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Il tempo del musicista totale

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Per la rubrica Déjà lu, sempre alla ricerca di testi, anche insoliti, già pubblicati in passato ma che vale la pena di riscoprire e rileggere, AAJ riedita i primi nove dei sedici paragrafi che costituiscono il saggio "Il tempo del musicista totale" edito nel 2002 da Giorgio Gaslini nel libro dal titolo omonimo per i tipi della Baldini & Castoldi. Si ringraziano per l'autorizzazione l'autore e l'editore.

IL TEMPO DEL MUSICISTA TOTALE

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Due date, due distanze: tra il Manifesto di musica Totale (1964) e questo nuovo libro (2001/2002) circa 38 anni e 27 dal libro Musica Totale (1975).

Anni sconvolti e sconvolgenti, tremendi per la densità dei fatti sociali drammatici e insieme liberanti, anni di enormi sviluppi scientifici e tecnologici, anni di completo riassetto dei grandi sistemi di potere ma anche anni stupidi per la mancanza (anche se non del tutto, per buona sorte) di grandi idee-forza generali come riflesso di un avanzamento collettivo di coscienza.

Forse la maturità collettiva ha potuto manifestarsi soltanto preminentemente come "resistenza" al tentativo violento di una nuova barbarie, quella delle sole leggi di mercato, quelle della preminenza del mondo virtuale sul mondo reale.

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Nel libro Musica Totale (1975) emergono alcune forme di realtà, alcuni concetti quindi, che oggi appaiono riconducibili solo a quel periodo.

Ed è vero: allora esistevano le "masse" organizzate o spontanee degli operai o degli studenti, allora esisteva un movimento di coscienza giovanile centrato sulla giustizia sociale, allora il movimento femminile era forte, unitario e motivato, allora grande era l'aggregazione di pubblico ai concerti, allora l'autogestione da parte di alcuni artisti di punta era motivata, necessaria e realizzata. Tutto ciò è scomparso? No, ha semplicemente preso altre forme sociali.

L'esperienza della musica totale non è nata nel 1975, ma alla fine degli anni Cinquanta, esattamente, per quanto mi riguarda, con la partitura di Tempo e relazione (1957).

Dal 1972 al 1976 si poté verificare una consonanza tra l'azione musicale "totale" e ciò che nella società, ad opera dei nuovi movimenti giovanili, stava succedendo.

Era lo storico "68". Ma non per questo l'idea di "musica totale" è un fenomeno prodotto da quel periodo storico. Era ad esso molto precedente e ha continuato dopo di esso sino ad oggi.

Per quali ragioni?

Per la semplice ragione che le sue motivazioni sono principalmente esistenziali, legate cioè alle scelte e quindi all'esperienza personale del musicista.

Si potrebbe forse parlare di un nuovo umanesimo dell'arte musicale. Mentre anche l'inevitabile forte incidenza dell'idea di "musica totale" su tutta l'organizzazione sociale della e con la musica, ne scaturisce per deduzione logica, e non il contrario.

In altre parole, il percorso musicale "totale" si è svolto sempre e comunque in modo indipendente da altre storie. Così come è indipendente, ma anche consonante rispetto alla vera e propria esplosione mondiale di tendenze all'incontro tra musiche e culture musicali lontane o prima isolate e circoscritte in un genere o in una etnia, verificatasi in questi ultimi anni.

Certamente Musica Totale del '75 ha anticipato tutto ciò, e per il vasto interesse nato intorno a quell'idea, ne ha influenzato la genesi.

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Il confronto tra l'ieri e l'oggi, le differenze registrate nella realtà attuale, tutto ciò non comporta una modificazione dell'idea iniziale di "musica totale," anzi, è proprio al Manifesto del 1964 che possiamo risalire e verificare se oggi siamo sulla strada giusta.

Questo testo fa perno su 3 elementi essenziali.

Il primo: la centralità dell'uomo, cioè della persona, cioè del musicista da un lato e dall'altro del destinatario dell'opera musicale, ancora una volta una persona, infinite persone.

Il secondo elemento è espresso nella frase: "ci proponiamo un'arte popolare... che preannunci una civiltà dell'uomo...". Una musica cioè, che riesca a raggiungere più gente possibile, sia essa liberamente aggregata, sia essa organizzata, sia essa in ambito privato o altro.

Il terzo elemento è l'intuizione di un nuovo tipo di musicista "totale," perno di tutto il movimento di pensiero e di azione, ovvero di una nuova estetica e di una rinnovata etica.

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Centralità della persona significa che nella visione di "musica totale" il musicista si assume un compito di forte impegno e di consapevolezza nella sua operazione artistica, impegno in quanto si dedica senza riserve a compiere un completo atto di comunicazione, ma significa anche che dà alla sua opera una destinazione precisa, sceglie perciò di porsi in relazione con altre persone, spesso raccolte in quell'aggregazione che si chiama pubblico degli ascoltatori. Esce perciò e fa uscire altri da quella dimensione penosa che è il solipsismo dell'essere umano, dell'artista.

Questo flusso di slancio comunicativo, che comprende tutta la gamma nota e ignota della psicologia (in altra epoca si sarebbe detto dei sentimenti), può surriscaldarsi sino all'identificazione tra chi dà e chi riceve, sino alla primordiale tribalità della musica.

La gioia della musica è il senso, ciò che emana da essa è la significazione.

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Un'arte popolare? Certo, ma in un senso nuovo, speciale.

Musica popolare è quella nata dal popolo. Musica popolaresca è quella che piace al popolo, ma può essere anche nata da un autore "del popolo".

Certo la musica ha avuto nella sua grande storia "luoghi" precisi: la chiesa, la corte, il teatro a pagamento e quindi collocazioni e ruoli diversi; il rito, l'intrattenimento, l'ascolto. Ascolto, una grande conquista relativamente moderna.

Ma tutto questo percorso è stato gestito non dal cosiddetto "popolo" ma dalle classi egemoni.

Oggi, specie negli anni successivi al 1960, sono venute fuori altre realtà di ascolto che hanno cambiato la storia della musica e la concezione della musica stessa e rivelato il suo enorme potere di aggregazione sociale, fuori dai teatri, nei grandi spazi all'aperto, con amplificazioni a volte impressionanti.

Ma anche in dimensione di suono-immagine alla portata di masse enormi di ascoltatori, la televisione, il cinema, i video, e tutti i nuovi sopporti sonori, il disco in prima fila. E allora popolare non significa più che la gente è esclusa ma che può raggiungere la musica ed esserne raggiunta in ogni momento e in ogni luogo.

"Musica totale" come arte "popolare"?

Il senso che la "musica totale" si dà è di ottenere il massimo della qualità e della quantità, cioè raggiungere un vasto numero di destinatari, sia in luoghi istituzionali sia in altri luoghi.

E questo cambia la musica e il musicista. È un atto artistico, alfine, destinato alla "gente," e quindi "dalla persona alla persona".

Forse sarebbe ora di rompere vecchi schemi e intendere "popolare" come "aperto alla comunicazione".

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Non intendo teorizzare ciò che per me come musicista è sempre stato qualcosa di connaturato, di continuamente verificato sia nella solitudine del pensiero sia nell'azione artistica, ovvero sia come autore musicale e interprete, sia a confronto non solo con i pubblici più diversi ma tutti esigentissimi di 60 nazioni, ma anche in situazioni "scomode" e rischiose, nelle carceri, nelle università o nelle fabbriche occupate e in tante altre sedi "alternative".

Mi ricordo che già dagli anni Cinquanta mi chiedevo dove fosse la gente, al di là di quelle poche migliaia di privilegiati che si godevano tutta la migliore musica delle metropoli. Così "la gente" sono andato cercarmela nei luoghi non deputati e ho portato loro tutta la musica che avevo.

Certamente mettere a fuoco un "archetipo" del "musicista totale" è oggi non solo utile ma anche necessario. È un'idea molto semplice. Questo musicista è uno che cerca la sua sintesi linguistico-espressiva senza pregiudizi verso le molteplici culture musicali del passato e del presente.

Si muove partendo quindi da tutta la musica e ne cerca l'unificazione. Si è formato a una nuova scuola musicale aperta, quella che dovrebbe esistere già e che per ora non c'è, e quindi è stato costretto a riferirsi continuamente alla propria esperienza senza sudditanze né soggezioni a correnti, a mode culturali o altro.

È un viandante ricco di sogni e di certezze, un poeta ricercatore di continue e progressive sintesi linguistiche e ha come impegno quello dell'apertura mentale a tutta la musica, proprio per trovare la sua musica.

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Da tutto il percorso di pensiero di "musica totale" scaturisce questa tipologia di musicista e non c'è, per altro, anzi è sicuramente respinta, l'idea di un operatore di commistioni di "generi" musicali, un eclettico eccentrico, di un dissolto nel molteplice. Tutt'altro.

Qui si parla di una nuova tipologia di musicista e quindi di un suo nuovo rapporto con gli esseri viventi e le cose, con la scuola, con la società, con gli ascoltatori, con gli altri musicisti, con gli artisti tutti, con la vita stessa.

E si parla ad un tempo di un musicista che si apre a 360 gradi alla conoscenza (e possibilmente anche alla prassi) di tutti i sistemi armonici e contrappuntistici, di tutte le forme musicali, anche quelle cristallizzate in generi, di tutte le esperienze sonore delle etnie dei popoli. E quindi un musicista che possiede la storia della musica accanto alla storia delle musiche.

Basterebbe, e basta, quest'ultima posizione per cambiare e reimpostare ex novo tutta la didattica musicale in circolazione e gran parte della critica e della musicologia future.

Ma come può nascere questo simpatico amico, che da questo momento chiameremo emmeti, muoversi, esistere, inventare, farsi ascoltare, essere e sentirsi necessario. Come può?

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Tanto per non dare nulla per scontato di quanto si è andato costituendo in grandi categorie di giudizio e di valutazione, ovvero nella "Storia della musica," una cosa è sicura: se fossero esistite testimonianze certe, cioè scritte, di tante culture musicali precedenti o contemporanee alla grande storia musicale dell'occidente, oggi si dovrebbe riscrivere una vera e nuova storia della musica mondiale, e non solo occidentale. E ancora, se i popoli apparsi sulla terra si fossero preoccupati di dare notazione ai loro canti di base o, in epoca più recente, di farne registrazioni originali (e non soltanto ad opera di valenti studiosi-raccoglitori) oggi avremmo una seconda storia della musica, della musica cioè in uso presso le genti di tutte le epoche e di tutte le latitudini.

Ma tant'è, a loro il canto e la danza servivano alla vita e dentro il vivere socializzante traevano significazione e ragione d'essere. Ed è sacrosanto che ciò bastasse loro.

Di fatto sembra che le cose stiano così: l'unica vera storia della musica è quella che conosciamo, quella occidentale, quella che dai greci arriva, attraverso secoli di opere musicali, sino a noi.

Questo "a priori" porta con sé il mondo musicale di oggi, nel quale gli autori, gli esecutori, gli interpreti, la scuola, il pubblico, le organizzazioni concertistiche ecc. sono tutti modellati secondo questa visione culturale.

In attesa che qualche studioso coraggioso sblocchi la situazione, il nostro simpatico emmeti, che non ha tempo da perdere, in tutti i modi, o per contatto diretto o per conoscenza mediata, va a conoscere (anche, oltre alla strafrequentata "Storia della musica") tutte le espressioni musicali del passato e del presente, principalmente in quattro direzioni:

1. la musica etnica internazionale (canti, danze, strumenti, esecutori);

2. tutte quelle musiche che nate da autori, sono entrate non solo nell'uso, ma anche nell'immaginario collettivo di innumerevoli generazioni (la danza, il song, il cinema, gli audiovisivi ecc.);

3. il linguaggio (e la storia) della musica jazz dai primordi ai grandi sviluppi europei. Il jazz è un idioma, un'arte e non un genere. È un fatto culturale universale;

4. il fenomeno musicale-poetico-spettacolare della seconda metà del Novecento, la musica rock. Un fenomeno planetario che dovrebbe essere riletto con attenzione per le enormi conseguenze avute sul costume e sull'ascolto delle nuove generazioni.

Tutti questi aspetti musicali, li ama, li pratica, li studia, li conosce. Li mette insieme alla monolitica "Storia della musica," ne fa una nuova "Storia delle musiche". Lui sa che anche queste sono culture e che non c'è proprio nulla di "extra-culturale".

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Lo spazio dell'arte musicale è interamente occupato dagli autori e dagli interpreti. Basta questo a esaurire la "significazione," il "ruolo," la "ragione d'insieme" della musica ai nostri giorni?

I tre grandi spazi del passato-presente della musica: la chiesa, la corte, l'ascolto a pagamento.

Il fatto che autori e interpreti abbiano comunque "prodotto" capolavori in queste situazioni, dapprima come un servizio devoto o mondano e poi, più in prima persona da "quasi liberi" professionisti, sembrerebbe bastare alla designazione "sul campo" di una posizione "super partes" dell'arte musicale, di una sua esclusiva ragione d'essere estetico-poetica.

Già, ma la musica è arte sensibile destinata all'ascolto, e lo è stata nella liturgia delle chiese, nelle sale da concerto delle corti, nei salotti elitari e poi nei teatri. Più tardi, dagli anni Sessanta in poi, ha dilagato verso ascolti planetari, attraverso grandi aggregazioni di nuovi pubblici, e nell'etere è arrivata a milioni e milioni di nuovi imprevisti appassionati.

Musiche di tante altre culture e musiche "storiche".

L'ascolto è sfuggito ai controlli dei poteri delegati, ma è anche ripiombato sotto mani manageriali poco scrupolose e più affaristiche.

La risposta degli autori-interpreti non può essere quella dello struzzo che nasconde la testa nella sabbia, ovvero l'arroccamento in una lobby elitaria. Saltando il sacrosanto momento auto-catartico dell'autore e dell'interprete nel loro agire, ci si apre una porta non sul buio ma sul mondo.

Si potrebbe sottolineare la responsabilità che loro hanno al di là di quel momento, verso tutti e tutto ciò che sta oltre quella porta.

Ma questo non è luogo di processi, è luogo d'amore per la musica e per ciò che essa significa per gli esseri umani in ascolto.

Un ruolo sociale quindi: di creazione di grandi coordinate di forma e di sostanza spirituale, di nuove linee afferenti di un sentire attuale, di nuovi parametri di confronto culturale e di libera circolazione delle idee, la creazione di nuove immagini sonore che accompagnino la vita delle nuove generazioni in qualunque luogo e anche nutrimento psicologico e confronto-stimolo psicofisico e mentale, e anche intrattenimento di straordinaria fascinazione. E tanto, tanto ancora.

Quanto allo scollamento tipico del Novecento tra la figura dell'autore e quella dell'esecutore-interprete c'è molto da riflettere.

Dal momento della creazione all'ascolto della sua opera possono passare mesi, anni durante i quali, vista l'attuale velocità di cambio continuo generazionale del costume, possono sbiadirsi sia le ragioni dell'opera sia il suo "significante".

E comunque all'autore avulso da un qualsiasi diretto intervento esecutivo della sua opera è sempre precluso il grande momento dell'incontro con il suo pubblico in ascolto.

Egli rimane un corpo esterno al vero corpo pulsante della società, delle generazioni cariche di domande senza risposte.

Egli crea e delega, ma delegando si allontana dallo scopo primario del creare musica che è comunicare.

Ecco perché il nostro emmeti ha cercato il più possibile di unificare in sé l'autore e l'interprete.

Ed ecco perché serve un nuovo tipo di scuola musicale.

In fondo i "grandi" non sono quasi mai i migliori docenti, ma allevano schiere di allievi in fotocopia che poi andranno a fare danni in giro.

I veri docenti preziosi sono quelli non "star," che si dedicano maieuticamente ogni giorno alla crescita dei giovani allievi in una dimensione "totale" della musica.

Foto di Luciano Rossetti (la seconda) e Roberto Cifarelli (l'ultima).

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