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Eyvind Kang Ensemble

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Teatro Manzoni - Milano - 07.10.2007

Eyvind Kang, violinista, compositore, direttore d’orchestra, collaboratore tra gli altri di Bill Frisell, Laurie Anderson e John Zorn, viene descritto come uno dei talenti più puri e cristallini della nuova scena creativa statunitense. Su di lui circolano notizie sparse e frammentarie che contribuiscono ad alimentare un alone di mistero che sembra avvolgere sia il personaggio che la musica. Non saremo certo noi a mettere in discussione tali giudizi e tanto meno a svelarne i misteri, ma a giudicare dalla performance al Teatro Manzoni di Milano qualche perplessità sorge spontanea.

A capo del suo Ensemble, dove spiccano i nomi del contrabbassista Trevor Dunn e della violinista Jenny Scheinman, accompagnato da una diligente orchestra d’archi, Kang presenta The Shadow of Ideas. Che si rivela opera di ampio respiro, tradotta in una sorta di esperanto musicale, nel quale confluiscono una miriade di influenze, e i più diversi linguaggi musicali si intrecciano e si confondono. Una musica universale, quindi, concettuale e metafisica, impalpabile e sfuggente, ordinata, rigidamente strutturata e condotta con gesti misurati e flemma orientale.

Ma è anche musica che non scalfisce, come marmo rilucente e refrattario, che sembra specchiarsi, cigno vanitoso, nella bellezza del proprio suono, innegabile, con la consapevolezza di essere musica altra, superiore. Manca la tensione drammatico/narrativa che è il sale di ogni esecuzione e sono sottotono, frizioni e snodi nevralgici, scarti ritmici e timbrici, necessari a schiodare la musica da una poco giustificabile staticità.

Certo, in The Shadows of Ideas non mancano momenti di estremo interesse e originalità. Alcune sequenze, con gli archi impegnati a creare un fondale ricco di dissonanze, sono risultate perfette per sostenere l’approccio vocale, un pò Bjork e un po’ Katy Barberian, dell’interessante Jessika Kenney. I bordoni scuri, densi, ipnotici che sono risultati una costante dell’intero concerto, si aprono a volte, in imprevedibili valzer allucinati, con i dolenti flauti dell’ottimo Bassam Saba in bella evidenza.

Ma complessivamente il progetto risulta ancora acerbo ed un poco pretenzioso, più simile ad un patchwork di classe, che a un opera organica e compiuta.

Foto di Roberto Cifarelli

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