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Andrea Dulbecco - France mon amour

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All About Jazz: Nel tuo recente disco Canzoni hai scelto d'interpretare un repertorio di canzoni d'autore italiane e francesi. Ci spieghi le ragioni di questa scelta?

Andrea Dulbecco: Come sai ho trascorso di recente un anno a Parigi, come periodo sabbatico nella mia attività di musicista classico e insegnante al conservatorio di Milano. Lì ho conosciuto molti musicisti di jazz e questo disco è la testimonianza di questa fase musicale.

Fra i jazzmen della scena francese con cui ho collaborato ci sono appunto i partner del disco, Dedè Ceccarelli, Stephane Belmondo e Thomas Bramerie.

La scelta è caduta su un repertorio di canzoni perché mi sembrava un terreno comune fra i nostri due Paesi. Sia l'Italia che la Francia hanno avuto ottimi interpreti e autori in questa forma musicale e mi piaceva l'idea di creare un progetto discografico su queste basi.

AAJ: Ho apprezzato la tua scelta di includere nel nuovo disco un brano di Fabio Concato. E' un autore sensibile, forse poco valutato all'estero...

A.D.: Sono perfettamente d'accordo con te. Trovo che abbia scritto delle canzoni spesso molto belle ed è un autore meno ricordato di altri. Tra l'altro ha una sensibilità jazzistica, suo padre era un pianista di jazz, e lui ha collaborato con jazzmen da molti anni - ricordo Franco D'Andrea o Emanuele Cisi - quando la cosa non era ancora di moda. Nella scelta del repertorio ho privilegiato gli autori più affini alla nostra sensibilità, come Michel Legrand o Bruno Martino.

AAJ: Rispetto al tuo precedente disco, Sunday Afternoon, in Canzoni è molto evidenziata la dimensione melodica. È proprio una scelta voluta quindi...

A.D.: Direi di si. È chiaro che ci possono essere sempre approcci diversi e si può battere una via interpretativa di stravolgimento del materiale sonoro ma in questo caso mi piaceva che la linea melodica dei brani scelti fosse sempre presente con un flusso musicale più chiaro. Invece nel disco in trio che hai citato volevamo scandagliare il genere da cui molti musicisti moderni partono, ovvero il trio di Bill Evans. C'era quindi maggior astrazione nelle forme della composizione e un diverso interplay.

AAJ: È vero comunque che l'attenzione alla melodia resta un elemento distintivo del tuo stile...

A.D.: Si. Parlando dei grandi vibrafonisti del passato trovo un naturale trasporto per Milton Jackson, un artista che dava estrema attenzione alla linea melodica, oppure per Gary Burton, un grande virtuoso con uno stile un po' barocco ma capace di elaborare linee di grande purezza.

Lo stesso vale per David Friedman che è stato anche mio maestro. Friedman ha un'estrema attenzione alla qualità delle linee nonostante la sua impostazione più intellettuale.

AAJ: Qual'è il tuo bilancio dell'esperienza parigina. Che impressioni hai avuto della scena musicale francese?

A.D.: Parigi è il polo d'attrazione per eccellenza di tutta la Francia anche per quanto riguarda il jazz e questo genera una scena musicale che non trova paragone in nessuna città italiana. Nei club di Parigi si ritrovano anche musicisti di mezza Europa, per non parlare di quelli nordafricani. Un'altra cosa che in Italia manca è l'interdisciplinarietà artistica: a Parigi c'è molta collaborazione tra il teatro contemporaneo e la musica, tra la musica e la danza, la danza e il teatro e via discorrendo. Noi siamo invece un po' ingessati.

Col gruppo di musica contemporanea in cui suono - si chiama Sentieri selvaggi - cerchiamo spesso collaborazioni con jazzmen o attori di teatro ma ci accorgiamo che i direttori artistici restano spiazzati. Forse non sanno dove collocarci... A Parigi invece si aspettano che qualcuno proponga cose nuove e insolite pur senza esagerare.

Per quanto riguarda le mie impressioni premetto che l'anno sabbatico è trascorso in fretta perché la città è grande da esplorare ed ho iniziato a "divertirmi" verso l'ottavo/nono mese della permanenza. Molti musicisti cominciavano a conoscermi, sapevano che ero in zona e iniziavano collaborazioni più continuative... comunque ho allacciato dei contatti e spero si riveleranno fruttuosi.

AAJ: Un altro tuo disco particolarmente lirico è Summer Suite realizzato col pianista Mauro Grossi. Sei soddisfatto di quel lavoro? Purtroppo mi pare sia stato un po' sottovalutato...

A.D.: Si sono molto soddisfatto della collaborazione con Mauro con cui ho inciso di recente un disco in quintetto che uscirà prossimamente. Sinceramente mi sento più portato a lavorare con organici piccoli, in una dimensione cameristica. Trovo che sia una situazione in cui il vibrafono viene particolarmente valorizzato. Ricordo che prima di quell'incisione sentivo molto forte la responsabilità di un disco in duo anche per il confronto con l'incisione storica di Gary Burton e Chick Corea. Nell'attuale collaborazione con Bebo Ferra sento di essere molto più maturo per affrontare questa tipologia d'organico ma condivido che quel disco conteneva anche ottime idee. Soprattutto siamo riusciti in alcuni brani a staccarci dal modello Burton-Corea, che resta comunque qualcosa d'inarrivabile.

AAJ: Anche alla luce di quest'esperienza francese come vedi la situazione del jazz in Italia?

A.D.: Tutti vediamo una grande forbice, una grande divaricazione tra l'interesse che c'è da parte delle istituzioni e la quantità di bravi musicisti che ci sono, e che non sono unicamente bravi esecutori ma hanno anche tante idee e presentano progetti personali e interessanti. Non siamo solo noi a dirlo ma è una cosa ormai riconosciuta in ambito internazionale.

Purtroppo questo avviene a fronte di un disinteresse quasi assoluto delle istituzioni. Personalmente vivo questa cosa anche nell'altro campo in cui opero, la musica contemporanea, dove la situazione è ancora più grave. È vero che sono musiche d'elite ma almeno per il jazz ogni volta che le istituzioni supportano un'iniziativa il pubblico risponde molto bene. Ricordo che per anni non c'è stato un festival del jazz a Milano e quando finalmente è rinata l'iniziativa al nuovo Piccolo Teatro s'è visto un pienone in tutte tre le sere. L'anno dopo non s'è più fatto nulla.

In Italia le briciole che arrivano per la musica vanno solo agli enti lirici e alla musica sinfonica o da camera. Il jazz per le istituzioni non esiste e vive grazie all'intervento di privati o del politico di passaggio che ha una personale simpatia per la nostra musica. Così nascono molti progetti ma spesso finiscono nel nulla per mancanza di visibilità e di sostegno.

AAJ: Non pensi che all'interno di questa dimensione istituzionale rientri anche il ruolo dei media pubblici, dove lo scadimento qualitativo raggiunge ormai forme imbarazzanti ed il jazz è totalmente escluso, anche nella fascia notturna...

A.D.: Noi abbiamo una televisione di Stato che prende i nostri soldi e che ha il dovere di portare nelle fasce orarie di maggior visibilità questo tipo di proposte. Ricordo che quando nacquero le televisioni private si diceva che la concorrenza avrebbe migliorato la qualità della televisione pubblica... purtroppo abbiamo visto che la concorrenza c'è stata ma al ribasso.

AAJ: Il trio con Marco Micheli e Stefano Bagnoli è ancora in vita?

A.D.: Il trio è assolutamente ancora in vita però come abbiamo detto la condizione dei jazzmen in Italia rende difficile portare avanti un proprio progetto. Allora si è quasi obbligati a operare su più fronti perché con ogni formazione si lavora abbastanza poco. Comunque la formazione mi piace molto, mi piace la chiarezza con cui le linee delle tre voci interagiscono e mi auguro di continuare a lavorare assieme ancora per molto tempo.

AAJ: A quali progetti hai lavorato e quali prospettive hai per il prossimo futuro?

A.D.: L'ultimo mio progetto è stato quello che ho presentato al conservatorio per ottenere l'anno sabbatico. Ho scritto diversi arrangiamenti per un disco che sto preparando e che incontra qualche problema perché è un lavoro complicato e costoso. Sono arrangiamenti per il duo vibrafono e marimba che ho con Luca Gusella più un coro da camera di sedici voci. Trovo che l'ensemble di voci umane sia davvero affascinante ed ero interessato alla relazione tra questi e i nostri due strumenti. La voce può avere un attacco assolutamente impercettibile mentre le percussioni sono molto nette; la voce è uno strumento estremamente espressivo mentre il vibrafono e la marimba sono mediati, hanno un'espressività nascosta, che va estratta a fatica.

AAJ: Da cosa dipende, in generale la tua adesione a progetti altrui?

A.D.: Dipende. Di Furio di Castri ho sempre ammirato la sua vitalità nel creare progetti musicali. Il trio che condivido con lui e Mauro Negri è tutto focalizzato sugli strumenti di legno; io suono la marimba e non a caso ci chiamiamo Wooden You. Con Bebo Ferra o con Riccardo Fioravanti c'è una simbiosi musicale che ci porta a condividere molte cose: ad esempio c'è amore per l'interplay, per suonare a voci che s'incrociano, creando dei contrappunti estemporanei.

Con i musicisti che ho nominato apprezzo anche la possibilità di potermi muovere tra diverse estetiche, riuscendo a passare da momenti più convenzionali a cose più sperimentali

AAJ: Parliamo di vibrafono. Oggi c'è qualche collega di strumento che ammiri in particolare?

A.D.: Assolutamente si. Anche in Italia iniziano a esserci vibrafonisti molto bravi anche se non sono molti per varie ragioni. Il vibrafono lo studiano in molti ma pochissimi lo eleggono a strumento principale. Si studia anche all'interno dei conservatori ma poi viene abbandonato anche perchè per fare jazz aiutano molto le competenze pianistiche e magari entro uno studio di percussioni si preferiscono altre opzioni. Tra i nomi che vorrei citare c'è Francesco Pinetti, che vive vicino Milano; a Roma c'è Andrea Biondi, in Sicilia Cesare Carbonini, in Veneto Saverio Tasca... Tra i musicisti stranieri apprezzo particolarmente David Friedman, un grandissimo che meriterebbe più notorietà ed ha pagato forse il trasferimento dagli Stati Uniti a Berlino. Poi ovviamente Gary Burton, Joe Locke o giovani come Stefon Harris.

AAJ: Oltre al jazz ed alla musica classico-contemporanea quali altri musiche o artisti ti piacciono ?

A.D.: Beh con questi due generi c'è già abbastanza da ascoltare. Sinceramente fin da bambino mi è sempre piaciuto molto il funk forse perché è una costola del jazz. Stili scaturiti da esperienze vissute negli anni cinquanta da Horace Silver, Cannonball Adderley e proseguiti poi con James Brown e tutta la generazione soul degli anni sessanta. Apprezzo molto anche il tango e in generale la musica latino-americana.

AAJ: Ti consideri soddisfatto delle cose che hai realizzato finora? Ci sono esperienze musicali che vorresti fare?

A.D.: Sono assolutamente soddisfatto della qualità dei musicisti con cui ho la fortuna di collaborare in Italia con cui però - per i motivi che abbiamo detto - vorrei poter collaborare di più e questo purtroppo è difficile farlo.

Sono insoddisfatto dalle difficoltà, della lentezza con cui vanno avanti le cose. Agli inizi della tua carriera speri che la progressione degli eventi acceleri ma negli anni ti accorgi che la lentezza è sempre quella.

Crei un gruppo, fai fatica a produrre il primo disco, t'accorgi che la promozione del disco è lentissima e allora cambi gruppo e progetto consapevole che col primo non hai avuto fortuna ma le cose non cambiano molto. Resta spesso una sensazione d'incompiutezza che non è solo mia ma sento essere condivisa da molti colleghi.

Foto di Roberto Cifarelli (la seconda, terza, quarta e sesta) e Danilo Codazzi (la prima, quinta


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