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Barcellona: i concerti di chiusura del Voll-Damm Jazz Festival 2012
ByUn festival onnivoro, la cui varietà del programma è stata opportunamente sottolineata da Angelo Leonardi nell'articolo di presentazione. Quello che ora è il caso di evidenziare è da un lato il fatto che un così imponente cartellone, protrattosi dal 21 ottobre al 30 novembre, non si è retto sui finanziamenti pubblici, dall'altro che per ospitare i vari concerti sono stati coinvolti di volta in volta gli spazi più idonei sia per la capienza sia per l'attinenza con il genere musicale presentato.
La programmazione dell'ultima settimana è risultata emblematica, quasi riepilogativa degli orientamenti stilistici che hanno caratterizzato i concerti e del tipo di sinergie attivate nell'organizzazione, permettendo di mettere a punto anche stimolanti iniziative collaterali. Non si può inoltre fare a meno di rilevare che l'età media del pubblico era molto più bassa di quella che abitualmente si registra nei festival jazz italiani.
Il concerto del Tinissima Quartet di Francesco Bearzatti, che ha riscosso un'accoglienza entusiastica, ha permesso di verificare l'impatto che questa formazione, come altre del nostro jazz, riesce a suscitare all'estero. Il Tinissima Quartet è una formazione monolitica, non solo per la consensuale motivazione che lega i suoi membri, ma anche per il fatto di perseguire una caparbietà creativa che li ha portati a concepire solo tre progetti in circa cinque anni, riuscendo a replicarli sempre con successo nelle più svariate occasioni senza cadere nella routine.
In Monk & Roll i temi monkiani e quelli di matrice rock si alternano o più spesso s'intrecciano, rimanendo sempre ben riconoscibili, stagliati nei loro disegni melodici su metriche rockeggianti efficacemente marcate. La varietà delle soluzioni strutturali adottate mette in evidenza la sfrenata e lirica fantasia interpretativa delle due voci della front line (il tenore, a volte distorto, e il clarinetto di Bearzatti, la tromba e gli spunti vocali di Giovanni Falzone), mentre Danilo Gallo e Zeno De Rossi forniscono un granitico sostegno ritmico. Di tutto questo si è avuta conferma dal concerto nell'accogliente Sala 3 dell'Auditori.
Sempre all'Auditori, ma nell'asciutta acustica della sala principale, tutta rivestita di legno, quattro giorni dopo si è esibito Brad Mehldau in trio con i fidi Larry Grenadier e Jeff Ballard. In anni passati Mehldau era pianista imprevedibile, capace di alternare prove esaltanti per inventiva e motivazione ad altre di svogliata routine. Negli ultimi anni invece il suo livello qualitativo pare essersi stabilizzato verso l'alto; sembra anche che egli abbia prosciugato il suo complesso stile originario, focalizzandosi su un approfondimento delle potenzialità delle linee melodiche e sviluppando ipnotiche reiterazioni cariche di tensione.
Questa impronta la si è avvertita anche nel generoso concerto barcellonese, che ha presentato momenti di notevole caratura. Talvolta, per esempio in "Beatrice," brano d'apertura, il pianista ha rispolverato un'eleganza e una leggerezza swingante memori di Bill Evans. Più spesso, come nella rivisitazione dei brani degli amati Beatles, egli è partito da esposizioni tematiche semplici e oggettive, quasi distaccate, per inoltrarsi progressivamente in crescendo di grande forza espressiva. Talvolta si è poi ritagliato spunti solitari in cui ha intrecciato le mani sulla tastiera elaborando ispirate e variate evoluzioni rapsodiche. Come sempre Ballard e soprattutto Grenadier si sono dimostrati partner insostituibili e congeniali, complici nel tessere la tensione dei brani, producendosi anche in assoli raffinatamente bluesy.
Al Luz de Gas si sono vissute esperienze diverse per l'ambientazione e il tipo di fruizione che le espressioni musicali comportavano. Per la prima volta ho assistito ad un set dell'emergente Christian Scott, che merita qualche considerazione analitica. Da più fonti attendibili mi era stato riferito che il jazz di frontiera del giovane trombettista di New Orleans è fortemente intrecciato con il mondo dell'hip-hop e dell'afro-rock; nel concerto al Luz esso mi è invece sembrato del tutto in the tradition, radicato nello spirito del più emblematico e autentico jazz nero-americano. Non solo per la strumentazione acustica del classico quintetto, ma anche per la grana dell'interplay, per l'approccio all'improvvisazione, per i precedenti storici rintracciabili in ognuno degli strumentisti.
Quanto di Lee Morgan, Woody Shaw, Al Shorter è trapelato dalla tromba del leader! Quanto di Marion Brown e John Handy nei sax di Braxton Cook! Quanto ha ricordato Billy Higgins e, nel primo brano, soprattutto Elvin Jones il drumming di Corey Foville! Quanto il pianismo di Lawrence Fields è derivato da Andrew Hill e dall'Hancock d'annata! Quanto l'ombra di Richard Davis ha permeato il contrabbasso di Luques Curtis! Questo per citare protagonisti del jazz di ieri talvolta non di primissimo piano, perfino dimenticati, ma evidentemente il loro insegnamento e le loro spiccate personalità persistono e rivivono, più o meno consapevolmente, nel DNA, nella memoria collettiva di questi giovani esponenti di colore dell'attualità jazzistica americana.
Si tratta allora di mainstream risaputo, di hard bop revival? Ci potrebbe essere questo rischio se il repertorio non fosse inedito, di original o di hit tratte dal mondo del pop, e soprattutto se la convinzione, la freschezza, l'energia ed anche l'impegno politico che questo quintetto è in grado di produrre non fossero nuovi ed autentici.
Il focoso concerto si è concluso con due bis, l'ultimo dei quali è stato un'inaspettata versione di "Blue Monk"; che differenza fra questa interpretazione lenta, bluesy, malinconica, decisamente in the tradition, e quella dinamica, scandita e trasgressiva proposta la sera precedente dal Tinissima Quartet!
Si è cambiato totalmente registro con i ritmi balcanici della rumena Fanfare Ciocârlia, che ha al suo attivo 1200 concerti negli ultimi 15 anni e per la quale un pubblico giovane e predisposto al divertimento è accorso a stipare il Luz de Gas, ballando per tutta la durata del concerto. Si è così celebrato un rito, una festa gioiosa nello sfrenato abbandono della danza, come capita anche in altre manifestazioni popolari (vedi le nostre notti della Taranta al di qua dell'Adriatico). Trattandosi di musica della tradizione popolare la ritualità rappresenta appunto la componente prevalente; è pertanto musica ripetitiva, fortemente cadenzata e risultano quindi determinanti ogni volta la vitalità, l'energia, la genuinità della partecipazione e anche il virtuosismo tecnico con cui essa viene proposta. La Ciocârlia, come abitualmente accade con altre compagini analoghe, ha evitato di percorrere la routine, spendendosi senza risparmio in una manifestazione di estroversione e solidarietà.
Le quattro tube hanno prodotto impasti armonici sontuosi e un sostegno poderoso; non deve meravigliare a tale proposito se una funzione simile la si può riscontrare in innumerevoli esperienze della tradizione bandistica e paesana in Italia, rintracciabile per altro anche nella "nobile" traduzione operistica delle marce trionfali verdiane. I quattro trombettisti hanno fatto a gara fra di loro nell'esporre veloci e crepitanti sfarfallii di note. Se si aggiunge il ruolo dei due sassofoni contralti, anch'essi suonati con uno staccato frenetico e compiaciuto, e l'uso più marginale, regolare e un po' schematico, delle percussioni e delle voci si comprende come l'esibizione abbia sprigionato una comunicativa contagiosa.
Nell'auditorium del più istituzionale Conservatori del Liceu il sopranista Bob Belden ha presentato Animation, il suo più recente progetto per quintetto con il quale ha da poco pubblicato Transparent Heart. Gli arrangiamenti hanno esaltato gli impasti armonici e timbrici del collettivo, le concatenate progressioni, il sound ampio e avvolgente di una musica che non vuole nascondere la sua derivazione davisiana. A fianco di original ben strutturati sono state affrontate anche reinterpretazioni di "Bitches Brew" e di "Miles Runs the Woodoo Down": scelta coraggiosa e rischiosa, tanto che il risultato è risultato un po' calligrafico rispetto agli originali.
Nel complesso sono apparsi apprezzabili il fraseggio del leader, l'uso liquido del piano elettrico da parte di Roberto Verastegui e soprattutto le sortite del trombettista Pete Clagett, che ha palesato un linguaggio non lontano da quello di Cuong Vu, rivelandosi il più notevole dei quattro giovani o giovanissimi partner di Belden. Ma nel contesto erano perfettamente inseriti anche il basso elettrico di Jacob Smith e il drumming di Matt Young.
Oltre a sostenere il concerto, Bob Belden ha tenuto una lectio magistralis al conservatorio e si è sottoposto alle insidiose domande del "Before and After" proposto da Ashley Kahn.
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