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Albert Marcoeur
ByChiusura d’eccezione della stagione concertistica dell’Area Sismica di Forlì con lo spettacolo di Albert Marcoeur.
Il nome di Marcoeur è poco noto in Italia, al di là di una ristretta cerchia di fedeli appassionati. Eppure la sua carriera musicale è ultra-trentennale (il suo primo album risale al 1974). Invece, per lui, quella del 14 aprile è stata la prima - e per ora anche unica - data italiana di tutta la sua carriera. E se non fosse stato per la tenace volontà degli animatori dell’Area Sismica, non ci sarebbe stata neppure questa.
Lo spettacolo che ha presentato s’intitolava L’, come l’album del 2005 da cui proveniva la maggior parte del materiale, oltre ad una manciata d’incursioni nei due album precedenti. Il concerto è stato preceduto dalla proiezione del corto di animazione Bus 24 di Guy Billout, realizzato nel 2006 e per il quale Marcoeur ha composto le musiche.
Con Marcoeur si tratta di “canzoni”, anche se un ascoltatore medio stenterebbe a chiamarle tali. E Marcoeur è in fin dei conti un “cantautore”, in più uno che attribuisce un valore particolare e specifico all’espressività dello spettacolo dal vivo, in quanto per lui non si tratta solo di musica, ma sono parimenti importanti anche l’aspetto visivo, la gestualità, l’interpretazione dei testi, l’uso della voce e in qualche caso del monologo, la scenografia; insomma, per farla breve, la dimensione teatrale. E in questo, ovviamente, ha alle spalle una ricca tradizione francese, carica di nomi “pesanti” su cui svetta forse quello di Brel.
Anche per la musica e per l’interpretazione vocale si sentono le tracce lasciate dalla tradizione cantautorale francese. Per esempio, il riff chitarristico di “Cerimonie de cloture” fa pensare a un ipotetico Gainzbourg nel suo periodo più beat-rock.
Ma ovviamente non ci si ferma qui. C’è un po’ tutta la storia del rock “alternativo” francese; ci sono le tracce del rock sperimentale e complesso degli anni ’70 (Rock in opposition), come quelle del rock obliquo underground e un po’ acido degli anni ’80 o’90.
La musica spesso è apparentemente semplice, fatta di cellule tematiche, ritmiche e armoniche circolari che si ripetono; ma sotto la superficie, è evidente il lavoro di cesellatura e d’incastri fatto negli arrangiamenti, le articolazioni asimmetriche dei ritmi, le micro-variazioni, o le transizioni da una “cellula” all’altra.
Dal punto di vista compositivo, sembra che nei brani, più che la struttura della forma-canzone, si segua una sorta di progressione “per immagini” o “per scene”: un po’ come passare da un quadro all’altro di un’esposizione, o da una scena all’altra di uno spettacolo teatrale, cosa di cui in effetti, almeno in parte, si tratta.
Soprattutto dopo l’ingresso nel 2005 di Eric Thomas (chitarra elettrica, tastiere e campionatori) in formazione, c’è un uso esteso del campionamento, a volte forse anche con intento ironico e dissacrante sulla questione del plagio o del saccheggiamento del materiale musicale del passato nell’ottica postmoderna (“L’empronteur”). I campioni vengono spesso suonati al contrario e stratificati, formando un fondale sonoro su cui si integrano gli strumenti live.
I testi di Marcoeur dipingono spesso anonimi personaggi, alle prese con insignificanti momenti della vita quotidiana, ma dietro questa anonima banalità si nascondono spesso le inquietudini, i disagi esistenziali e l’incapacità di comunicazione della nostra epoca e società (“C'est pas l'moment”), le nostre nevrosi e manie, come la paura d’invecchiare (“Cerimonie de cloture”) o la disgregazione sociale causata dalla politica dei governi (“L'RMIste”). Ci sono anche momenti di satira più graffiante verso l’insensibilità di una società preoccupata solo dal mantenimento del proprio ritmo di vita (“L’exemple type”), oppure una spietata e desolante descrizione di una vita - che è poi quella di tante persone (di tutti?) -trascorsa nell’attesa infinita di innumerevoli grandi e piccole cose, eventi, gioie e soddisfazioni, trascorsa insomma ad attendere inutilmente la vita stessa, anziché viverla (“L’inexorable attente”).
In tutto ciò è costantemente presente una vena di scrittura surreale e un po’ stralunata, il gioco linguistico e a volte anche il gusto per il non-sense (come nella licenziosa “Eddie”, che non sarebbe dispiaciuta a Zappa e forse neanche al nostrano Elio...), sul cui coro trionfale cantato all’unisono dai musicisti (che si chiedono come faccia il signor Eddie, alla sua età, a fare ancora sesso e a riuscire a rialzarsi quando ha finito) si chiude lo spettacolo.
Foto di Claudio Casanova Ulteriori immagini tratte da questo concerto sono disponibili nella galleria immagini
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