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Coltrane, Mozart, l'inverno del '66 e l'assoluto

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Offering: Live at Temple University

È una sublime vertigine quella che fa mancare la terra sotto i piedi quando ci si avvicina, biograficamente e musicalmente, agli ultimi mesi della vita di Mozart. Mesi scanditi da uno straniante e straziante distaccamento dalle cose terrene, dagli affanni e dalle meschinità del quotidiano viennese; mentre le forme si sfaldano, le categorie estetiche si sbriciolano, gli orpelli vengono spazzati via con i virtuosismi, e la musica, citando Massimo Mila, sembra porsi sulle vie dell'assoluto. Non solo nel Flauto magico, che di questa ascesi rappresenta il vertice, ma anche in partiture all'apparenza minori, poco o nulla remunerative: il sublime Ave verum, scritto per gli alunni di un maestro di Baden che si era dato da fare per procurare un alloggio a Costanza (al solito alle prese con i bagni), la Piccola cantata massonica, un profluvio di minuetti e danze carnevalesche, una Fantasia e un Andante per rullo d'organo meccanico commissionati da un nobile eccentrico, un Adagio e un Rondò per glassarmonica dedicati a una giovanissima virtuosa dei bicchieri canterini. Piccole cose, frammenti, inezie. «Musica veggente—scrive ancora Mila nella prefazione alla Lettura del Flauto magico -, che non ha bisogno della sinfonia in pompa magna o dell'opera italiana, fastoso spettacolo per le classi superiori, ma può benissimo annidarsi in occasioni misere e senza pretese»; musica dell'altro mondo, spettrale preludio all'imminente sipario.

Ecco, avvicinandosi agli ultimi mesi della vita di John Coltrane il senso di sublime vertigine è più o meno lo stesso. Tra il 1966 e il 1967, dopo i fasti e i vertici del quartetto "classico," e dopo il punto di non ritorno varcato con Ascension (consegnato alla storia il 28 giugno del '65), è come se l'ispirazione rompesse gli argini, come se gli strumenti e le partiture non riuscissero più a contenere e definire l'urgenza espressiva. Ottetto, settetto, doppia batteria, percussioni, canti e salmodie, flauto, clarinetto basso, arpa, campane, vibrafono: Coltrane leva gli ormeggi, spalanca le porte della percezione. E come Mozart due secoli prima di lui, sembra porsi sulle vie dell'assoluto.

Vie perigliose e accidentate, che spesso conducono a situazioni precarie, a palchi non "istituzionali." Come quello dell'Olatunji Center Of African Culture di New York, che il 23 aprile del '67 ospita il suo ultimo live documentato (l'ultimo in assoluto a Baltimora, il 7 maggio); o quello della Temple University di Philadelphia, calcato l'11 novembre del '66, otto mesi prima del triste epilogo. Nel corso di un inverno che fino alla benemerita pubblicazione dei nastri della Temple, ritrovati e tirati a lucido dalla Resonance in tandem con la Impulse!, era una zona d'ombra dal punto di vista discografico, rischiarata solo parzialmente da edizioni monche e non autorizzate. Che finalmente cedono il posto a un doppio filologicamente impeccabile, nel quale è stipata l'intera esibizione: dall'iniziale "Naima," un quarto d'ora e più, alla conclusiva "My Favorite Things," ventitre minuti abbondanti; in mezzo i cinque scarsi di "Offering," i venticinque e passa di "Crescent" e i ventuno di "Leo."

Tempi lunghi, lunghissimi. Al chiuso della Mitten Hall, davanti a 700 studenti e con la radio del campus impegnata a registrare l'evento (più che buono l'audio), si celebra un rito, va in scena l'assoluto di cui si parlava qualche riga sopra. Con il gran sacerdote Coltrane, che si divide tra flauto, soprano e tenore, ci sono Pharoah Sanders al tenore e all'ottavino, la moglie Alice al piano, alla batteria il fido Rashied Ali, Sonny Johnson al contrabbasso, rimpiazzo dell'indisponibile Jimmy Garrison, e gli ospiti a sorpresa, reclutati qualche ora prima del concerto: Arnold Joyner e Steve Knoblauch, entrambi al contralto (il primo fa capolino in "Crescent," il secondo in "My Favorite Things"), Umar Ali, Robert Kenyatta, Charles Brown e Angie DeWitt alle percussioni, sul cui tappeto colorato si stendono temi e assoli; in un turbine di sortite spiazzanti, improvvise dilatazioni, rabbiose impennate, cambi di prospettiva.

C'è di tutto un po' nella serata della Temple. Ci sono la furia nichilista di Sanders, scorbutico e luciferino come al solito, il drumming compulsivo di Rashied Ali, il tocco allucinato di Alice, una fantastica intro a "My Favorite Things" snocciolata in solo contrabbasso da Johnson (una folgorazione!). E poi c'è Coltrane. Totale, immenso. Al di fuori di una realtà, fatta di oggetti e forme, che è troppo angusta per contenere l'ispirazione di un essere che appartiene già a un ordine diverso delle cose. Un santo, un veggente. Non a caso durante "Leo" e in coda a "My Favorite Things" Coltrane posa il sassofono e si mette a cantare. Non serve più lo strumento, non servono i tasti e le chiavi. Non servono nemmeno le parole: basta la voce, scura e graffiante, a evocare il superiore, il divino. Siamo davvero sulle vie dell'assoluto. E commuove pensare che di lì a pochi mesi tutto sarebbe finito, che a 40 anni e mezzo il viaggio si sarebbe interrotto (il 17 luglio del '67).

Un'ingiustizia, una crudeltà. Chissà fino a dove si sarebbe spinto il gigante Coltrane se avesse avuto il tempo di continuare a cercare, chissà dove ci avrebbe portati. Impossibile non fantasticare riascoltando Interstellar Space o le tracce sparse raccolte in Expression e Stellar Regions. Ma forse la verità, per quanto difficile da accettare, è che al gigante Coltrane è stato concesso esattamente il tempo di cui aveva bisogno per arrivare fino al limite ultimo della propria ispirazione. Le stelle, lo spazio, la luce, il sole e i pianeti, evocati a più riprese negli ultimi mesi di brani scritti, suonati e registrati, non sono presenze mute. Parlano di un altrove ultraterreno, al quale Coltrane, come Mozart, poco alla volta si è consegnato. Perché a quell'altrove era sempre appartenuto e per sempre apparterrà.

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