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Intervista a Enzo Carpentieri

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Il grande Massimo Urbani, con la sua arte e con la sua schiettezza umana, gli ha insegnato il jazz più, e meglio, di tanti manuali e di ore di lezione. Nei suoi progetti e nelle sue frequentazioni lo troviamo indifferentemente alle prese con il mainstream e con l'avanguardia, con la tradizione e con la sperimentazione. Enzo Carpentieri ha sempre vissuto il mondo del jazz in maniera assoluta, dedicandovi corpo e anima in tutti i suoi aspetti sia creativi che organizzativi. Di questa filosofia di vita e delle sue numerose esperienze artistiche e umane ci parla in questa breve chiacchierata.

All About Jazz: Come si è arrivati al Carpentieri batterista e musicista jazz ?

Enzo Carpentieri: Mio padre aveva un night-club dove si suonava musica dal vivo e organizzava anche delle gare di ballo, alle quali mi era vietato di partecipare anche solo come spettatore perché troppo piccolo. Allora mi venne l'idea di organizzare delle vere e proprie fughe uscendo dalla porta di servizio, appostandomi dietro le finestre della sala da ballo e sbirciando tra gli spiragli delle tende predisposti a regola d'arte in precedenza. Mi ritrovavo così a curiosare ed ammirare il seducente mondo dei 'grandi,' dal paso doble al cha-cha-cha con le piroette delle ballerine luccicanti oppure ai baci caldi delle coppie nei lenti a mattonella, ma soprattutto ero posizionato esattamente alle spalle del gruppo da ballo...

A fine serata i musicisti lasciavano gli strumenti montati sul palco ma naturalmente mi era proibito avvicinarmi così che passavo i weekend di fronte al juke-box memorizzando le combinazioni numeriche abbinate alle canzoni con i titoli in inglese, passando in rassegna tutta la musica pop, rock, soul dei primi anni '70, ammaliato dai nuovi suoni elettronici alternativi emanati da distorsori, wha-wha e sintetizzatori che di certo all'epoca non avrei potuto scoprire guardando i programmi per la TV dei ragazzi. La musica continuava a piacermi tanto, ma solo come hobby, perché ero impegnato nel classico percorso accademico di formazione personale diviso tra impegni di studio e sport.

Diventare una promessa del calcio? Continuare nello studio delle lingue? Niente da fare! A metà campionato smisi da un giorno all'altro di giocare a calcio, un po' come si fa con le sigarette, e nel bel mezzo dell'anno scolastico interruppi gli studi linguistici rifiutando anche di continuare la tradizione culinaria della famiglia.

AAJ: Risultato?

E.C.: Alimenti tagliati, genitori che non passano più una lira, famiglia contro, additato, ammonito, fuori gioco, out! Ok, mi mantenevo come potevo con lavoretti vari, andai a vivere da solo, rimboccandomi le maniche per sbarcare il lunario. A ventitre anni decisi: solo musica per sempre! Anche grazie all'incontro avvenuto tre anni prima con Dannie Richmond al quale prestai la mia Gretsch Jazzette nuova e fiammante per un concerto che teneva con il quartetto di George Adams. Fu un incontro emozionante, mi innamorai perdutamente del jazz e della musica afro-americana.

AAJ: Da più di trent'anni frequenti dunque musicisti italiani e stranieri di fama internazionale. Ce n'è uno che ti ha segnato particolarmente? Un episodio o una frase che ricordi con piacere?

E.C.: Massimo Urbani è stato il musicista che più mi ha ispirato e la frase di lui che ricordo con piacere, detta con il suo tipico accento romano, fu questa: "Yeah man, tu sei jaazzz ma hai suonato male stasera, però la prossima volta voglio suonare ancora con te, ce la puoi fare man, tu sei jaazzz...". Avevo vent'anni. Il risultato fu che appena tornai a casa dopo il concerto, preso dallo sconforto piansi calde lacrime, ma tutto ciò mi servì più della classica pacca sulla spalla, molto di più. Nell'attesa di un altro concerto con Max, mi esercitavo sulle ballad, sui medium slow e sugli up-tempo impossibili che lui era solito staccare e che mettevano a dura prova le sezioni ritmiche. Poi lui tornava e ci io riprovavo ancora, cercando di dare il meglio di me stesso, vivendo di cuore emozioni intense.

Un altro personaggio importantissimo fu Wayne Shorter. Mi chiesero di andare in tour con lui come drum-roadie, quindi non come musicista, ma come tecnico della batteria per Terri Lyne Carrington e Marylin Mazur alle percussioni... Questa esperienza mi cambiò la vita, era l'87/88 e vivevo una profonda crisi esistenziale con problemi di agorafobia, niente spazi aperti e mezzi di trasporto, niente aereo, niente treno, niente nave... ma quando squillò il telefono e mi chiesero di andare in tour con Wayne Shorter decisi che era giunto il momento di dare uno scossone forte alle mie paure ed accettai l'invito. Oggi se in aereo scelgo il posto vicino finestrino per guardare il mondo dall'alto con felicità è di sicuro grazie a quei due fantastici lunghi tour in giro per l'Europa con Wayne.

Cinquanta concerti in quindici paesi diversi, in viaggio su aerei e navi, mentre di base ci spostavamo a bordo di un Bus Nightliner con posti letto, facendo per mesi la classica vita on the road; venne in tour anche Ana Maria, la bella ed intensa moglie portoghese che poco tempo dopo scomparse nel disastro aereo del TWA 800 al decollo da New York nell'estate del 1996.

Un ultimo episodio, più recente, che ricordo con piacere è successo questa estate in Puglia al festival di Orsara. Durante la cena che precedeva il concerto entra nel ristorante una troupe televisiva locale con una giovane giornalista che vuole intervistare John Tchicai, e gli pone la classica domanda: "Che cosa ne pensa dello stato di salute del Jazz Italiano?" Tchicai rispose: "Well, I know Enzo Carpentieri and he looks very healthy!" Mah, che debba perdere qualche chilo?... Mi sono messo a dieta...

AAJ: Non hai problemi a suonare in ambito prettamente mainstream cosi come in situazioni free o di jazz alternativo. E' la testimonianza che non esistono barriere tra generi e stili ma semplicemente buona e cattiva musica?

E.C.: Intendi forse dire, come Ellington, che esistono solo due tipi di musica, quella buona e quella cattiva? Ehehe... allora dunque... io amo alla follia il jazz classico o mainstream o come cavolo si voglia etichettare, ma adoro anche la sperimentazione, la ricerca, l'avanguardia; a molti sembra un controsenso e per i puristi dell'una o dell'altra corrente quasi un sacrilegio... Non per me! Il mio primo concerto da spettatore fu quello di Art Blakey & The Jazz Messengers alla Rocca Brancaleone di Ravenna, uno degli appuntamenti clou dell'estate del jazz alla fine degli anni '70... ricordo che Blakey suonava una Hollywood modello Max Roach, quella con le rotelle alla cassa... e per me quello era il jazz da seguire agli inizi, ascoltavo il bebop di Parker ma ero più vicino al linguaggio e alle sonorità dell'hard-bop.

Ma quando per la prima volta alla radio ascoltai "Meditation on Integration" di Charlie Mingus, non riuscivo bene a collocarlo stilisticamente e la sua musica racchiudeva molti mondi sonori... così iniziai ad incuriosirmi a nuove musiche e all'epoca con sole 3.300 lire potevo anche rischiare l'acquisto azzardato di un bel vinile nero a me sconosciuto e come uno speleologo esplorare nuovi universi. Comprando a scatola chiusa ogni volta era una nuova esperienza che rivelava inaspettate sorprese ma ascoltando tutto l'album dall'inizio alla fine, con molta concentrazione e senza alcun condizionamento dettato da una mente già formata ed allenata, mi creavo un'opinione puramente personale, con la massima apertura e senza scetticismo.

AAJ: Mentre al giorno d'oggi?

E.C.: Al giorno d'oggi con CD o mp3 consumi musica quando vuoi in ogni luogo e in ogni momento... Ascoltare un nuovo disco presupponeva allora avere un impianto stereo, meglio se hi-fi, pulire il disco dalla polvere per evitare scricchiolii ed inceppamenti della puntina di diamante sui solchi della lacca nera... un rito accurato e particolare che richiedeva dedizione e predisposizione all'ascolto, magari in compagnia di un amico ma in completo silenzio per non perdere alcun dettaglio musicale... un bel viaggio insomma... Al contempo cominciai a frequentare i concerti del Centro d'Arte degli Studenti dell'Università di Padova, una delle più longeve rassegne italiane il cui programma si è sempre rivolto alle nuove musiche e alla sperimentazione con scelte rigorose e coraggiose che pescano al di fuori dei soliti circuiti ufficiali. Con il Centro d'Arte attivai quasi da subito una collaborazione che dura ancora oggi da più di trenta anni. In questo arco di tempo ho avuto modo non solo di ascoltare le nuove tendenze musicali e le nuove correnti del jazz, ma ho anche potuto conoscere personalmente centinaia di musicisti della scena sperimentale.

Lavorando nell'organizzazione dei concerti spesso ascolto e osservo le performance dal backstage, dietro e di lato al palco, dove si può godere di una vista particolare, e nel caso della batteria puoi scorgere ogni movimento possibile da una angolazione privilegiata. Freddie Waits, Nasheet Waits, Paul Motian, Billy Hart, Andrew Cyrille, Ronald Shannon Jackson, Barry Altschul, Philip Wilson, Thurman Barker, Pheroan AkLaff, John Betsch, Lawrence Marable, Jim Black, Joey Baron, Tom Rainey, Chad Taylor, Mike Reed, Ted Poor, Jeff Hirshfield, Bill Stewart, Brian Blade, Antonio Sanchez, Greg Hutchinson, Nate Smith, Jeff Ballard, Eric Harland, John Herndon, Dave King, Tyshawn Sorey, Hamid Drake, Ben Perowsky, Han Bennink... sono solo alcuni dei batteristi che hanno suonato il mio strumento in concerto... Ornette Coleman, Paul Bley, Lester Bowie, George Lewis, Charles Lloyd, Bill Frisell, Charlie Haden, Elvin Jones sono per me i più grandi musicisti che ho avuto la fortuna di conoscere, magari anche solo per un giorno nella reception di un hotel, alla tavola di un ristorante o sul palco del concerto.

AAJ: La tua ultima produzione - Look to the Neutrino del Lunar Quartet - ha tra gli altri, il merito di farci apprezzare la immutata verve creativa del grande John Tchicai. Come è nata l'idea di questo quartetto?

E.C.: Conoscevo Tchicai come altista del New York Art Quartet, nei dischi di Shepp, Ayler e in Ascension di Coltrane. Poi, pochi anni fa, ho assistito ad un suo concerto in duo col pianista Greg Burk ma questa volta ritrovandolo al sax tenore. Mi piacque molto il suo nuovo suono e la costante insistenza con cui portava avanti un'idea esplorandola in profondità e con grande forza comunicativa. Mi attraeva il suo elegante senso dello humour che traspariva anche sul palco dove gioco ed invenzione si rivelavano in modo inaspettato e sorprendente. In quell'occasione ci eravamo promessi di rivederci presto e tramite Burk, che lo conosceva già da tempo, decidemmo di trovarci per suonare e magari registrare qualcosa; per completare il gruppo, Marc Abrams al contrabbasso sarebbe stato il musicista perfetto. Andò a finire che il concerto saltò, ma decidemmo ugualmente di fare una seduta di registrazione. Fu una giornata bellissima in cui le idee dei quattro si incontravano magicamente in sintonia e il materiale musicale fu scelto passo dopo passo. A turno ognuno tirava fuori una propria composizione scritta o un'idea da sviluppare tutti insieme e così si registrava a ruota libera, al massimo due tracks per brano. Quasi tutta la musica che si sente nel CD è comunque la prima versione di ogni brano, in quanto esprime al meglio la freschezza del primo approccio.

La mia più recente uscita discografica è invece un nuovo lavoro scaturito dalla nascita dell'etichetta indipendente ZeroZeroJazz Records che con il trio Sparkle ha prodotto Playing Tricks. Un disco che sta riscuotendo ottime recensioni e ottenuto un premio importante dai giornalisti del Jazzit Award che lo hanno considerato tra i migliori cento album usciti nel 2010. Oltre al sottoscritto fanno parte del gruppo i sassofonisti Ettore Martin e Andy Middleton, special guest del trio che è completato da Danilo Gallo al contrabbasso.

AAJ: Nell'estetica dei tuoi gruppi vi è come costante la pressoché totale assenza dell'elettronica. Fatto casuale o una scelta ben precisa, e decisamente controcorrente ?

E.C.: E' vero, anche se questa domanda capita a puntino per dirti invece che il prossimo disco che uscirà a mio nome è appena stato registrato in compagnia di due musicisti che molto spesso usano l'elettronica nei loro progetti personali. Il primo è il trombettista chicagoano Rob Mazurek, artista multimediale che firma i suoi molteplici collettivi Underground, spaziando dal jazz sperimentale all'avant-rock, usando l'elettronica talvolta come componente dominante. In questo organico ha deciso però di suonare solo la cornetta e completamente in acustico, per lasciar spazio totale alle alchimie sonore di Enrico "The King" Terragnoli, un musicista che emana inimmaginabili tipi di suono prodotti dalla combinazione della chitarra e l'uso di effetti e filtri comandati da pedali, e dal podofono, un campionatore giocattolo che lui suona anche solo con gli arti inferiori. A dar profondo corpo al sound del gruppo ho chiamato Danilo Gallo e Stefano Senni, due contrabbassisti che in questo disco suonano contemporaneamente, amalgamando con sapienza un lavoro di musica totalmente improvvisata, scaturito senza alcuno schema prefissato. In studio di registrazione ognuno suonava in stanze separate ascoltando gli altri con le cuffie e quando appariva la scritta in rosso "recording session," (segno che il 'nastro' stava girando), nessuno di noi sapeva chi avrebbe iniziato ad emettere il primo suono o cosa si sarebbe suonato, infatti non ci siamo mai dati neanche una indicazione verbale rispetto ad una intenzione comune. Musica telepatica che usciva libera dalle nostre menti come creazione istantanea. Solo in un brano ho avuto l'idea di mettere in movimento circolare dei trompong balinesi intonati, strumenti appartenenti alla famiglia del Gamelan, da me suonati e trasmessi in loop per potere esprimermi anche con la batteria.

AAJ: Quali sono le qualità che apprezzi maggiormente in un musicista?

E.C.: Senz'altro la telepatia ma anche la voglia di rischiare che spesso genera situazioni nuove ed impreviste nelle quali si mettono in gioco le personalità in modo aperto e sincero cercando la verità. Il tuo cuore batte in questo momento e tu non sai dare una spiegazione, batte e basta, è vita! Mentre suoni la musica dovrebbe scorrere spontanea senza dover premeditare troppo l'azione musicale, suoni e basta, in maniera istintiva reagisci agli stimoli del divenire in modo intuitivo. Per me, fare musica insieme implica un coinvolgimento prima, durante e dopo l'accadimento musicale, un po' come in un atto amoroso; è per questo che scelgo dei compagni di avventura con i quali si possa star bene anche al di fuori del momento creativo collettivo.

AAJ: Se non avesse incontrato la batteria Enzo Carpentieri sarebbe...

E.C.: ...forse all'ombra delle palme in una piccola isola dell'oceano indiano su una spiaggia con tanta musica e sole, passando il tempo in compagnia delle onde del mare...

Foto di Antonio Baiano (la prima e la quarta), Danilo Codazzi (la seconda e l'ultima), Michele Giotto (la terza e la quinta).


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