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David Sylvian: Manafon

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David Sylvian: Manafon
Cosa è diventato David Sylvian? Un griot contemporaneo che canta sui rottami della musica moderna. O, forse, un apprendista stregone che ha isolato la dimensione temporale della musica, non più flusso, successione, ma serie finita di attimi.

Questo nuovo lavoro, registrato in giro per il mondo (Vienna, Tokio e Londra) dice essenzialmente una verità: la sua figura di elegante e raffinata rockstar (prima con i Japan, poi con una manciata di dischi ineguagliabili prodotti negli anni '80) è sepolta da una coltre spessa e irraggiungibile. Il processo ormai è irreversibile. Ora la sua espressività è come se soffocasse l'attesa: un po' come la canicola che strangola il silenzio nei giorni d'agosto.

La sua vocalità - sempre più protagonista, sempre più uno strumento a parte - si erge su scricchiolii, fruscii, bisbigli indistinti che sembrano testimonianze segrete di una intimità violata. I suoni si fanno impurità. Non aggiungono, sottraggono. Vampirizzano, dalle successione di note, tutta la melodia, atrofizzandone la musica. Abbiamo un disco fatto anche di "no-input mixer, live signal processing e laptop," non si dovrebbe pretendere di più.

Pochi sono gli esempi che sembrano lievemente sfuggire all'estetica atonale. Succede con l'iniziale "Small Metal Gods" o con la title track. Ma è solo un'impressione sviante.

I flussi sonori sono frammentati, tagliuzzati, incompleti. L'elettrostaticità sembra essere latente come un fiume sotterraneo. Il rumore ha una tensione dislessica ("Random Acts of Senseless Violence," "Snow White in Appalachia," "Emily Dickinson").

Sylvian ha creato (con lui, tra gli altri, Christian Fennesz, John Tilbury, Evan Parker) un disco di non-senso, una immutabile struttura di incomunicabilità, forse troppo insistita e ripetitiva. Basterebbe una sola traccia a rappresentarla. Lui propone nove mutazioni tematiche replicanti di se stesse, da chiedersi se ne valga davvero la pena di dargli credito una volta di più.

I segreti dell'alveare, della terra e di alberi brillanti appartengono solo al ricordo. Hanno lasciato lo spazio a sotterranei di note estinte che sono come simulacri di un tempo immemore. La musica finisce qui.

Track Listing

01. Small Metal Gods; 02. The Rabbit Skinner; 03. Random Acts of Senseless Violence; 04. The Greatest Living Englishman; 05. 125 Spheres; 06. Snow White in Appalachia; 07. Emily Dickinson; 08. The Department of Dead Letters; 09. Manafon.

Personnel

Burkhard Stangl (chitarra); Werner Dafeldecker (basso acustico); Michael Moser (violoncello); Christian Fennesz (laptop, chitarra); Toshimaru Nakaruma (no – input mixer); Otomo Yoshide (giradischi); John Tilbury (piano); Evan Parker (sax); Marcio Mattos (violoncello); Joel Ryan (live signal processing); David Sylvian (chitarra, tastiere); Keith Rowe (chitarra); Franz Hautzinger (tromba); Ttuzi Akiyama (chitarra elettrica e acustica); Sachiko M. (sine waves); Burkhard Stangl (chitarra).

Album information

Title: Manafon | Year Released: 2009 | Record Label: SamadhiSound

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