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La gravità degli ottoni

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Ogni tanto ci piace accorpare incisioni omogenee sotto il profilo strumentale, e poi magari diversissime per esiti espressivi e poetica che le informa. È il caso dei quattro album che trovate qui di seguito passati al vaglio, riuniti nel segno del trombone, in prima istanza, e degli ottoni gravi più in generale.

Mark Weber & Michael Vlatkovich
Elasticity
PFMentum
2015
Valutazione: * * ½

Due di essi recano la firma di quel Michael Vlatkovich, ovviamente di professione trombonista, di cui già ci siamo più volte occupati in un recente passato. Ci era tuttavia rimasto in canna un album del 2012 che lo vede affiancato anche nei titoli di testa col poeta (e qui dicitore) Mark Weber, come già nel più o meno coevo Multitudes Telepathic, circa il quale—qui sì—vi abbiamo già relazionato.

In Elasticity (titolo assai bizzarro, per un album in cui fissità e ripetitività la fanno da padrone) l'ingerenza della voce recitante si rivela ancor più incapsulante, zavorrante (anche perché la "vocalità" di Weber—chiamiamola così—è tutt'altro che gradevole all'orecchio), fino a far apparire le pur ampie elucubrazioni strumentali che la contrappuntano, opera—oltre tutto—di un signor quartetto (con seconda voce, cantante, stavolta), alla stregua di una sorta di cartoni preparatori, di bozzetti—se preferite—in possesso di un'autonomia decisamente limitata. Questa, almeno, è l'impressione che l'ascolto ci suggerisce, indiscutibilmente. Si poteva fare senz'altro meglio, in poche parole.

Michael Vlatkovich Septet
Ask 7
PFMentum
2015
Valutazione: * * * ½

E meglio fa, in effetti, Vlatkovich alla guida del settetto protagonista di Ask 7, confezionando un jazz articolato, inequivocabilmente "d'autore" (lo stesso trombonista, ovviamente). Cinque fiati (tra cui anche un trombone basso) fanno da asse trainante di un ensemble completato da basso e batteria. Prevale una logica corale (talora non senza qualche lieve rigidità), ma con exploit dei singoli sempre centrati, funzionali alla linea poetica che informa il lavoro.

Ci sono situazioni di tono cameristico-third stream, ma anche rigogliosità (e marcata polivalenza) timbrica, intarsi contrappuntistici e aperture decongestionanti (peraltro meno del solito, per Vlatkovich), volatilità e sostanza, il tutto espresso con particolare efficacia nel trittico di brani che va dal terzo al quinto (evitiamo i titoli, spesso chilometrici), quest'ultimo con avvio di umore quasi lacyano e per il resto in qualche misura paradigmatico (anche per l'ampiezza) dell'intero lavoro, e nel conclusivo "Maybe Another Time," incline all'astrazione.

Joe Fiedler Trio
I'm In
Multiphonics Music
2015
Valutazione: * * * ½

Passando a Joe Fiedler, cinquantenne trombonista di Pittsburgh, diciamo subito che meriterebbe, fuori dai patri confini, una fama ben maggiore di quella di cui gode. Dapprima influenzato da due cugini più grandi di lui entrambi trombettisti, poi, col precisarsi del legame col trombone, in particolare da Albert Mangelsdorff e Ray Anderson (ai cui trii questo assomiglia in effetti non poco), Fiedler ha maturato nel corso degli anni un'estetica variegata, spaziante dalla big band di stampo tradizionale (dopo il trasferimento a New York, nel 1993, ha suonato anche a Broadway) al cenacolo di Cecil Taylor, dal solo (e qui, naturalmente, Mangelsdorff docet) a gruppi propri, compreso un quartetto con tre tromboni e tuba, non disdegnando la composizione anche per conto terzi, la direzione d'orchestra e la produzione discografica.

Proprio questo album è in effetti il secondo edito dalla sua Multiphonics Music (nome quanto mai emblematico, anche qui di matrice mangelsdorffiana), nonché il quarto del suo trio. Vi trova posto una musica vibrante, piena, plastica, compatta, a tratti rutilante, in cui il trombone tiene ovviamente banco ma senza strafare (ottimi spazi in particolare per Rob Jost), anche con qualche episodio più incline alla sperimentazione (tipo l'ampio "Moving in Silence"). Una specie di decalogo del trio trombonistico ideale, cui si può magari imputare solo un minimo di monoliticità.

Daniel Herskedal
Slow Eastbound Train
Edition Records
2015
Valutazione: * * ½

Chiude il lotto un lavoro non trombonistico, bensì dovuto al tubista (nonché trombettista basso) Daniel Herskedal, trentatreenne di Molde, Norvegia, un passato da cornista, poi in band tradizionali, fino al trasferimento a Trondheim per motivi di studio, quindi a Oslo, mettendosi in proprio (vanta anche un'esperienza orchestrale con Django Bates) non senza risultati di un certo spessore.

Questo album, fra luci e ombre, ambizioni ora ben riposte e ora meno, lo coglie alla testa del suo trio, rinforzato in alcuni frangenti dagli archi dell'orchestra appunto di Trondheim. Gli esiti non sono scontati, e questo è certo un punto a favore soprattutto dell' Herskedal compositore, però vi si avverte una fin troppo insistita ricerca di gradevolezza che finisce per svilire il livello della musica, sfiorando qua e là l'easy listening, specie nella seconda parte dell'opera e proprio allorché entrano in gioco gli archi (non c'è da meravigliarsene, dirà qualcuno). Registrando ed equilibrando meglio il tutto certo gli esiti sarebbero potuti essere ben altri.


Elenco dei brani:

Elasticity:
Poem 1÷15; Winter Things; Poem First Day of February.

Ask 7:
Innumerable Mementos of the Distant Ought-to-Be Forgotten But Dishearteningly Omnipresent Never-to-Be Forgotten Past; Madam Why; 1 3/4 Southeast 593,212 Avenue Apartment ZZ Ask For 7; Missing C the Limbless Percussion Just Couldn't Dance; Chair Red Blue Medley; The Eventual Supremacy of Reason; Maybe Another Time.

I'm In:
Grip; Erstwhile; In Walked Cleo; Moving in Silence; The New Denizens; I'm In; Completely 'Peccable; The Box; Tensegrity.

Slow Eastbound Train:
The Mistral Noir; Rainfall; Monsoon Coming; The Solar Winds Effects on Earth; Daniels Dust Devil; Slow Eastbound Boat; Slow Eastbound Train; Snowfall; Crosswind Landing; Bydlo; Sea Breeze Front.

Musicisti:

Elasticity:
Mark Weber: voce recitante; Michael Vlatkovich: trombone; Lisa Miller: pianoforte; Clyde Reed: contrabbasso; Carol Sawyer: voce.

Ask 7:
Ron Miles: cornetta; Michael Vlatkovich: trombone; Wade Sander: trombone basso; Mark Harris: sax alto, clarinetto, clarinetto basso; Glen Nitta: sax tenore; Kent McLageh: contrabbasso; Chris Lee: batteria.

I'm In:
Joe Fiedler: trombone; Rob Jost: contrabbasso; Michael Sarin: batteria.

Slow Eastbound Train:
Daniel Herskedal: tuba, tromba bassa; Eyolf Dale: pianoforte; Helge Andreas Norbakken: percussioni; The Trondheim Soloists String Chamber Orchestra.

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