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Jack DeJohnette: Groove, colori e raggi dorati
Jack DeJohnette ha uno stile inconfondibile. Nessuno tra i batteristi jazz attualmente in circolazione suona con quella particolare miscela fatta di groove, forza e precisione nella scansione del tempo. Dopo alcuni anni a Chicago (dove era richiesto più come pianista che come batterista) e sodalizi con i musicisti dell'AACM, come Roscoe Mitchell e Muhal Richard Abrams, nella seconda metà degli anni sessanta raggiunge una fama più ampia come membro del popolarissimo Charles Lloyd Quartet (che aveva anche frequenti collaborazioni con Keith Jarrett).
Da allora, questa fama non si è mai affievolita. DeJohnette ha suonato con Freddie Hubbard, John Coltrane, Chet Baker, Joe Henderson, Thelonious Monk, Sonny Rollins e, naturalmente, con Miles Davis, che lo ingaggia nel 1968, giusto in tempo per il terremoto musicale del periodo elettrico e dell'epocale Bitches Brew. DeJohnette continua ad occupare il posto di batterista nel cosidetto Standards Trio di Keith Jarrett (insieme al bassista Gary Peacock), un gruppo di enorme importanza che, dopo ventitre anni, sembra essere in continua evoluzione.
Non vanno poi dimenticati i lavori realizzati in qualità di leader, con gruppi come Directions and New Directions (quest'ultimo con il chitarrista John Abercrombie e il trombettista Lester Bowie, due suoi importanti collaboratori), e dischi come Album Album (1984), Sorcery (1974), Oneness (1996), spesso con l'etichetta ECM.
Nel 2004, DeJohnette fonda una sua casa discografica, la Golden Beams Productions che, finora, ha realizzato quattro dischi, fra i quali il nuovo The Elephant Sleeps But Still Remembers (2006), una superba collaborazione con il chitarrista Bill Frisell. Dello stesso anno è Saudades (ECM, 2006), un doppio CD live del Trio Beyond, composto da DeJohnette, dal chitarrista John Scofield e da Larry Goldings all'organo.
Abbiamo raggiunto DeJohnette a Woodstock, per discutere appunto del Trio Beyond, della Golden Beams e di altro ancora...
All About Jazz: Sei stato molto occupato con vari progetti musicali, alcuni dei quali per la tua etichetta. Penso che potremmo partire dal progetto Trio Beyond e poi tornare indietro nel tempo. E' un gruppo composto da te, John Scofield e Larry Goldings. Un omaggio a Tony Williams e al suo gruppo Lifetime, del quale avete mantenuto la configurazione chitarra/batteria/organo. Ma nel disco live Saudades, registrato nel 2004, sembra che andiate oltre: proponete alcuni meravigliosi pezzi del Lifetime, ma fate anche altri brani scritti da Tony, o cose riconducibili a Tony o a Larry Young. If, per esempio, è un pezzo tratto dal disco Unity di Larry Young (Blue Note, 1965) e mi fa pensare ad Elvin Jones, che ci suonava, o a Joe Henderson che oltre che suonarlo aveva anche scritto il brano.
Jack DeJohnette: E' una sorta di omaggio che va in molte direzioni, e considera che avevamo molto altro materiale originale che non è stato inserito nel disco. L'idea di base mi è venuta quando ho sentito il gruppo Lifetime. Anche John lo conosce e questo organico chitarra/batteria/organo ci ha colpito. Quando abbiamo iniziato a suonare in giro, abbiamo capito che la musica iniziava a prendere una propria direzione. Inoltre non volevamo rimanere costretti nei panni di una cover band o in quelli di concerti-omaggio. Volevamo invece prendere Tony come compositore e batterista, aggiungere personalità come Miles, Joe Henderson, Larry Young, John McLaughlin e Coltrane, e ultilizzarli come base da cui partire per improvvisare. In questo modo, inoltre, avevamo un ottimo repertorio da cui attingere, senza la necessità di scrivere molta musica nell'immediato.
AAJ: Un book pronto all'uso.
J.DJ.: Eh si. Io e John, ovviamente, avevamo dei brani ma li abbiamo realizzati gradualmente mentre la band si sviluppava, ogni volta che i nostri impegni ci consentivano di riunirci a suonare assieme. Così abbiamo aggiunto diversi pezzi originali. E' stato molto stimolante, l'aspetto interessante della cosa è stata l'alchimia che si è creata fra noi e l'alto livello creativo che ne è scaturito, che ha spinto tutti ad una sfida verso se stessi e verso gli altri. Ci siamo divertiti.
AAJ: Si sente nel disco. La gente parla un pò troppo di alchimie, ma penso che quella presente in questo disco sia speciale. Sembra che ognuno tragga forza dagli altri.
J.DJ.: Facemmo giusto una serata, anzi due. Una era in Europa, al Coutances Jazz Festival e poi volammo fino a L.A. per un'altra, che era un concerto di John. Gli dissero che poteva portare la formazione che preferiva, e lui propose il Trio Beyond. E così arrivammo direttamente dalla Francia per suonare al Jazz and Reggae Festival dell'U.C.L.A. Sai una cosa? Da un concerto all'altro si percepiva già un netto sviluppo. Ognuno di noi era già impegnato a dar forza al progetto, potevo percepire la crescita già da allora.
AAJ: Larry è in gran forma in questo disco. Mi piacciono molto le sue linee di basso che si adattano perfettamente al tuo drumming, entrambi vi completate a vicenda. Dimmi qualcosa di Larry, come ti trovi a suonare con lui, e in cosa pensi dia il meglio di sè.
J.DJ.: Larry è veramente un musicista eclettico, oltre ad essere un grande pianista e compositore, ma all'organo è impressionante. Penso che stia allargando il ruolo dell'organo, del vecchio Hammond B-3, ricavandone una intera gamma di colori. Inoltre ha incorporato l'elettronica: usa pedali elettronici, loop, computer, samples e ogni cosa di questo tipo. Ma è anche uno degli organisti con più swing che ci sia in giro. Non ripete mai le linee di basso. Se presti attenzione al suo senso armonico, molto intrigante, ti rendi conto che cambia costantemente le linee di basso in modo creativo. Suona molto vicino a come farebbe un bassista, tanto che a volte ti dimentichi di ascoltare un basso suonato all'organo, per via del colore, degli accordi e del senso ritmico che mette nel suo fraseggio. Lo scambio con lui avviene sul piano melodico, ritmico e armonico, così siamo sempre in stato di allerta mentre suoniamo, perchè vogliamo sapere cosa accadrà dopo.
AAJ: Bene, il terzo musicista della band è John Scofield. Penso di non averlo mai sentito in un contesto così aperto. Ha ampi spazi solistici, ma c'è molto più di questo. Suona un pò di tutto: successioni di note, passaggi di accordi, esplorazioni informali, riff marcati, e tutto in modo molto vario. Hai qualcosa da dirci sul perchè ti piace suonare con lui?
J.DJ.: Beh, John è un innovatore unico ed anche una voce molto particolare. Nessun altro ha un sound come il suo, o quel fraseggio alla chitarra. John possiede un animo allo stesso tempo sofisticato ma funk. In realtà penso che sia una alchimia che abbiamo tutti e tre. Larry ha suonato con Maceo Parker e molti altri simili. Tutti noi amiamo profondamente il blues, così come il funk e la musica elettronica, oltre, ovviamente, al jazz. Potremmo dire, in mancanza di una parola esatta, che c'è questa gamma musicale fatta delle varie influenze culturali che il jazz contiene.
E John le ha asssimilate tutte, ma quando ha bisogno della tecnica sa usare anche quella. Questo è un gruppo ben assortito, dove abbiamo veramente la possibilità di suonare per il gusto di farlo, ma anche di sperimentare. Per me è molto stimolante, e spinge tutti noi a tenere in considerazione la libertà di cui disponiamo, oltre alla disciplina. John mantiene un ottimo equillibrio fra tutti questi aspetti. Poi ci sono i vari marchingegni elettronici, che utilizza molto bene, soprattutto in questo trio. Mi piace in particolare l'utilizzo che ne fanno John e Larry in pezzi come "Saudades" e "Emergency".
AAJ: Questo è buona parte di quello che fa la band: inoltrarsi in luoghi fuori dal tracciato. Sembra che l'elettronica svolga un ruolo importante in questo tendenza ad andare oltre...
J.DJ.: Si, ci sono tutte queste diverse tonalità di colore. Sono contento che il gruppo sia stato registrato dal vivo, perchè questa è una eccezionale "live band". La registrazione è stata fatta in una delle ultime serate di un tour di tre settimane. Ecco perchè la musica è a livelli così alti, perchè l'avevamo suonata ogni notte, e ogni notte era differente. Penso che siamo riusciti a catturarne la magia su disco.
AAJ: Beh, avete ingaggi per tutto l'anno.
J.DJ.: Stiamo girando l'Europa. Forse suoniamo a New York il prossimo anno, proveremo al Blue Note. Non sono sicuro, ci stiamo pensando.
AAJ: Ti ho chiesto degli altri musicisti, ma di te che mi dici? C'è qualche aspetto del tuo modo di suonare che viene esaltato da questo gruppo?
J.DJ.: Si, sicuramente. Mi offre la possibilità di suonare in piena libertà, più del normale. Di sicuro più di quanto mi senta fare, per capirci, con Keith Jarrett o quando partecipo a qualche altro disco come ospite. Qui sono molto più estroverso, ed è perfetto, perché i livelli di volume, creatività e dinamismo si fondono assieme. E' la situazione ideale per lasciarmi andare, perché non devo preoccuparmi di dosare la forza. In questo senso è proprio un power trio. Quindi direi che è magnifico, e sono contento che la gente abbia l'occasione per sentire questa parte di me quando suono oltre la norma. Le persone che sanno che suono la batteria molto bene, hanno la possibilità di sentire realmente quanto bene la suono [ride].
AAJ: Mi pare di capire che tu potresti continuare a suonare questi brani, oppure fare cose lontane mille miglia da loro.
J.DJ.: Al momento continuiamo ad eseguire questo repertorio. In aggiunta abbiamo inserito altri pezzi che non compaiono nel CD. "Fall" di Wayne Shorter, "Dolores" e "Moontrane" dall'album Unity di Larry Young. Abbiamo anche altri brani che abbiamo inserito nel repertorio, ad esempio John ha portato un bel blues. Per ora abbiamo materiale fresco più che sufficiente.
AAJ: Penso che uno degli aspetti che più vi appartiene sia il blues. In "I Fall in Love too Easily" emerge il lato blues del gruppo, così come nell'improvvisato "Love in Blues". Quando ci sono dei pezzi improvvisati, nascono direttamente dai pezzi scritti?
J.DJ.: Si, cerchiamo di farli emergere all'inizio o magari alla fine di un pezzo. C'è sempre qualcosa che accade: un'improvvisazione o una tonalità che seguiamo e sviluppiamo. Ci attendiamo sempre una espansione del tema.
AAJ: Sembrerebbe che per te sia ottimale la formula in trio, vedi il Gateway trio, Jarrett's Standards Trio...
J.DJ.: Il trio, ma anche la formazione in duo. Si sa, il tre è un numero magico, un pò come il triangolo. Lo stesso per il duo, si crea una intima familiarità, da cui deriva l'alchimia.
AAJ: Di recente hai fondato una tua etichetta discografica indipendente, la Golden Beams Productions, che ha iniziato a produrre nel 2004.
J.DJ.: Si, credo che fosse la fine del 2004, e da allora abbiamo avuto quattro uscite. Per qualcuno sono un pò troppe, ma il fatto è che sono molto diverse tra loro. Il primo è Music in the Key of Om (Golden Beams, 2004), un CD di musica per la meditazione che ha ricevuto una nomination per un Grammy. E' stata una sorpresa. Si tratta di un progetto che avevo scritto per mia moglie Lydia, per il suo lavoro a fini terapeutici. La durata è un'ora, così la gente può veramente rilassarsi. Ora sono molto coinvolto in queste musiche e sonorità da utilizzare a scopo terapeutico.
Il secondo CD è Music From the Hearts of the Masters (Golden Beams, 2005), con il suonatore di Kora Foday Musa Suso. La prima volta che lo sentii è stato in un disco con Herbie Hancock, Village Life (Columbia, 1984), circa vent'anni fa, quando Herbie usava molto l'elettronica, il sintetizzatore in particolare. Foday ha scritto alcuni pezzi per l'album e abbiamo fatto uno di questi, "Moon/Light". Lui oltre che essere un compositore, è da lungo tempo un componente del Philip Glass Ensemble, ma ha anche un suo gruppo, il Mandingo Griot Society. E' da vent'anni negli Stati Uniti, vive a Chicago, e torna al suo paese natale, il Gambia, nei mesi invernali.
Ad ogni modo, dopo aver sentito il disco avevo intenzione di suonare con lui. Per caso, circa tre o quattro anni fa, mentre ero a Londra lo incontrai ad un concerto e gli dissi: "ehi, perchè non ci vediamo?", e lui mi ha risposto: "devo rientrare a New York. Appena arrivo passo da te e facciamo qualcosa assieme". Ho uno studio professionale a casa mia, così, quando mi raggiunse, rimase per quattro giorni, e il risultato è quello che puoi sentire sul CD. E' una direzione diversa, riguarda più il groove. Penso che Foday sia uno dei migliori suonatori di kora jazz in giro, in senso africano. Non un jazz in senso convenzionale (il bebop ad esempio), ma in un suo stile del tutto personale. Quando suoniamo assieme ci scambiano a vicenda stimoli diversi. Ora il duo, da quando è stato realizzato il CD, è diventato un trio, con l'aggiunta di Jerome Harris.
AAJ: Al basso o alla chitarra?
J.DJ.: Suona la chitarra basso acustica. L'anno scorso abbiamo fatto un party di presentazione dell'etichetta al Joe's Pub a New York, e la serata è stata magnifica. Jerome ha partecipato in alcuni miei progetti durante l'anno, ed era perfetto. E' un ottimo musicista di supporto, sa come suonare un groove ed è a suo agio con lo swing, con lui mi posso muovere in diverse direzioni. E così ora The Hearts of the Masters è un trio. E' molto divertente, musica che spinge al movimento, puoi ballare o semplicemente battere il tempo con i piedi. Una musica gioiosa direi.
AAJ: Un bel disco: molto piacevole ma mai melenso.
J.DJ.: Sai bene che oltre che lo swing e le astrazioni mi piace anche lavorare sul groove che, in questo caso, accompagna il fraseggio di Foday. Ho una buona intesa con lui. Abbiamo composto assieme alcuni pezzi, nuovi brani che non compaiono nel disco che sono nati mentre suonavamo.
Oltre a questo c'è il Ripple Effect. Mio genero Ben Surman, figlio del grande sassofonista e compositore John Surman, è un musicista e suona il sax ma è anche un ottimo ingegnere del suono molto richiesto nel mondo del jazz. Ha lavorato con Christian McBride, Jim Hall, con John Scofield come suo tecnico audio personale, e con me e John durante diverse tappe in Europa.
E' anche molto valido nel remixaggio. Ha sensibilità e un gusto musicale di ampio respiro e perciò lo abbiamo chiamato quando ci è venuto in mente di remixare alcune sessioni: tre o quattro dei brani contenuti in Music From the Hearts of the Masters. Poi c'è la cantante Marlui Miranda. E' brasiliana ed è particolarissima. Ha una bella voce, scrive canzoni e sa improvvisare. Inoltre c'è un brano in cui ci siamo solo io e Ben. Di fatto poi Ben ha remixato tutto: ha preso le fondamenta e ci ha costruito sopra. Il risultato è appunto Hybrids (Golden Beams, 2005). Ha riarrangiato il materiale in modo originale, non ho mai sentito qualcosa remixato a quei livelli. E guarda che direi lo stesso anche se non fosse mio genero [ride].
AAJ: Beh, non credo che nessuno ti possa accusare di nepotismo dopo aver ascoltato Hybrids o The Elephant Sleeps But Still Remembers.
J.DJ.: La questione del Ripple Effect e dei remix in generale è che non vengono suonati molto alla radio, e così ora stiamo pensando un modo per utilizzare il Ripple Effect dal vivo, il che è possibile dato che Ben lo utilizza di solito. Lo realizzeremo con Marlui, o coinvolgendo Foday, oppure John Surman, dipende dalla eventuale disponibilità di ognuno di loro. Ci stiamo lavorando, al fine di avere più visibilità. Stiamo facendo dei remix per i club e forse faremo anche tappa in alcuni di essi. Non è facile diffondere questa musica. Certo potremmo metterla nel mio sito web, ma il difficile è portare la gente a sceglierla. Ma se lo fanno gli piacerà di sicuro.
Posso dire che stiamo immettendo nuova linfa con questa musica e questa etichetta, con la quale realizzo progetti più ristretti. Il Trio Beyond invece è un progetto più ampio e rientra nel rapporto lavorativo con la ECM, che ha modalità diverse. Quando io e Manfred la pensiamo alla stessa maniera su un progetto, ci accordiamo e procediamo su quello. Ormai ci conosciamo da anni, visto che ho lavorato con lui per tutti i progetti del Keith Jarrett trio.
Ora sto lavorando su un altro CD di relaxation music, forse una continuazione del primo Om, ma probabilmente con un altro titolo. Abbiamo anche da ultimare un progetto con il percussionista Don Alias, che ci portiamo dietro da un pò di tempo, intitolato Welcome Blessing. Come sai, Alias è scomparso di recente, cosicchè voglio che sia una specie di omaggio.
Tutti i dischi della mia etichetta hanno avuto critiche positive. Continuano ad arrivare elogi per The Elephant. Sono contento di come vanno le cose.
AAJ: Bene, questo è il CD di cui non abbiamo ancora parlato: il tuo nuovo album in duo con Bill Frisell, The Elephant Sleeps But Still Remembers, un live del 2001.
J.DJ.: Con Bill ci conosciamo da molto tempo ma non abbiamo mai avuto l'opportunità di suonare molto insieme. Quando il clarinettista Don Byron, che è un mio caro amico oltre che mio vicino di casa, ha realizzato il disco Romance With the Unseen (Blue Note, 1999), con me, Bill e il contrabbassista Drew Gress, ho avuto l'occasione di registrare e suonare con Bill per diversi giorni. Poi abbiamo fatto dei concerti per promuovere il disco, e di recente abbiamo suonato in un disco di Tim Ries.
A parte questo, io e Bill avevamo intenzione di suonare assieme. L'occasione venne mentre ero in tour con Keith Jarrett. Visto che entrambi ci trovavamo nello stesso posto e io avevo qualche giorno libero, John Gilbrath, promotore del Earshot Festival a Seattle, ci mise a disposizione per alcuni giorni un piccolo teatro. Non avevamo provato niente prima, eccetto "After the Rain" e, forse, un altro pezzo. Tutto il resto è stato improvvisato sul momento e registrato da Sascha Von Oertzen. Poi la registrazione, di cui avevo spedito copia a Bill, è rimasta nel cassetto per un pò. L'anno scorso l'ho riascoltata e ho detto a Bill: "hey, prova a riascoltarla, penso che ci sia del buon materiale. Che ne dici se lo pubblichiamo con la Golden Beams?". E la sua risposta è stata "certo, ottima idea".
A quel punto ho pensato: "Beh, può andare, ma ci vorrebbe qualcosa in più". Così ho chiamato Ben e gli ho detto: "Ben, prenditi pure delle libertà, aggiungici un pò di sfondo e dagli una aggiustatina". E Ben ha fatto proprio un buon lavoro: ha aggiunto delle linee di basso su "The Elephant" che rendono bene il feeling del brano, una specie di andamento lento come quello di un elefante. Alla fine ho riascoltato i brani e gli ho dato i titoli, a parte "One Tooth Shuffle" scelto da Ben. Mi piacciono molto "Entranced Androids", "Ode to South Africa" e "Cartune Riots". Così abbiamo esplorato l'ambito acustico e quello elettronico, e ne è venuto fuori un disco bizzarro ma penso che contenga questi due elementi assieme.
AAJ: Le aggiunte di Ben Surman sono veramente appropriate. Sia che facciano parte del concerto originale del 2001 o che non ne facciano parte, sembra proprio un'improvvisazione in trio, e in un certo senso lo è.
J.DJ.: Si. Dato che si parla di formazioni in trio, voglio aggiungere che di recente ho partecipato a un disco jazz (ma non prendete il termine in maniera restrittiva) con il pianista e cantante pop Bruce Hornsby e il bassista Christian McBride. Il progetto non ha ancora un titolo, ma rimarrete sorpresi dal tipo di approccio che contiene. Prende spunto da brani come "Giant Steps", "Un Poco Loco", "Straight No Chaser", "Solar", per citarne solo alcuni, più altre composizioni originali. Dovrebbe uscire per la fine dell'anno o l'inizio del prossimo. E' stato molto divertente lavorare con un tipo creativo come Bruce, il cui gusto e conoscenza musicale vanno oltre il suo ambito. Bruce è venuto ad un sacco di concerti di Keith Jarrett, dato che è un suo grande fan, poi ha iniziato a parlare di fare qualcosa assieme e alla fine siamo andati in studio e lo abbiamo fatto. E' stato fantastico, e sono contento del risultato.
Da poco ho anche fatto parte di un progetto jazz di Nigel Kennedy. Ci sono un sacco di persone che vengono da altri ambiti musicali che si stanno cimentando con il jazz. Nigel sta diventando una specie di disertore della musica classica. Insomma... abbiamo fatto questo disco con Kenny Werner al piano e Ron Carter al contrabasso, con alcuni pezzi originali miei e di Ron. In alcuni brani ci sono anche Joe Lovano e un altro tenor-sassofonista, J.D.Allen. E poi c'è anche Lucky Peterson, che viene piuttosto da direzioni soul. Ma stavamo parlando di The Elephant e ho divagato su tutt'altro.
AAJ: Come hai ricordato prima, quest'anno abbiamo perso Don Alias. Voi due siete stati in contatto per lungo tempo, e sono felice che sia stato realizzato un disco in cui possiamo sentirvi. Non si può riassumere la vita di un uomo in poche parole ma hai qualche considerazione sulla sua scomparsa?
J.DJ.: Per Don la musica veniva prima di tutto. Ne era coinvolto al 200 per cento e ci teneva veramente tanto. Ci teneva a darle autenticità, ed era sempre spontaneo. Era uno dei pochi percussionisti ad andare d'accordo con i batteristi, perché suonava anche la batteria. Era un buon batterista, e infatti aveva fatto anche serate solo alla batteria, come quelle con Joni Mitchell. Prima del mio gruppo Compost, avevamo una band con lui e Jumma Santos (percussionista che poi fece parte anche dei Compost), e Don suonava appunto la batteria.
Ad ogni modo, lui aveva una certa sensibilità. Era uno dei pochi suonatori di congas con il quale i batteristi non avevano problemi. Non voglio dire che tutti siano così, ma molti percussionisti tendono ad andare un po' oltre il loro spazio. Bisogna stare ad ascoltare, e Don sapeva ascoltare, sapeva trovare il giusto spazio e sapeva anche dare il giusto tocco di colore. Quando suonavamo assieme, lui suonava il ritmo e io ci aggiungevo sopra qualcosa, poi lasciavamo che il groove andasse da solo. Era straordinario, lo potrai sentire in Welcome Blessing quando uscirà. Don faceva anche parte del gruppo Oneness, del quale ho delle registrazioni live, ma abbiamo anche pubblicato un CD omonimo con la ECM.
Don ha suonato e registrato con i migliori batteristi: Tony, Elvin.... Questo ci dice quanto era amato e rispettato nella comunità dei jazzisti, oltre che nell'ambito del Latin Jazz.
Per questo è una grave perdita. La sua presenza ci mancherà, ma il suo spirito sarà qui per sempre. Vive attraverso di noi che lo abbiamo conosciuto, che abbiamo suonato assieme e che eravamo legati a lui.
AAJ: Non posso evitare di chiederti qualcosa sullo Standards Trio di Keith Jarrett. Il gruppo esiste ormai da ventitre anni ma la musica è sempre in movimento, e mi pare che mantenga la freschezza di sempre. Ci puoi dire qualcosa sul gruppo e sul segreto della sua longevità?
J.DJ.: Niente di particolare. Il nostro accordo era che avremmo continuato insieme fino a quando le cose funzionano. Penso che a Keith piaccia molto suonare in trio e fa di tutto affinché in ogni disco ci sia una buona armonia, il che di solito aiuta molto a dare freschezza al risultato. Pare che le cose vadano sempre meglio: in autunno abbiamo delle date in Europa e saremo in Giappone a maggio, e penso che probabilmente ci usciranno delle registrazioni. In effetti è sorprendente, va avanti da così tanto tempo ed è sempre meglio.
AAJ: Hai un gruppo preferito fra quelli in cui hai suonato?
J.DJ.: Beh, ho suonato con Coltrane, almeno per una settimana, insieme a Rashied Ali e Alice [Coltrane] e Pharoah [Sanders], ed è stato grandioso. Lavorare con Monk poi è stata una sfida, ma mi sono anche divertito molto. Ovviamente il Charles Lloyd Quartet, di cui faceva parte anche Keith. E ancora, McCoy Tyner, Joe Henderson. Con Henry Grimes abbiamo fatto assieme una settimana allo Slug e dovrei avere delle registrazioni da qualche parte, se solo riuscissi a trovarle. Quella settimana è stata magnifica. E che dire....ho suonato con Miles, con Herbie [Hancock] e Ron [Carter] e ancora nel periodo elettrico con Chick [Corea] e Dave [Holland] e Wayne [Shorter], passando per Michael Henderson e Gary Bartz e Keith e Chick.
E poi alcuni dei miei gruppi. Directions con John Abercrombie. Special Edition con varie formazioni di musicisti che andavano e venivano. Gli ultimi sono stati Greg Osby, Gary Thomas, Lonnie Plaxico e Mick Goodrick, che è incredibile.
Ah, voglio dirti un altro paio di cose in cui sono coinvolto. Ho un progetto di Latin jazz in sestetto. Abbiamo suonato due o tre anni fa al Montreal Jazz Festival. Ero uno degli artisti ospiti dell'edizione e ho fatto quattro serate con formazioni differenti. Una in trio con Herbie e Dave Holland. Un'altra con Foday. Una con Bobby McFerrin e, infine, il Latin project, che era ispirato a Music For Six Musicians (Blue Note, 1995) di Don Byron. Abbiamo suonato alcuni pezzi di Don più brani originali composti da me e dal pianista Edsel Gomez. La band era composta da altri due percussionisti: Luisito Quintero, ai timbales e bongos, e il grande Giovanni Hidalgo alle congas; Jerome Harris al basso elettrico e Don Byron al sax tenore e al clarinetto. Tramite l'APAP (Association of Performing Arts Presenters), abbiamo fatto un tour di otto date in giro per i college che non è andato bene. Non ho ancora registrato la band, ma la cosa ha suscitato molto entusiasmo e i ragazzi del gruppo mi chiedono di suonare ancora insieme. E' molto eccitante suonare con tutte queste percussioni, e noi siamo una sezione veramente eccezionale. Naturalmente anche Edsel è scatenato. Non c'è che dire.....è un gruppo con forti personalità e si crea un'alchimia magnifica.
Ho anche un progetto in duo con il tastierista David Sancious, che vive a Woodstock, che porto avanti da anni. Quando non devo provare, ci sono una serie di situazioni a cui mi dedico. Una è con Bobby McFerrin e un'altra è con David, con il quale di recente abbiamo fatto un concerto al West Kortright Centre di New York. Ad ogni modo, non sto facendo troppe cose, come diresti tu.
AAJ: In effetti stavo per suggerirti che potresti metterti a far qualcosa invece di battere la fiacca a New York. Sembra che la tua nuova etichetta ti dia la possibilità di realizzare tutti questi progetti.
J.DJ.: Si, è un buon momento. E' curioso...hai visto il recente documentario su Bob Dylan?
AAJ: No Direction Home? Si, mi è piaciuto così tanto che ho comprato il dvd.
J.DJ.: Con mia moglie, e alcuni amici che hanno vissuto quel periodo, dicevamo che allora c'era sostanza. C'erano molte situazioni e molta gente che si spingeva oltre il limite. Ne abbiamo ancora bisogno. Non solo della musica. Abbiamo bisogno di persone nuove, di essere aperti a ciò che accade. Non voglio dire che non ci sia nessuno che lo faccia, e non sto pensando ai modi in cui succedeva allora. Dico solo che abbiamo bisogno di essere più ricettivi verso questa nuova ondata di principi pratico-creativi, per far si che questo sia un posto migliore dove vivere.
Traduzione di Stefano Sanna
Foto di Claudio Casanova
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