Home » Articoli » Live Review » Uri Caine al Teatro di Rifredi di Firenze
Uri Caine al Teatro di Rifredi di Firenze
Firenze
It's Monk Time -Musica dei Popoli
Teatro di Rifredi
6.11.2017
Erano tre anni che Uri Caine mancava da Firenze e anche l'ultima volta si era trattato di un piano solo, formula che gli è particolarmente congeniale e grazie alla quale ci ha regalato molte performances entusiasmanti. Questa nuova occasione fiorentina era poi particolarmente interessante, perché dedicata a celebrare il centenario della nascita di Thelonious Monk, prima parte di un doppio appuntamento -It's Monk Time, nella cornice di Musica dei Popoli -che si completerà tra un mese con un analogo concerto in solo di Franco D'Andrea.
E, infatti, il pubblico non mancava al Teatro di Rifredi, location un po' trascurata dagli organizzatori fiorentini ma invece adattissima al tipo di concerto. Il pianista di Philadelphia, com'è uso fare, ha esordito senza preamboli: un blues classicissimo, in parte percussivo -in stile Monk -in parte invece su rapidissimi fraseggi stride -nel proprio stile -dal quale a più riprese emergeva il tema di "Blue Monk"; poi, dopo cinque minuti, cambio improvviso di atmosfera ed eccoci in una notturna e classicheggiante versione di "'Round Midnight," che si è ampliata fino a includere ora fraseggi di derivazione ebraica, ora rapidi tambureggiamenti sulla tastiera, in un continuo mutare di stilemi -qui, però, restando sempre sul tema.
Dopo una decina di minuti, nuovo cambio di scena, senza alcuna soluzione di continuità, e si entra in "I Mean You," ancora una volta estremamente cangiante e trattata con la medesima cifra stilistica plurale: molto blues, fraseggi rapidissimi, efficaci percussioni, rallentamenti, e via continuando. Stavolta però la rielaborazione glissa verso altre direzioni, includendo musica originale, accenni classici che abbandonano quasi affatto il blues, in un percorso molto libero che ricorda (come modalità e non come stile) certe performances dal vivo di Keith Jarrett. E, paradossalmente, si tratta della parte più alta del concerto, perché Caine ha modo non solo di inventare maggiormente, piuttosto che di variare e interpretare, ma anche di essere più se stesso, non più vincolato dalle composizioni monkiane. Fino al nuovo cambio senza interruzioni, verso la mezz'ora di concerto, per entrare in una "I Mean You," trattata di nuovo al medesimo modo, stavolta senza troppe divagazioni, che si conclude in una breve pausa, che offre al pianista l'opportunità di dichiarare tutta la sua ammirazione per Monk.
Nella seconda parte altri temi monkiani, tra i quali "Ask Me Now" ed "Evidence," che ancora una volta si dissolvono prima in temi ed esplorazioni originali, poi nei meandri delle rivisitazioni mozartiane, la cui prossimità con la musica di Monk in verità sfuggiva un po.' Dopo una conclusione roboante in blues, gli spettatori hanno richiamato per ben due volte il pianista in scena, ripagati da due bis che hanno appena sfiorato Monk con labili citazioni, per culminare nientemeno che nel "Rondò alla turca" del genio di Salisburgo, la cui rivisitazione libera è uno dei cavalli di battaglia di Caine e che -ultima perla di un concerto sicuramente brillante, inventivo e virtuosistico -è servita come commiato da un pubblico in estasi.
È restata tuttavia ad alcuni una perplessità di fondo: quella relativa a un repertorio complesso e assai particolare, qual è quello monkiano, trattato più in superficie che nei suoi tratti più caratteristici, per giunta con stilemi cangianti, certo, ma anche di volta in volta strutturalmente sempre uguali. Cosa che, alla lunga, ha dato l'impressione di una sorta di montagna russa dell'improvvisazione sui temi, divertentissima e magistrale, certo, tuttavia un po' "leggera" e ripetitiva. Ma Uri Caine è questo, nel bene e nel male: brillante ed entusiasmante, costantemente in equilibrio sul crinale del kitsch, fatalmente perciò non sempre capace di evitare di scivolare un po' giù, lungo il versante più insidioso.
Foto (di repertorio): Dublin Jazz Photography