi di recente.

Manco girato l'angolo, e abbiamo scoperto che a tale già fin troppo generosa lista andava aggiunto anche Prince.

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Foto di Alberto Bazzurro

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