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Cura del suono e dei rapporti umani: Stefano Amerio di Artesuono

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Il lato umano rimane la cosa fondamentale in qualunque tipo di lavoro. E proprio il fatto che le relazioni umane stiano sempre peggiorando rende le cose più difficili. Bisogna saper ascoltare, e non solo la musica.
Stefano Amerio, ovvero Artesuono, etichetta indipendente di jazz (ma non solo), prevalentemente dedita alla valorizzazione del panorama musicale friulano: solo negli ultimi mesi ha prodotto Trilogia di un viaggiatore del trio di Juri Dal Dan, Journeys di Alessandra Franco e Giovanni Maier, Secret Stories del Maurizio Pagnutti Sextet e Nuvole di Ivan Maroello, oltre l'ultimo lavoro di U.T. Gandhi, dedicato ai Weather Report e di cui ci occuperemo prossimamente.

Ma Artesuono è soprattutto uno studio di registrazione ormai notissimo tra i musicisti e gli appassionati di jazz, al quale si rivolgono i principali artisti e le più importanti etichette italiane e che, da alcuni anni, è anche uno degli studi di riferimento della prestigiosa etichetta tedesca ECM. Eppure - potrebbe osservare chi guardi Artesuono da lontano - lo studio ha la sede a Cavalicco, qualche chilometro fuori Udine, cioè una località lontana dalle rotte più note, dalle scene più frequentate, dal clamore del jet set: come spiegare questo successo? Siamo andati a trovare Stefano Amerio nella sua terra per cercare di capirlo, sebbene intuissimo già che al cuore dell'affermazione del suo studio ci fosse proprio ciò che stupisce a prima vista: la serietà e l'assenza di urgenza possibili "in provincia," la valorizzazione dei rapporti umani che una terra ancora genuina e con "radici" ancora ben salde come il Friuli può assicurare.

All About Jazz: Sei diventato uno dei personaggi più noti della scena jazzistica forse non solo nazionale: è sempre più frequente leggere "Artesuono, Cavalicco (UD)" nelle note di copertina dei recenti dischi di jazz, non solo italiani. E' noto che ormai anche molti dischi ECM - etichetta da sempre maniacale nella cura del suono - vengono realizzati nel tuo studio. Raccontaci la bella storia di questa tua impresa.

Stefano Amerio: Lo studio nasce nel '90, e perciò ha compiuto vent'anni a luglio. Io allora suonavo - pianoforte e tastiere, con musicisti locali, prevalentemente musica pop - e fu quasi inevitabile introdurmi almeno un po' nel mondo della tecnologia musicale. Però pian piano cominciarono ad arrivarmi vere e proprie richieste di registrazione; così, nel '90, ne parlai con mio padre che mi consigliò di provare e mi finanziò le prime attrezzature, prestandomi l'equivalente dell'acquisto di un'automobile (circa 12 milioni). Non era molto, ma era sufficiente per iniziare.

Poi, nel '93, iniziai una serie di registrazioni assieme a un ex commilitone, con il quale avevo anche suonato in caserma ed ero rimasto in contatto. Al quarto disco, l'imprevista esplosione: centoventimila copie vendute! Questo aprì le porte alla produzione di autori anche importanti (Adriano Celentano, Simply Reds, 883), che mi consentì i guadagni necessari ad ampliare e perfezionare lo studio.

Le prime cose di ambito jazzistico arrivano nel '96. Glauco Venier, che frequentavo essendo suo allievo, mi disse di aver ascoltato e apprezzato le cose che registravo e mi propose di fargli da fonico nella registrazione del suo disco L'insiùm, a Radio Capodistria. Io, pur con uno stress pazzesco (registrare il mio insegnante, per di più in uno studio che non era il mio...), accettai. Così feci la prima esperienza nel jazz.

Non molto tempo dopo feci la conoscenza di U.T. Gandhi. In realtà già lo conoscevo di vista: infatti lo incontravo spesso in un localino vicino casa, dove c'erano continue jam session, il Caffè Caucigh di Udine. Però fino ad allora mi incuteva un certo timore, un po' perché è così imponente che a prima vista fa impressione, ma soprattutto perché lui già suonava negli Electric Five di Rava e girava il mondo. Scoprii però che anche lui mi conosceva: veniva a vedere i miei concerti - Gandhi è molto presente sulla scena musicale locale e ha sempre frequentato i concerti degli altri - e aveva apprezzato alcuni arrangiamenti e lavori sul suono che avevo fatto. Così, un giorno decidemmo di fare il suo primo disco, quello con le canne di bambù, che presto ristamperemo. Era il '97 e iniziò la collaborazione anche con Umberto.

In un suo disco successivo, Gandhi portò Rava come ospite. Enrico entrò e premise subito di avere sempre molte difficoltà in studio, di non trovarsi mai bene con i suoni. Facemmo un paio di prove, lui alla tromba con le cuffie, dopo le quali, meravigliato, esclamò: "Ma è fantastico! C'è un suono stupendo!". In mezz'ora avevamo fatto tutto, ed Enrico se ne andò così contento che iniziò a parlare dello studio con toni di grande elogio ai musicisti che conosceva. Non solo: spesso, quando era ospite di altri, imponeva di venire a registrare da me. Finché, nel maggio del '98, venne a fare da Artesuono Certi angoli segreti, il disco Label Bleu per Musica Jazz.

Qualche anno dopo Enrico mi telefona e mi dice: "Guarda, devo fare un disco con un'etichetta molto importante. Sono ancora in trattative, non ti dico con chi è, ma se va in porto voglio farlo da te". Passa del tempo e non sento più nessuno. Poi, un giorno, mi chiama l'ECM... Fui colto di sorpresa: un'etichetta come l'ECM! Ed ero molto preoccupato, perché non mi sentivo all'altezza! Enrico mi rassicurò, Gandhi venne a darmi una mano, decisi di provare.

Il giorno della registrazione doveva ovviamente intervenire Manfred Eicher. Ma c'era la nebbia, il suo aereo era in ritardo e iniziammo senza di lui. Quando è arrivato, ha salutato e, senza aprire bocca, si è seduto dietro di me, ha ascoltato un poco, ha fatto un giro nello studio per verificare alcuni aspetti tecnici, e poi ha dato l'ok al completamento del lavoro.

Era il 2003 e da allora è iniziata la mia collaborazione stabile con loro, e poi anche con altre etichette importanti come la CAM Jazz, la Dreyfus...

Comunque, la cosa più bella dell'avventura con ECM è il fatto che io e Gandhi abbiamo stretto una vera e propria amicizia con Manfred: ad esempio, a Natale siamo andati a Monaco un paio di giorni con tutta la famiglia per stare con lui e Anja, lui stesso viene giù da noi per fare qualche giorno di vacanza... Voglio dire che il bello - aldilà del reciproco rispetto che c'è tra noi - è che quando si lavora si lavora, ma quando si è finito si sta assieme da amici e non si parla solo di musica. E devo dire che Manfred mi stupisce ogni volta, perché mi svela aspetti suoi, personali, da autentico amico - e il lato umano è la cosa più bella che puoi esperire in una relazione che nasce per ragioni di lavoro. Quando viene qua a Udine lo vado a prendere in aeroporto e la prima cosa che mi dice è: "Bene, cerchiamo di fare tutto in un giorno e mezzo, perché l'altra mezza giornata dobbiamo andare a fare shopping assieme"!

AAJ: Tecnicamente come credi di essertelo meritato il successo che hai raggiunto?

S. A.: Guarda, io non ho fatto nient'altro che lavorare duro, mettermi sempre in discussione, continuamente, anche adesso. Poi penso che proprio il lato umano, oltre che darmi grandi soddisfazioni, mi abbia anche aiutato. Oggi la tecnologia aiuta un po' tutti. Oltre quello, magari, c'è una sensibilità innata: forse Dio mi ha dato la grazia di poter fare bene questo mestiere.... Anche se, ripeto, ogni giorno è una scoperta e dopo vent'anni anch'io un po' mi stupisco dei risultati che ho avuto. Ho lavorato tanto, questo è vero, e continuo a lavorare cercando sempre di fare le cose con molta umiltà; non credo di essere arrivato, o meglio, credo di essere giunto a un certo punto ma di non potermi, né dovermi considerare "arrivato". Mi rendo conto adesso, dopo vent'anni, che evidentemente ho lavorato bene; però sono gli altri a dover giudicare. E per dieci campane buone ne hai sempre altrettante non buone. Ma è dovuto anche al fatto che non tutti hanno l'umiltà per rendersi conto della complessità delle cose: per questo ho sempre cercato di circondarmi di persone normali che cercano di fare il loro lavoro per bene, come Umberto e Glauco, che cercano di portare avanti un certo discorso di qualità, ma anche di amicizia.

AAJ: Magari questo non influenza direttamente il suono, ma certo influenza il modo in cui lo vai a costruire...

S. A.: Infatti. Se i musicisti continuano a venire credo sia anche perché si trovano bene, perché sentono di essere "in famiglia," perché hanno tutto quello che possono ricevere in un momento stressante qual è la registrazione di un disco. Perché la registrazione è un momento, una fotografia di uno stato della vita del musicista, e affinché l'istantanea venga bene è anche necessario che quel momento sia vissuto meglio possibile.

AAJ: Ovviamente, se entrano in gioco problematiche umane, di relazione, oltre quelle di tipo tecnico, la resa artistica non può che risentirne negativamente.

S. A.: Esatto. Per me questo è importantissimo, anche se spesso lo si dimentica. Il lato umano rimane la cosa fondamentale in qualunque tipo di lavoro. E proprio il fatto che le relazioni umane stiano sempre peggiorando rende le cose più difficili. Bisogna saper ascoltare, e non solo la musica.

AAJ: Con Eicher, dicevi, vale lo stesso discorso. Questo ti permette di lavorarci meglio? In che modo collaborate e in che modo lui entra nel lavoro, tuo e dei musicisti?

S. A.: Manfred ha un approccio "direttivo": sta lì, ascolta, poi offre degli input. Intendiamoci, non impone niente; però indica delle direzioni verso cui, secondo lui, puoi andare. È un direttore d'orchestra, che perciò ha il proprio suono e le proprie preferenze. La sua linea, che deriva dalla sua storia. Tanti criticano il suono ECM, ma alla fine o ti piace o non ti piace, così come vale per tutti gli artisti. Lui ha un suo progetto, molto ben definito, che porta a questi risultati, piaccia o meno. Non ha molto senso criticare la sua scelta artistica.

AAJ: No, non ha molto senso criticare il progetto ECM, a meno di non fare una sorta di "riduzione," a suo modo sensata, dicendo che il suono è una cosa e il resto della musica è un'altra. Ma nel caso di Eicher la cosa è un controsenso, perché nel suo progetto c'è la consapevole volontà di allontanarsi da un certo genere di jazz - senza che ciò sia però allontanamento totale, anche perché molte cose fatte da ECM in questi anni sono assai più innovative di quanto non lo sia stato il jazz più tradizionale. Le cose sono più complesse ed è e pericoloso usare categorie riduttive.

S. A.: Esatto, quella di Manfred è una scelta artistica ben precisa, sulla cui base ha creato il proprio stile; perciò quando lavori con lui sai che devi andare in una certa direzione. Però per me questo è bellissimo, perché mi lascia una grande libertà di lavorare sul mio terreno più proprio, mentre troppo spesso mi capita di fare tanto il tecnico del suono, quanto il produttore.

AAJ: Come ti sembra di interagire con i musicisti, da tecnico del suono?

S. A.: Innanzitutto, con il massimo rispetto. Questo sicuramente. Intervengo quando mi interpellano e non mi permetterei mai di esprimere un'opinione non richiesta. Il rispetto consiste in primo luogo nella sensibilità di non dare giudizi: il progetto artistico è loro, che vengono da me per realizzarlo. Solo nel momento in cui un musicista mi chieda: "Come ti sembra?," allora io posso anche esprimere una mia personale valutazione, posso distinguere quel che mi sembra buono e quel che potrei correggere. Ma sottolineo sempre che quello è un mio giudizio personale.

È però anche vero che oggi, dopo aver ascoltato tanta musica e registrato più di mille dischi, credo di aver sviluppato una sensibilità che spesso mi consente di capire l'evoluzione della musica - ad esempio di un assolo - e quindi la capacità di ricostruire qualcosa, ancor prima che il musicista mi dica di farlo. È una competenza che non saprei spiegare bene in cosa consista, ma di cui sono contento e orgoglioso: riuscire ad anticipare le mosse dei musicisti.

Credo che per sviluppare questa sensibilità mi abbia aiutato molto proprio Manfred. Ricordo che una volta eravamo a registrare Anouar Brahem e dovevamo fare un montaggio di due versioni di un pezzo. C'erano un paio di possibilità diverse e io non sapevo scegliere, mi sembrava che andassero bene entrambe. Ero imbarazzato, era il secondo o terzo disco che facevo per ECM... E Manfred, dopo un minuto o due di esitazione, mi ha battuto su una spalla e mi ha detto: "Think fast!". Questa cosa mi ha aperto un mondo! Da allora ho pian piano appreso, non so come, ad anticipare le mosse.

AAJ: Certo, ci sono un sacco di cose che - se ci prendessimo il tempo e ci mettessimo a "smontarle" - forse sapremmo anche dire perché le facciamo o sappiamo farle, ma delle quali in verità non è così importante conoscere i dettagli, perché le abbiamo assimilate come una "conoscenza pratica" senza aver messo a fuoco quali siano i punti qualificanti. Il "fare pratico" è spesso di questo genere, anche forme di "fare pratico" altamente qualificato: l'hai capito "con le mani" e questo basta.

S. A.: Sì, è così. Ed è per questo che a me rimane scolpito nella memoria quel "Think fast!" - non spazientito, ma certo un po' gelido - che mi ha aperto la via, ben più che i dettagli grazie ai quali oggi sono portatore di questa capacità.

Detto questo, mi sono sempre affidato al principio di lavorare con qualità: senza esagerare - perché non è detto che tu abbia una statura tale da raggiungere vette qualitative - ma senza abbassare la guardia di fronte a quel che puoi dare con meticolosità e precisione. E credo che questa sia la cosa che anche Manfred ha apprezzato.

AAJ: Queste dunque sono le parole chiave del tuo lavoro: attenzione, qualità, rapporti umani...

S. A.: Sì, e poi anche la collaborazione con amici, come Umberto, Glauco e tanti altri, con i quali s'è creata una sorta di famiglia. Insomma, una bella esperienza.

AAJ: Che fosse una bella esperienza lo si vedeva dall'esterno, a cominciare dalla stima di cui godi nell'ambiente dei musicisti. Una stima sempre più diffusa

S. A.: E questa è proprio la cosa che mi fa più piacere: la stima dei musicisti. Perché sento che ci sono un sacco di persone che si rendono conto del fatto che il lavoro che faccio lo faccio bene. Questo mi dà la sensazione di essere riuscito a realizzare quello che pensai affrontando la sfida di mettere in piedi uno studio di registrazione a Udine. Mi dissi: in fondo, se i musicisti di qua fanno quattrocento chilometri per andare a registrare a Milano, perché quelli di Milano non dovrebbero fare quattrocento chilometri per venire a Udine? Non perché Milano è Milano o Roma è Roma: oggi qualsiasi luogo può diventare un punto di riferimento, dipende da quel che puoi trovare quando arrivi.

AAJ: L'unica cosa forse non facile era uscire dalla mentalità provinciale che ti fa dire: "No, uno studio qui in Friuli non può diventare un punto di riferimento".

S. A.: Sì, però è pure vero che anche Gandhi viene dal Friuli e - come tanti altri - ha saputo uscire, senza però perdere il Friuli come punto di riferimento. Non è detto che se ti muovi in un panorama più ampio tu debba abbandonare le tue radici: rimanere legati al territorio natale secondo me è una cosa bella e importante. Perciò non è detto che un punto di riferimento - anche nazionale o internazionale - debba per forza essere una metropoli.

AAJ: Io direi anche di più: che se tutta la scena si concentra in pochi luoghi, ne seguirà quasi necessariamente un impoverimento. Le radici non possono attingere in due soli punti senza danneggiare la pianta. Le realtà locali che continuano a mescolare le influenze, raccogliere stimoli dalla tradizione, confrontarsi con il pubblico meno d'élite sono di essenziale importanza.

S. A.: E lo rilevi nelle cose di tutti i giorni: vai a bere una cosa nell'osteria, trovi il vecchietto, i gesti e le forme di relazione antiche, i rituali che creano socialità... Tutte cose impagabili, che nei grandi centri oggi non trovi più. Io mi ritengo fortunato a vivere in un posto così. Forse qualche anno fa era musicalmente un po' decentrato; ma oggi con musicisti come Maier, Gandhi, Venier, D'Agaro le cose sono cambiate e non abbiamo nulla di meno di altre realtà, rimanendo però in un contesto ideale: ci troviamo e andiamo a mangiare una pizza, ci incontriamo per il gusto di stare assieme, andiamo al Caucigh perché c'è qualcuno che suona, ma soprattutto per condividere tempo ed esperienze. Certe volte mi dico: "Sì, però sono sempre le solite due chiacchiere"; ma in realtà è importante incontrare le persone anche solo per dirsi "ciao, come stai?," perché è così che si vivono le amicizie.

AAJ: Perché senza le cose ordinarie non è possibile fare neppure quelle straordinarie...

B>S. A.: ...e perché godere delle cose ordinarie è molto bello, è quello su cui si è sviluppata anche la storia dello studio. Se guardi bene, vedi che le sue pietre miliari sono stati lavori di Umberto, di Maier, di Glauco, che poi hanno portato altri musicisti che con il tempo sono diventati non solo frequentatori abituali, ma soprattutto nuovi membri della famiglia. Pensa a Stefano Battaglia, arrivato attraverso Maier e che è entrato in ECM per una semplice coincidenza: stavo facendo un lavoro con Manfred e riascoltavo un suo disco che avevamo appena registrato; Manfred lo sente e fa: "Ma è bellissimo! Che cos'è?". Beh, è stato il primo disco che Battaglia ha pubblicato per ECM... E non è l'unico caso. Ad esempio, c'erano tre \ ragazzi svizzeri, bravissimi, che sono venuti in studio perché avevano sentito i miei lavori. Suonano assieme da dieci anni, sono veramente fantastici: hanno registrato in un'unica stanza, uno accanto all'altro, trio jazz, senza cuffie né altro, con delle dinamiche incredibili: io ho registrato e basta. Sono rimasto a bocca aperta e ho detto a Manfred di ascoltarli, e infatti poi si sono messi in contatto e stanno cercando un accordo. Quando si tratta di dare una mano, perché no?

AAJ: Anche perché, quando trovi gente di qualità, non si tratta solo di dare una mano ai musicisti, ma anche a chi la musica l'ascolta! Tra le tante cose che mi fanno piacere della tua storia ce n'è una in particolare: che coniuga il raggiungimento di obiettivi alti con il fatto che tale raggiungimento non era la finalità unica e, probabilmente, neppure quella prevalente. Come hai detto tu, c'era prima l'obiettivo di fare le cose per bene, con qualità; c'era l'intenzione di farle con un certo tipo di persone; c'era il desiderio di "dare una mano" all'ambiente locale; c'era il bisogno di non parlare solo di lavoro, neppure con personaggi come Manfred...

S. A.: Guarda, io a Manfred dico sempre che sono onorato di lavorare con lui, ma che lo sono ancor più dal fatto di essere stato incluso nella cerchia dei suoi amici! A me, sinceramente, se lui mi dicesse che non viene più a registrare nel mio studio, ovviamente mi cambierebbero molte cose sul piano materiale, ma certo non i rapporti. Né mi metterei a telefonare per chiedere lavoro: io e Umberto, fin da quando l'abbiamo conosciuto, l'abbiamo considerato una persona, non un datore di lavoro. Non abbiamo mai chiesto niente: è forse stato più lui a chiamare noi, che noi lui. Oggi ci sentiamo quando ci sentiamo, spesso neppure per lavoro, giusto per salutarsi e per darsi appuntamento per mangiare assieme o vedersi per un week end. Mi capita spesso di pensare che se avessi spinto un po' di più sull'acceleratore forse avrei capitalizzato di più il lavoro che ho fatto in questi vent'anni; poi però mi chiedo perché mai avrei dovuto spingere: io vado avanti, poi si vedrà cosa viene fuori. Va bene così: con questi risultati, ma con questi rapporti umani, senza forzare né le persone, né l'andamento delle cose.

AAJ: È come. andare sulla vetta della montagna passando dal sentiero o prendendo la funivia: con la seconda non fai fatica, ma ti sei perso la montagna!

S. A.: Sì, meglio fare fatica, ma avere un bagaglio d'esperienze, per giunta condiviso con i tuoi compagni di scalata. Che poi sono quello che resta anche se crolla il mercato discografico o le cose vanno male. Infatti, quando ho avuto bisogno, anche a livello personale, le persone con le quali ho condiviso quest'avventura non sono mai mancate: se stavo male, mi cercavano per telefono, mi invitavano a cena da loro, si stringevano attorno a me. Ecco, questo è impagabile e ti dice quanto sia più importante il lato umano rispetto al successo. No, non riuscirei a fare diversamente da come ho fatto! Del resto, per quanto mi riguarda, ho quel che mi serve e non mi lamento; ma, certo, se dovessi esser pagato per quanto lavoro, dovrei essere miliardario!

AAJ: Anche questa è però una considerazione importante, visto che oggi ai più manca il senso della misura...

S. A.: Tocchi un tasto che spesso mi addolora, perché non manca chi dice che io vivrei alle spalle dei musicisti, sfruttando il loro bisogno di registrare per fare i soldi... Oppure che sarei caro... Ecco, questo mi amareggia, perché se dovessi fare il mio lavoro veramente per business adesso non sarei qua, chiuso nello studio dieci ore al giorno per sei giorni la settimana, non lavorerei con i musicisti locali, sarei in altri giri a fare ben altri soldi! Faccio questo mestiere perché mi piace farlo, perché mi piace lavorare assieme ai musicisti, produrre con loro la musica, ma soprattutto condividere con loro la mia vita. Dal punto di vista materiale, mi basta che il mio lavoro mi dia da vivere. Qui, in questa terra, con questi amici, facendo cose fatte bene e che diano soddisfazione a noi e a chi ascolta. Credo sia per questo che da vent'anni vado avanti e che chi riesce a capirlo mi stima e mi da credito. Professionale e umano.

Foto di Luca D'Agostino / Phocus, tranne la prima di Alex Cesco.

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