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Vicenza Jazz 2013

Vicenza Jazz New Conversations

10 -18 maggio

Quest'anno il sottotitolo programmatico di Vicenza Jazz New Conversations, festival giunto alla diciottesima edizione, era "Nel fuoco dei mari dell'Ovest - West Coast and the Spanish Tinge"; tematiche che però sono state in buona parte disattese, trovando solo una parziale e debole traduzione dimostrativa in alcune delle proposte musicali presentate.

Ma è così indispensabile un tema di fondo e l'attinenza forzosa ad esso?

Nella realtà dei fatti il cartellone ha vagato fra i gruppi e i nomi stilisticamente più eterogenei, fra opportuni recuperi e nuove esperienze, fra purismo jazzistico e commistione fra generi diversi, documentando appunto la varietà di tradizioni, approcci, incroci e idee che oggi convivono nella galassia del jazz. La qualità musicale di una parte di queste presenze è stata comunque elevata ed equilibrato il rapporto fra le proposte statunitensi e quelle italiane, con un'attenzione forse non adeguata ad altre espressioni della creatività europea.

Il festival si è aperto il 10 maggio al Teatro Olimpico con l'appuntamento di maggior richiamo per gli addetti ai lavori: il quintetto Henry Threadgill & Zooid, che ha ormai raggiunto una definitiva connotazione di classicità. Dopo essere stato infatti un vero innovatore, un inventore di un linguaggio personale, imponendosi fra gli anni Settanta e Ottanta come uno dei più validi esponenti della sperimentazione afroamericana, come tutti i maestri oggi Threadgill non può che replicarsi uguale a se stesso.

Innanzi tutto la strumentazione del gruppo, insolita a livello generale, è risultata tipica della concezione musicale del sassofonista: la tuba e il trombone di Jose Davila, la chitarra di Liberty Ellman, il violoncello di Christopher Hoffman e la batteria di Elliot Kavee. Fra i variati impasti timbrici creati da questa formazione dall'impronta cameristica, particolarmente efficace, nel disegnare l'incedere circospetto dei temi, è parso quello fra le note staccate e cristalline della chitarra e il bordone fosco e soffuso prodotto dalla tuba, mentre la batteria ha tramato un sottofondo connettivo abbastanza continuo e appartato e il violoncello ha aggiunto colori e sfumature cangianti. A ben vedere questo accostamento cromatico fra toni brillanti e scuri è sempre stata una caratteristica della musica di Thredgill.

Le strutture dei brani poi, tenute sempre sotto controllo, in continua tensione, si sono sviluppate secondo lente progressioni fino a raggiungere fasi più estroverse e movimentate e chiusure imprevedibili di lapidaria e nitida precisione. Musica d'autore dunque, in cui composizione e improvvisazione vengono a compenetrarsi intimamente in una dimensione sempre collettiva, con gli assoli misurati, anche quelli frammentati del leader, che acquisiscono un senso solo in quanto si fondono con il contesto.

Nella seconda parte della serata, sul palco dell'Olimpico si è esibito il trio pressoché inedito formato da Bob Mintzer, John Abercrombie e Miroslav Vitous: un supertrio quindi di forti personalità con lunghe, prestigiose carriere alle spalle. Inizialmente l'accostamento con il gruppo di Threadgill è risultato meno discordante del previsto: i tre hanno saputo infatti innescare un'atmosfera suggestiva, in cui lunghe fasi di improvvisazione collettiva, attenta e pensosa, sono sfociate nei temi dalle linee melodiche insinuanti ed anche le caratterizzate pronunce solistiche dei singoli si sono ben integrate nell'insieme.

La rilassata coerenza che avrebbe potuto caratterizzare la loro prova è stata però compromessa dalla sonorità dell'archetto di Vitous, che a tratti ha debordato in modo innaturale e stridente, e dalla riproposizione nel finale di qualche standard ("Stella By Starlight," "My One and Only Love"...) esposto con piglio troppo esplicito e risaputo. Peccato che questi due aspetti abbiano banalizzato una performance che, soprattutto nel primo lungo brano, aveva fatto intravvedere un magico interplay.

Due sere dopo, nella medesima, impareggiabile cornice del Teatro Olimpico, l'interplay non è invece mai venuto meno, classico e tesissimo, pieno d'idee, nel nuovo quartetto di Gary Burton, attivo dal 2010 e autore del pregevole Common Ground. D'altra parte il settantenne vibrafonista, innovatore oltre quarant'anni fa dell'approccio al suo strumento ed apparso in ottima forma fisica, era attorniato da veri fuoriclasse: Scott Colley al contrabbasso, Antonio Sanchez alla batteria e il chitarrista Julian Lage, dotato di un fraseggio limpido e immaginifico al tempo stesso, responsabile anche di un convincente brano solitario.

Passando da famosi standard (l'iniziale e trascinante "Afro Blue" di Mongo Santamaria, un "My Funny Valentine" forse non indispensabile...) a propri original ben congegnati, questo quartetto di forti personalità, pilotato con mano leggera dalle sonorità avvolgenti e riverberanti delle bacchette di Burton, ha saputo coniugare virtuosismo tecnico e grande partecipazione emotiva.

Come dimostra anche il CD Live at the Village Vanguard (Cam Jazz, 2013), Enrico Pieranunzi negli ultimi anni sembra essere approdato ad una maturità espressiva invidiabile, ad una rifinitura formale affermativa e pacificata, che prende in parte le distanze da quella poetica introspezione che caratterizzava il suo pianismo in certi periodi dei decenni passati. Al Teatro Comunale di Vicenza il repertorio, formato prevalentemente da suoi original recenti o meno (solo uno standard è stato incluso: "Yesterdays" di Kern, in un proprio, movimentato arrangiamento), si è concluso con "Fellini's Waltz".

La maggior parte di questi brani ha mantenuto in parte una certa dimensione intimista e meditabonda, acquistando nel contempo una serenità di fondo, un piglio ora danzante ora di incisiva sicurezza. Il pianista romano, che nella sua carriera ha avuto modo di essere affiancato da mitici collaboratori americani, è stato sostenuto in modo encomiabile da Luca Bulgarelli al contrabbasso e Mauro Beggio alla batteria.

Ancora un trio, ma con il sax al posto del piano, è salito sul palco dopo l'intervallo, quello dei We Three, formato da Dave Liebman, Steve Swallow, Adam Nussbaum. I tre americani, che si frequentano da oltre quarant'anni, non hanno saputo sprigionare la fusione e la magia che era lecito aspettarsi. Certo la morbida sonorità e le cadenze impeccabili del bassista rimangono uniche, il drumming di Nussbaum sempre energico, quasi fin troppo incalzante, l'emissione dei sax di Liebman comunque personale e volitiva, anche se nella prima parte del concerto egli è apparso scontrosamente insoddisfatto dell'amplificazione. Nel complesso però la performance è risultata frammentaria e discontinua, alternando momenti risaputi, di demotivata routine ed altri di indubbia maestria e densa espressività.

La serata dedicata intenzionalmente alle avanguardie di ieri e di oggi ha accostato il quartetto di Pharoah Sanders e il duo Gianluca Petrella-Giovanni Guidi. Quest'ultimo, piuttosto attivo nell'ultimo anno, si è confermato come una delle realtà più compatte e stimolanti dell'attuale scena italiana. Il repertorio ha interpolato propri original ormai noti, dall'impronta melodica ben marcata, canti di protesta politica, un paio di standard, per concludersi con l'ormai immancabile omaggio ai Brotherhood of Breath, proposto come breve bis.

Il duo funziona per la qualità melodica dei temi e degli sviluppi improvvisativi, per la coesione dell'interplay che si regge su una modulata alternanza dei ruoli, ma anche per le intrinseche qualità dei singoli strumentisti. Il trombonista barese è un mattatore naturale, risoluto e umorale, dalla voce stentorea, grufolante e increspata, ma anche il pianista di Foligno, talvolta più appartato, impegnato a definire il contesto armonico e ritmico, ha modo di esporsi come solista dal mondo poetico oscillante fra delicate e cristalline enunciazioni sul registro acuto e veloci scorribande free a tutta tastiera di grande efficacia.

Nel presentare Pharoah Sanders, il direttore artistico del festival, Riccardo Brazzale, ha giustamente sottolineato che il tenorista americano (che non ha raggiunto ancora una veneranda età, tanto è vero che il nostro vitalissimo Enrico Rava è più anziano di lui di un anno) da sempre viene associato nell'immaginario dei jazz fans ad una certa stagione del jazz, alla giovanile collaborazione con Coltrane alla metà degli anni Sessanta, nonostante che da allora egli abbia sviluppato una carriera personale e variegata. Ed infatti il primo brano del concerto, "Welcome," si è rivelato un omaggio al Coltrane mistico, mentre verso la fine è comparsa un'interpretazione di "My Favorite Things".

Le versioni di questi due brani del repertorio coltraniano, decantate e nostalgiche, sull'ampia, reiterata e avvolgente base modale tramata dai partner, hanno incorniciato un concerto che per i restanti brani è rientrato in una "correttezza" più canonica, quasi mainsteam. La pronuncia del sassofonista, che da decenni è del tutto esente da quelle impennate esasperate e liberatorie che caratterizzavano i suoi esordi, si è presentata statica, pacata, dal fraseggio staccato, senza particolari vibrazioni liriche. Molto spazio è stato concesso ai partner, che lo hanno saputo riempire con concretezza.

Una serata anomala, a dimostrazione del fatto che le New Conversations vicentine propugnano un'indagine a tutto campo, è stata quella all'Olimpico tutta dedicata alla convivenza più o meno fertile fra musica classica ed interpreti provenienti da altri ambiti musicali. Un repertorio tutto settecentesco è stato affrontato da Enrico Pieranunzi, che dapprima, assieme all'Orchestra del Teatro Olimpico diretta da Giuseppe Acquaviva, ha eseguito il Concerto in fa minore BWV 1056 di Johann Sebastian Bach e il Concerto n. 5 in do minore di Baldessarre Galuppi. A queste interpretazioni non del tutto convincenti, forse troppo timorose e scolastiche, è stato di gran lunga preferibile lo Scarlatti immaginifico e brioso, indubbiamente trascinante, liberamente reinterpretato in solitudine dal pianista romano: risultato della dimestichezza raggiunta con un materiale musicale affrontato e metabolizzato da anni.

Ha fatto seguito un set solitario del chitarrista Pedro Javier Gonzàles, la cui leggerezza e velocità di diteggiatura ha dato una versione autentica e personale nello stesso tempo di quello Spanish Tinge che costituiva uno degli approcci musicali sottolineati dal sottotitolo del festival. La successiva riproposizione del famoso Concierto de Aranjuez di Joaquì Rodrigo per chitarra e orchestra non è stata del tutto esente da una certa pesantezza, che non ha saputo esaltare il solare esotismo insito nella composizione.

La programmazione al Jazz Café Trivellato Bar Borsa, sotto le possenti volte della Basilica Palladiana, ha costituito quasi un festival parallelo: l'affollamento di un pubblico conviviale e soprattutto l'inevitabile sovrapposizione d'orario con i concerti in teatro ne hanno reso difficoltosa, certe sere impossibile, la fruizione. Peccato perché alcune delle proposte documentavano la più interessante ricerca jazzistica di oggi.

Come già nelle edizioni discografiche della Winter & Winter, il Jim Black & AlasNoAxis, ridotto a trio per l'assenza di Skuli Sverrisson (quindi rimanevano Chris Speed e il chitarrista Hilmar Jensson ad affiancare il leader), ha presentato composizioni un po' claustrofobiche, per lo più su ritmi frenetici, ma con aperture distese, cambi di direzione improvvisi, frasi brucianti e sviluppi improvvisativi conseguenti.

L'uso della batteria da parte di Black si è rivelata come sempre la categorica e strutturante spina dorsale della musica; tutto sommato la sua funzione non è dissimile da quella sostenuta circa mezzo secolo fa da Max Roach, differenziandosi ovviamente in modo netto per il sound, le metriche e il senso melodico. I partner erano in evidente sintonia con le intenzioni del leader, soprattutto Speed, sassofonista dalla sonorità afona e nasale, dal fraseggio obliquo e sorvegliato anche quando dà corpo ad evoluzioni più infervorate.

La sera precedente si era esibito l'Istanbul Session, formazione diretta dal sassofonista Ilhan Ersahin, che non disdegna l'originaria cultura turca anche se nato in Svezia e residente a New York. Una mezz'ora di ascolto mi ha convinto del forte impatto della proposta, che mi ha ricordato la musica dei The Ex integrati dal sassofonista etiope Mekuria: le stesse ossessioni tematiche e ritmiche, lo stesso connubio fra il retroterra culturale etnico e l'odierna radicalità dell'emissione sonora, lo stesso rapporto fra le reiterazioni melodiche e scandite del tenore del leader e la frenetica base ritmica, ma con una compattezza tribale e un volume di amplificazione perfino maggiori. La mancanza della prevista tromba di Erik Truffaz, lasciando solo il sax a svettare sulla base ritmica di basso elettrico, batteria e percussioni, ha probabilmente accentuato questo carattere di univoca, granitica compattezza.

Le variabili condizioni atmosferiche, che hanno tormentato gli ultimi giorni del festival (tanto che si è temuto che il concerto conclusivo del quintetto di Enrico Rava dovesse traslocare dal Teatro Olimpico per il rischio di esondazione del Bacchiglione), hanno invece graziato lo spettacolo gratuito che la sera di sabato 11 ha fatto gremire la Piazza dei Signori da un pubblico di tutte le età. Gli intramontabili Earth Wind and Fire hanno profuso un funk-pop superprofessionale e roboante, dalla estroversione di taglia XXL, con soddisfazione di tutti, organizzatori e spettatori.

Foto di Marina Mozzato.

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