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10 anni... Auandati
ByIn dieci anni di attività, la Auand Records si è distinta nel panorama delle etichette di jazz indipendenti per una visione cosmopolita del jazz che ha contribuito al fermento creativo di molti nuovi talenti della scena italiana, spesso incoraggiandone sinergie con le menti più stimolanti del downtown newyorchese. Il tutto caratterizzato da una cura particolare per la qualità delle produzioni e la veste grafica di tutti i titoli in catalogo.
In occasione del decennale dell'etichetta e a poche settimane del festival newyorchese ad essa dedicato, abbiamo incontrato il patron della Auand, Marco Valente.
All About Jazz: Come nasce la tua passione per la musica ?
Marco Valente: Sono cresciuto in una casa senza impianto hi-fi, solo un giradischi infilato in un mobile del salotto, per me inaccessibile. I miei avevano una decina di dischi, per lo più inascoltabili. Nonostante ciò, mi hanno mandato a lezione di pianoforte (abortite) finché non ho chiesto di passare alla chitarra (ma con un insegnante terribile!). Poi, a 13 anni, ho avuto la mia prima audiocassetta da un amico che lavorava in radio. La ricordo ancora oggi. Dentro c'erano Yes, Queen, Led Zeppelin, Rolling Stones... Per ascoltarla dovevo chiedere in prestito un walkman, fino a quando non sono riuscito a comprarne uno tutto mio (110.000 lire!). Nel frattempo, era in atto il mio primo ed unico sciopero della fame per ottenere un impianto hi-fi. Fu così che mio padre decise di prenderne uno. Era il 1985-86 e uno dei primi dischi che ebbi in regalo fu The Dream of the Blue Turtles di Sting con Branford Marsalis, Kenny Kirkland, Darryl Jones e Omar Hakim. In particolare, era il brano "Shadows in the Rain" che colpì la mia attenzione. Era quello che cercavo, quel suono lì.
AAJ: Una sorta di premonizione...
M.V.: Sì, ma fu solo nel 1987 che venni a contatto con il jazz vero e proprio. Era luglio, e Dexter Gordon suonò a Bari (era il tour che seguiva l'uscita del film di Tavernier "'Round Midnight"). Poi ad agosto scoprii Michael Brecker in un negozio di dischi di Londra. È partito tutto così. Iniziai a comprare e divorare CD di jazz e dopo pochi anni, mi iscrissi ad una scuola di musica per imparare a suonare il contrabbasso (al quale avrei poi preferito il vibrafono). Non facevo altro che ascoltare, suonare, andare ai concerti, leggere riviste e libri di jazz. Una malattia che mi ha portato ad abbandonare l'università (sette esami di ingegneria elettronica) e a dedicarmi alla musica a tempo pieno. Prima come musicista, poi come operatore, grazie ai siti ijm.it e jazzos.com (tutt'ora un punto di riferimento per gli appassionati).
AAJ: Da qui all'idea di diventare produttore il passo è stato breve...
M.V.: L'idea di produrre dischi forse era dentro di me da tanto. Aspettavo solo il momento giusto per iniziare, che è arrivato nel 2001 quando Gianluca Petrella ha deciso di affidarsi a me per X-Ray, il suo album di esordio. La scelta del nome Auand fu fatta con il grafico Cesco Monti scrivendo una settantina di possibili nomi su un foglio di carta. Quella lista fu poi limata e sottoposta a due amici di stanza a New York perché volevo che il nome suonasse bene anche oltreoceano (uno dei due era David Binney).
AAJ: Che significa Auand?
M.V.: In dialetto barese vuol dire "prendi" ma viene usato anche per dire "attenzione!" (esclamativo).
AAJ: E così è iniziata l'avventura Auand Records...
M.V.: Dopo il disco di Petrella, registrato a Cavalicco da Stefano Amerio grazie ad un prestito di pochi milioni di vecchie lire, non sapevo bene come continuare e presi una pausa di riflessione. Un anno dopo conobbi Francesco Bearzatti e mi convinse a rimettermi in moto con il suo gruppo denominato Bizart. Quando lo vidi arrivare con un lungo cappotto di pelle nera pensai che forse mi stavo cacciando in un brutto guaio! Invece Virus, il suo album, fu un successo pari a quello di X-Ray. Petrella e Bearzatti vinsero entrambi il Top Jazz come miglior talento pochi mesi dopo l'uscita di quei dischi. Con artisti quali Paul Rogers, Xavier Girotto, Emmanuel Bex, Aldo Romano e Michel Godard, Auand era partita con quel taglio internazionale che avevo in mente.
AAJ: Poi nel 2004 con David Binney è arrivata la prima collaborazione con la scena newyorkese. Come è avvenuto il contatto?
M.V.: I primi contatti con la scena newyorkese sono avvenuti via internet. Binney l'ho conosciuto via mail e, come detto, è stato d'aiuto per la scelta del nome. Poi ovviamente ci siamo incontrati sia a New York sia in Italia. È stato in Puglia diverse volte per concerti ma anche solo per vacanza. Tramite lui ho conosciuto Dan Weiss, Thomas Morgan e Jacob Sacks, allora giovanissimi e già assolutamente geniali. E mi hanno messo in contatto con Ohad Talmor, Miles Okazaki, Donny McCaslin, Eivind Opsvik e tantissimi altri musicisti. Avere in catalogo alcuni di loro è per me un grande onore. Negli anni successivi ci furono altri tre Top Jazz, e precisamente con il pianista cremonese Giancarlo Tossani, il trombettista di origine vietnamita Cuong Vu e il chitarrista Roberto Cecchetto a collaborazioni importanti con Enrico Enrico Rava, Hamid Drake, Julian Arguelles, Jim Black, Bill Frisell, Bobby Previte, Steve Swallow, Tim Berne... Tutto questo senza mai perdere di vista i talenti nazionali, il punto forte di Auand: da Gaetano Partipilo ad Andrea Ayace Ayassot, da 3quietmen a Francesco Diodati, da Gabrio Baldacci a Walter Beltrami.
AAJ: Un bel peso da reggere sulle proprie spalle...
M.V.: Purtroppo o per fortuna Auand non ha una squadra alle spalle. Mi occupo da sempre di tutto, dallo scouting alla produzione esecutiva, dal marketing all'ufficio stampa, dal magazzino alla fatturazione. Con tutti i limiti che ne derivano. Finora non ho avuto alternative ma sogno il giorno in cui un ragazzo di vent'anni con la passione per la musica di qualità venga a citofonare e chiedermi di salire per darmi una mano e condividere con me fatiche e piaceri.
AAJ: Quali sono i dischi che hanno ottenuto il maggior consenso, sia a livello commerciale che di critica, del vostro catalogo? Perché a tuo avviso?
M.V.: Sicuramente i primi, da X-Ray di Petrella fino al 2006/2007. Poi le vendite, per tutti, sono calate. A livello di critica non ricordo stroncature. Anzi, ne ricordo una proprio su All About Jazz Italia [ride] ma per un disco che è stato forse tra i più acclamati ovunque!
AAJ: Qualcuno, a suo tempo, ti aveva sconsigliato di fondare una label?
M.V.: No. All'epoca il jazz vendeva poco ma la crisi non era affatto nell'aria e c'erano anche poche etichette sul mercato. Anzi, siamo stati accolti positivamente da molti operatori.
AAJ: Oggi fonderesti un'etichetta discografica?
M.V.: Assolutamente sì. Ma dopo aver vinto il Superenalotto!
AAJ: E per quanto concerne la distribuzione?
M.V.: La distribuzione è sempre stato un problema per la discografia di nicchia. All'inizio mi sono creato una piccola rete internazionale ma buona parte degli interlocutori non pagavano o lo facevano dopo mille richieste. Poi mi sono affidato ad un distributore che curava l'export ma i risultati non sono stati dei migliori. Nel frattempo il CD ha preso un "capabbascio" come si dice da noi, una inesorabile decrescita al punto da rendere la rete distributiva poco influente sull'economia dell'azienda. D'altro canto hanno provato a convincerci che la distribuzione digitale avrebbe sostituito gli introiti della distribuzione tradizionale ma questo è avvenuto solo in minima parte. Per anni ho evitato il download digitale per mia personale avversione. Dall'estate del 2011 anche Auand è disponibile sulle maggiori piattaforme. Non per una questione economica (non credo affatto sia una formula vincente) ma per esserci, per rendere visibili i nostri artisti alla comunità internazionale e (me lo auguro) ad un nuovo potenziale pubblico.
AAJ: In questi dieci anni la fruizione e la circolazione della musica ha subito cambiamenti epocali. Quali sono stati i momenti più difficili?
M.V.: Questi ultimi due anni direi... le vendite sono in netto calo eppure la mia fame di musica e la voglia di produrre dischi non è calata minimamente!
AAJ: Quale è stato l'errore più grande fatto dalle major in questi anni? Quale, se c'è stato, quello commesso dalla Auand?
M.V.: Non aver saputo pensare ad un sistema distributivo capillare, diffuso, che potesse funzionare meglio e a costi minori. Far arrivare un disco al cliente ad un prezzo vicino ai 20 euro di cui solo un quarto arriva al produttore (e ancora meno al musicista) credo sia il vero problema di questo mercato. Se i dischi costassero meno la gente li preferirebbe agli MP3, ne sono certo. Auand, ha fatto certamente degli errori, ma la maggior parte erano inevitabili oppure legati a scelte filosofiche. Ad esempio, non ho mai messo musicisti sotto contratto costringendoli a stare per forza con Auand. Ma si tratta di una scelta precisa e non di un errore.
AAJ: Ha senso parlare di ritorno al vinile? C'è chi sostiene che sarà l'unico supporto che sopravviverà, magari abbinato a un codice per il download.
M.V.: Me lo chiedo anche io. Secondo me non ci sono i numeri per parlare di un mercato sostenibile. Ho pensato più volte di ristampare alcuni titoli ma credo che la tiratura sarebbe così bassa da richiedere prezzi al pubblico troppo elevati.
AAJ: In che modo pensi di agire nei prossimi anni per contrastare il download illegale?
M.V.: Da solo non posso fare nulla. La pirateria deve contrastarla chi ha i mezzi per farlo. Credo che, con le tecnologie attuali, non sia affatto difficile porre un freno al fenomeno. I provider hanno accesso a tutto ciò che serve per agire in maniera decisa. Evidentemente non c'è questa volontà. Ma le cose incomprensibili che succedono nel mondo sono troppe!
AAJ: Auand ha sempre avuto particolare attenzione per il packaging, distinguendosi per uno stile moderno che risulta immediatamente riconoscibile senza però condurre alla perdita di individualità nelle copertine dei vari dischi.
M.V.: I primi cinque titoli in catalogo furono stampati in digifile cartonato (quello senza vassoietto, con il dischetto infilato nella copertina). La prima stampa di X-Ray fu fatta a colori con il retro bianco anziché nero (direi una chicca per collezionisti!). Poi venne il digipack a tre ante con vassoietto trasparente centrale. Solo da poco, in occasione del decennale, ho abbandonato quel formato per un più classico jewelbox e per copertine a colori con effetto "Lomo" (saturazione dei colori). Il bianco e nero che ha caratterizzato le prime ventidue copertine non rispecchiava più la linea artistica dell'etichetta.
AAJ: "Compie dieci anni e cambia pelle" è il vostro attuale slogan promozionale. Quali sono i cambiamenti di cui si parla?
M.V.: Si riferisce proprio al cambio di direzione grafica a cui accennavo. La decisione era nell'aria da diverso tempo, le ultime produzioni hanno un taglio che poco si sposa con l'immagine in bianco e nero.
AAJ: Di recente avete introdotto nel catalogo la "piano series," ce ne vuoi parlare? Quale è la necessità di avere una collana che si concentra su uno strumento in particolare? Ce ne saranno altre dedicate ad altri stumenti?
M.V.: Da quando ho iniziato l'esperienza di Auand ho ricevuto diversi demo di piano trio, una formazione che mi è sempre piaciuta in tutte le sue sfaccettature (da Bill Evans ai Meseski, Martin & Wood, da Paul Bley a Keith Jarrett, dai Bad Plus a Brad Mehldau...). Ogni volta però non mi sembrava il caso di accettare le varie proposte in quanto poco in linea con la direzione artistica intrapresa. Ad un certo punto, ho deciso di aprire una collana specifica per dar voce a questo mio lato nascosto. Non credo proprio ci saranno altre collane.
AAJ: Cosa comporta gestire da solo un etichetta come Auand nel mercato discografico attuale ?
M.V.: Gestire un'etichetta di nicchia oggi, dal punto di vista del business, non ha molto senso se non quello di perseguire i propri ideali e la propria passione. Gli sforzi non sono giustificati o, per lo meno, gratificanti. Ma riesco ancora a prendermi qualche soddisfazione trovandomi in studio o in tour con alcuni dei miei musicisti preferiti, artisti dei quali ho comprato tutti i dischi in passato. E poi un'altra grande soddisfazione sta per avverarsi. A novembre festeggeremo il decennale di Auand a New York con una serie di concerti, coinvolgendo alcuni dei più interessanti club della Grande Mela e molti dei musicisti che hanno pubblicato lavori per la mia etichetta. La scelta di festeggiare a New York non è affatto casuale, con la scena downtown c'è sempre stato un certo feeling!
AAJ: Qual è il tuo approccio alle sedute di registrazione? Varia a seconda dei musicisti coinvolti?
M.V.: Sì, per svariati motivi. Alcuni dischi arrivano sulla mia scrivania belli e pronti, cosa che generalmente non preferisco. Quando posso, invece, preferisco pianificare e partecipare alla seduta di registrazione, dove in realtà intervengo pochissimo. Mi piace lasciare carta bianca ai musicisti. Parlo solo se necessario e se mi viene chiesto. Essere lì però ha un valore aggiunto. Si fa squadra.
AAJ: Quanto contano i rapporti umani con i musicisti e come ti relazioni con loro?
M.V.: Il rapporto umano è tutto. Se non c'è stima e fiducia reciproche non vale neanche la pena iniziare a parlare di una collaborazione. Certe volte è logisticamente improbabile ma, quando posso, preferisco incontrare i musicisti con cui intendo collaborare, parlare, prendere una birra insieme... Magari li invito a fare un bagno al mare in Puglia. Senza questi aspetti rimarrebbe solo un cumulo di uni e zeri stampati su un dischetto di plastica.
AAJ: Hai un episodio, un avvenimento particolare legato all'etichetta di cui vai particolarmente fiero?
M.V.: Gli episodi di cui vado fiero ve li racconterò quando festeggerò il ventennale. Ogni giorno sono contento di quello che faccio, anche se lo faccio con molta fatica.
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