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Amo questa musica da sempre: intervista a Tito Mangialajo Rantzer

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Sto bene su un palco davanti a delle persone che mi ascoltano, non ho mai sofferto di emotività, mi spaventa di più andare a una festa dove ci sono persone che non conosco.
Forse non tutti sanno che Tito Mangialajo Rantzer è stato il primo allievo di contrabbasso iscritto alla Civica Jazz di Milano. Ce lo ha rivelato durante la nostra conversazione, che ha preso spunto dal suo lavoro discografico When We Forgot the Melody per fare poi luce sulla passione vitale per la musica, i progetti del prossimo futuro e per ripercorrere un cammino artistico che dura da diversi anni.

Rantzer è uno di quei musicisti che si muovono defilati dallo star system jazzistico, ma non per questo il suo valore ne risulta sminuito, anzi; le sue innumerevoli collaborazioni lo hanno portato a suonare in due dischi molto interessanti, come Slight Imperfection di Paolo Botti e più di recente nell'apprezzato Thunupa del giovane saxofonista Piero Delle Monache.

All About Jazz: Dopo un lunghissimo percorso discografico da sideman sei arrivato alla pubblicazione, come co-leader insieme a Dimitri Grechi Espinoza, di When We Forgot the Melody. Impressioni a riguardo?

Tito Mangialajo Rantzer: Il disco è nato in maniera estemporanea. Noi ci conosciamo dal 1994 e collaboriamo assiduamente da qualche anno nel gruppo di Paolo Botti. Eravamo in sala per incidere il disco di Paolo Slight Imperfection; è avanzato del tempo e Dimitri mi ha chiesto di registrare qualcosa in duo. Così abbiamo iniziato a improvvisare. Non avevamo mai deciso in precedenza di metterci a registrare quello che facevamo, mentre questa volta abbiamo dato una struttura temporale alla cosa, senza andare avanti all'infinito, e ci siamo detti pochissimo: sul primo pezzo "suoniamo in Do in tempo medio" e poi a un certo punto "suoniamo una ballad". Tutto qui. Siamo stati in studio un'ora e mezza e quello che abbiamo registrato è esattamente quello che si può ascoltare sul disco, senza tagli e nell'ordine originale. Siamo molto contenti di questa esperienza e anche per la mano che ci ha dato la Rudi Records, perché questa è la prima volta che ho incontrato un produttore, Massimo Iudicone, capace di fare il proprio lavoro - anche sotto il profilo promozionale - in maniera seria e professionale.

AAJ: Che significato ha il titolo?

T.M.R.: Il titolo è un po' come uno scherzo. Volevamo che si creassero delle melodie durante l'improvvisazione, non cercavamo un'improvvisazione solo rumoristica, e quindi abbiamo inventato delle nuove melodie in maniera estemporanea, come se ci fossimo dimenticati la melodia che avevamo intenzione di suonare. Il disco è dedicato a Lee Konitz e Red Mitchell.

AAJ: Nelle descrizioni che si trovano in rete su di te si legge spesso: «È interessato al jazz, alla musica improvvisata e a tutto ciò che vi sta sopra, sotto, di fianco e attraverso». È una definizione che dai di te stesso?

T.M.R.: È una definizione che mi sono dato. Mi considero un jazzista. Amo questa musica da sempre. Ascolto di tutto nel campo del jazz, dalle cose storiche all'attualità. Molto di quello che so l'ho appreso suonando con gli altri. In tutti questi anni, suonando con molti musicisti, ho incontrato diversi modi di suonare il jazz e improvvisare. Molti aspetti mi interessano e cerco di calarmi in ogni situazione. La cosa che mi guida è il suono, sia il mio ma anche quello degli altri. La sonorità è l'elemento che più mi attrae di un musicista. Le note vengono dopo, prima di tutto c'è il suono. Uno dei miei eroi contrabbassistici è Henry Grimes, uno in grado di suonare con i più grandi - da Cecil Taylor a Sonny Rollins passando per Benny Goodman - e di calarsi in diverse situazioni sempre con perizia.

AAJ: In oltre venti anni di carriera ti è mai capitato di voler smettere?

T.M.R.: Questo è un tasto dolente. Negli ultimi due anni ci ho pensato, complice anche la crisi economica che c'è in questo momento. Si sono ridotte moltissimo le possibilità di suonare. Fino a due anni fa non mi ero mai lamentato, ho sempre suonato tanto. Non faccio parte purtroppo del circuito delle star: loro non credo abbiano grandi problemi e partecipano spesso ai grandi festival, con il risultato che i festival si assomigliano un po' tutti, anche di anno in anno. Ho cercato anche di fare altro, dal momento che ho una famiglia con due figli, ma è difficile. Solo il motivo economico mi ha fatto vacillare, perché per me la musica è tutto. Sto bene su un palco davanti a delle persone che mi ascoltano, non ho mai sofferto di emotività, mi spaventa di più andare a una festa dove ci sono persone che non conosco. In questo momento vivere di musica è molto dura, ma spero che le cose cambino in fretta.

AAJ: Pensi di far parte dell'ultima genarazione di musicisti che ha imparato a suonare ascoltando i dischi?

T.M.R.: Questo sì, in parte è vero. In realtà penso di essere uno dei primi ad avere studiato in una scuola di jazz in Italia: sono stato il primo allievo di contrabbasso della Civica Jazz di Milano. Quelli prima di me l'hanno imparato sul campo o magari dopo un percorso formativo in Conservatorio. La Civica Jazz non era completa come oggi, però c'era molto da imparare dall'ascolto dei dischi, che nel mio caso era maniacale: compravo un LP a settimana e lo ascoltavo fino a saperlo a memoria. Saprei cantare interi dischi a memoria in qualsiasi parte, come per esempio Saxophone Colossus. Sono dunque al confine tra le due modalità di apprendimento. Certo, oggi con gli mp3 abbiamo tutti molta più musica a disposizione, ma non l'ascoltiamo più in maniera profonda e dettagliata come quando quelli della mia età hanno iniziato a suonare. Io i dischi me li "mangiavo" e li sceglievo con estrema cura.

AAJ: Hai avuto modo di collaborare anche con grandi musicisti stranieri, come Lester Bowie. Chi di loro ti ha lasciato un insegnamento che ritieni sia decisivo per il tuo modo di suonare?

T.M.R.: Mi viene in mente George Garzone con il quale ho avuto la fortuna di fare un tour nel '94, e di lui mi colpì - oltre al fatto che è un saxofonista pazzesco e un grande improvvisatore - la sua professionalità. Siamo andati al club per suonare, ha dato una letta ai brani e si è calato nei pezzi in maniera fantastica. Citerei anche Brian Lynch, un trombettista meno conosciuto. Era super disponibile in sala, perché oltre a suonare era uno che dava consigli di vario genere, con molta dedizione. Ho imparato molto da tanti musicisti, soprattutto incontrandoli e suonando con loro. Mi ha dato tanto anche il clarinettista Giancarlo Locatelli, un personaggio un po' schivo che mi ha aperto la visione musicale a mondi diversi, come quello di Steve lacy e dell'improvvisazione. Nel mio percorso è stato molto imporatante Stefano Zenni, con il quale ho studiato storia e analisi a Siena, e anche lui mi ha dato delle conoscenze importanti, di musicisti e generi che non conoscevo e ho imparato ad apprezzare.

AAJ: Pensi di aver trovato il tuo suono?

T.M.R.: Ho trovato il suono che mi rappresenta, soprattutto da quando monto le corde in budello. Cerco profondità e gravità. Il basso è la terra, le radici, il suono grave.

AAJ: Hai accennato a Slight Imperfection di Paolo Botti. Sei molto legato a questo musicista?

T.M.R.: Paolo per me è come un fratello, una persona deliziosa e di conseguenza la sua musica è molto bella. Sono entusiasta di suonare con lui nei suoi vari progetti. È un piacere frequentarlo.

AAJ: Di recente sei stato protagonista di un'altra incisione, Thunupa del saxofonista Piero Delle Monache.

T.M.R.: Piero è stato per me una bella scoperta, l'ho conosciuto circa un anno fa. È un grande saxofonista, la sua musica è semplice, e questo lo intendo come un grande pregio. È molto interessante il modo in cui riesce a conniugare la tradizione con cose più moderne.

AAJ: Delle Monache è uno dei migliori giovani in circolazione. Come vedi i giovani musicisti? È idea diffusa che abbiamo molta tecnica, ma poco da esprimere.

T.M.R.: Non conosco tutti i musicisti giovani, non posso esprimere un'idea precisa. Ho ascoltato qualcuno e in effetti quello che appare è molta padronanza dello strumento, ma alcuni hanno solo questo, mi sembrano un po' superficiali. Con questo non voglio generalizzare. Per esempio a Milano c'è Nicolò Ricci, un tenorista del quale sentiremo parlare, che anno dopo anno sta migliorando in maniera decisa.

AAJ: Ci sono interessi extra-musicali che influenzano il tuo modo di suonare o di intendere la musica in genere?

T.M.R.: Ne ho tantissimi, dalla letteratura ai saggi di storia, il vino, la cucina, il calcio, mi piace tantissimo vedere le partite dal vivo. Mi piace l'arte in genere e forse incosciamente in qualche modo tutto questo incide.

AAJ: Tra le tua attività ti occupi anche di articoli giornalistici che riguardano la musica.

T.M.R.: Sì per Ticino Sette, che è un allegato del venerdì del Corriere del Ticino. Scrivo degli articoli di musica. Parlo di musica brasiliana, che è una mia grande passione, e alterno alcuni scritti sul jazz. Lo faccio senza pretese, cerco di comunicare le cose che so alle persone, sperando che qualcuno si appassioni a questa musica. Ultimamente ho scritto un pezzo sul brano "Over the Rainbow," su Art Pepper, João Gilberto e altri, cercando di comunicare le emozioni che questi musicisti emanano. Il mio riferimento, dal punto di vista critico, è François Truffaut, che ha scitto il libro Il piacere degli occhi, nel quale parla di tutti i registi che lo hanno in qualche modo influenzato. Lui è pazzesco, perché trova il modo di descrivere in maniara originale questi personaggi e ti fa venire voglia di andarti a vedere i film che argomenta. È quello che vorrei fare anche io: mi piacerebbe che qualcuno si andasse a comprare un disco di un musicista che descrivo.

AAJ: Cosa c'è scritto sulla tua agenda musicale?

T.M.R.: A gennaio faremo un tour promozionale con Dimitri. Poi ho messo insieme un quartetto a mio nome, che per adesso è un work in progress con dei musicisti di Milano: Massimo Pintori alla batteria; Marco Fior alla tromba; Francesco Bianchi ai sassofoni. Suoniamo senza pianoforte, una scelta ben precisa, e per il momento stiamo provando degli standard poco conosciuti (qualcuno lo canto) e dei brani di Ornette Coleman. È un modo per rodare il suono del gruppo per poi poter intraprendere una strada più libera, magari dei brani miei. Vedremo, tengo molto a questa situazione. Inoltre ho un duo con mia moglie, Francesca Ajmar, è una cantante italiana che canta musica brasiliana. Vorrei registrare qualcosa con lei appena possibile.

Foto di Claudio Casanova (la prima, la quarta e la quinta) e Danilo Codazzi (la seconda e la terza - tratte dalla galleria dedicata al concerto di Dimitri Grechi Espinoza - Tito Mangialajo Rantzer).

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