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Ran Blake al Teatro Manzoni di Milano
Ran Blake
Aperitivo in concerto
Teatro Manzoni
Milano
01.03.2015
Imbattersi nella musica di Ran Blake equivale a intraprendere un viaggio sorprendente nella sua arte, tanti e diversi sono gli stimoli, le sollecitazioni, i riferimenti ad altre forme espressive oltre a quella propriamente musicale. Ma altresì diventa momento di riflessione personale, un mettersi in prospettiva diversa per andare oltre le apparenze, scoprire cosa si cela dietro forme consolidate, vedere cosa succede quando si levano di torno sovrastrutture, convenzioni, certezze. Il processo con il quale Blake depura la musica, la rende essenziale e nel contempo prismatica, arricchita di molteplici significati, coinvolge inesorabilmente l'ascoltatore, non solo elemento passivo/ricettivo dell'evento ma a suo modo protagonista.
Non stupisce più di tanto quindi se nell'esibizione di un Teatro Manzoni al solito gremito, Blake combina Max Roach con Edith Piaf, Duke Ellington con Stevie Wonder, Nino Rota con la musica Yiddish. Il tutto illuminato dal suo stile unico influenzato dal blues come dal gospel, dalla classica come dal jazz, ma inimitabile nel combinare questi elementi attraverso tocchi quasi impercettibili, silenzi carichi di densità, sparuti ma decisivi cluster, linee pericolosamente in bilico tra tonalità e dissonanze. È musica giocata sui sussurri più che sulle grida ma non per questo meno intensa o penetrante.
Sul palco ad accompagnare Blake si succedono la violinista Eden MacAdam-Somer e il trombonista Aaron J. Hartley. Molto compassato e preciso, quest'ultimo risulta funzionale alla poetica del pianista senza per la verità incidere in maniera significativa sulle sue traiettorie. Decisamente esuberante ed eclettica Macadam-Somer, protagonista di una formidabile versione dell'ellingtoniana "Jump for Joy," una sorta di "one woman band" che l'ha vista contemporaneamente impegnata al violino, alla voce e in una danza percussiva a mo' di accompagnamento.
Ma è la sonorizzazione dei due filmati tratti da "La scala a chiocciola" di Robert Siodmak e da "Dr. Mabuse" di Fritz Lang il momento clou dell'esibizione. La prima, in piano solo, ha permesso di apprezzare appieno l'arte improvvisativa di Blake, la sua capacità di cogliere l'essenzialità delle immagini non solo come rinforzo espressivo ma come punto di partenza per ulteriori sviluppi del processo creativo che, pur tematicamente pertinente, si trasforma in cosa altra. Il secondo, con il trio al completo, ha esaltato le dinamiche, gli accostamenti timbrici, l'originalità degli arrangiamenti e delle combinazioni strumentali.
A concludere, una commovente, sospesa, cristallina interpretazione di "Lush Life," suggella un superbo concerto e celebra un artista tanto schivo e lontano dai riflettori quanto brillante d'idee, obliquamente innovativo, genialmente fuori dagli schemi.
Foto
Roberto Cifarelli.
Aperitivo in concerto
Teatro Manzoni
Milano
01.03.2015
Imbattersi nella musica di Ran Blake equivale a intraprendere un viaggio sorprendente nella sua arte, tanti e diversi sono gli stimoli, le sollecitazioni, i riferimenti ad altre forme espressive oltre a quella propriamente musicale. Ma altresì diventa momento di riflessione personale, un mettersi in prospettiva diversa per andare oltre le apparenze, scoprire cosa si cela dietro forme consolidate, vedere cosa succede quando si levano di torno sovrastrutture, convenzioni, certezze. Il processo con il quale Blake depura la musica, la rende essenziale e nel contempo prismatica, arricchita di molteplici significati, coinvolge inesorabilmente l'ascoltatore, non solo elemento passivo/ricettivo dell'evento ma a suo modo protagonista.
Non stupisce più di tanto quindi se nell'esibizione di un Teatro Manzoni al solito gremito, Blake combina Max Roach con Edith Piaf, Duke Ellington con Stevie Wonder, Nino Rota con la musica Yiddish. Il tutto illuminato dal suo stile unico influenzato dal blues come dal gospel, dalla classica come dal jazz, ma inimitabile nel combinare questi elementi attraverso tocchi quasi impercettibili, silenzi carichi di densità, sparuti ma decisivi cluster, linee pericolosamente in bilico tra tonalità e dissonanze. È musica giocata sui sussurri più che sulle grida ma non per questo meno intensa o penetrante.
Sul palco ad accompagnare Blake si succedono la violinista Eden MacAdam-Somer e il trombonista Aaron J. Hartley. Molto compassato e preciso, quest'ultimo risulta funzionale alla poetica del pianista senza per la verità incidere in maniera significativa sulle sue traiettorie. Decisamente esuberante ed eclettica Macadam-Somer, protagonista di una formidabile versione dell'ellingtoniana "Jump for Joy," una sorta di "one woman band" che l'ha vista contemporaneamente impegnata al violino, alla voce e in una danza percussiva a mo' di accompagnamento.
Ma è la sonorizzazione dei due filmati tratti da "La scala a chiocciola" di Robert Siodmak e da "Dr. Mabuse" di Fritz Lang il momento clou dell'esibizione. La prima, in piano solo, ha permesso di apprezzare appieno l'arte improvvisativa di Blake, la sua capacità di cogliere l'essenzialità delle immagini non solo come rinforzo espressivo ma come punto di partenza per ulteriori sviluppi del processo creativo che, pur tematicamente pertinente, si trasforma in cosa altra. Il secondo, con il trio al completo, ha esaltato le dinamiche, gli accostamenti timbrici, l'originalità degli arrangiamenti e delle combinazioni strumentali.
A concludere, una commovente, sospesa, cristallina interpretazione di "Lush Life," suggella un superbo concerto e celebra un artista tanto schivo e lontano dai riflettori quanto brillante d'idee, obliquamente innovativo, genialmente fuori dagli schemi.
Foto
Roberto Cifarelli.
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