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John Abercrombie Quartet
ByTeatro Magnani - Fidenza - 25.03.2007
Cosa ci si può aspettare quando quattro fuoriclasse come John Abercrombie, Mark Feldman, Marc Johnson e Joey Baron si esibiscono insieme sul palco? Come standard minimo, un concerto di gran classe, tecnicamente ineccepibile e formalmente inappuntabile. Se poi soffiasse sul palco la sempre benvenuta brezza dell’ispirazione saremmo certi che invenzioni ed emozioni, sorprese e divertimento, uno sguardo al cuore ed uno alla mente sarebbero sicuri e affidabili compagni di viaggio. Quando poi si accendesse la magica scintilla della creatività allora si materializzerebbe l’evento unico e irripetibile, con tutte le componenti a raggiungere la loro massima esaltazione.
Potremmo dire che l’esibizione del John Abercrombie Quartet, nella suggestiva cornice del Teatro Magnani di Fidenza per il penultimo appuntamento del Piacenza Jazz Festival si colloca a buon diritto nella seconda situazione.
Nonostante siano stati presentati brani contenuti nei tre album finora pubblicati dal quartetto, il concerto può essere letto come una lunga, affascinante suite nella quale i quattro hanno riversato le molteplici sfaccettature delle proprie sensibilità artistiche e dei personali mondi sonori. Così Baron, che saprebbe ricavare musica anche percuotendo dei cristalli di Swarosky, ha messo in mostra tutta la propria sapienza percussiva. Fantasioso, dalle infinite soluzioni timbriche nei momenti coloristici, stimolante, propositivo, perennemente in movimento in quelli più spiccatamente propulsivi, oltre che autore di un fantastico incontro intimo e ravvicinato con il contrabbasso di Marc Johnson.
Johnson per l’appunto, forse un po’ penalizzato dall’amplificazione, ma perno fondamentale della formazione, oscuro elemento di raccordo, mobilissimo centro tonale e autore di stimolanti linee di basso. Abercrombie si muove con grazia e leggerezza lungo le strutture complesse e raffinate delle sue composizioni, con quella sonorità a metà strada tra l’elettrico e l’acustico che ormai contraddistingue il suo guitar style. E non disdegna brevi e misurate incursioni in territori che rimandano alle sue passioni giovanili per il rock e per le atmosfere acide del Miles Davis elettrico.
Ma il vero valore aggiunto del quartetto ci è parso il violino di Feldman, leggero come una piuma e tagliente come un diamante, dallo swing innato, abilissimo nel galvanizzare e condurre l’esecuzione verso nuove direzioni attraverso l’uso di dissonanze e fraseggi arditi. Alleggerendo e rivitalizzando, così, il suono complessivo del gruppo che la presenza di tre strumenti a corda avrebbe potuto veicolare verso ambientazioni sonore eccessivamente cameristiche.
Concerto di gran classe, per l’appunto, ma se fosse scoccata quella magica scintilla...
Foto di Claudio Casanova [ulteriori immagini tratte da questo concerto sono disponibili nella galleria immagini]
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