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Albert Ayler: Lo spirito e la rivolta
ByAlbert Ayler e la sua musica non sono più un equivoco. Il tempo, che non sempre è galantuomo, ha reso giustizia al sassofonista di Cleveland. Non tanto perché ci fosse bisogno di levarlo dall'ombra; la centralità di Ayler non è mai stata in discussione. Il merito che va riconosciuto al trascorrere degli anni, grazie all'accumularsi di riflessioni e pubblicazioni (imprescindibile Holy Ghost, il cofanetto-monumento edito dalla Revenant), è caso mai quello di aver ricondotto l'improvvisatore-compositore alla sua dimensione storico-musicale. «Sembrerebbe che il modo estremamente brusco con cui Ayler ha voltato le spalle alle convenzioni del jazz tradizionale -argomentava a caldo Ekkehard Jost nel suo Free Jazz -, oltre a quello che egli stesso ha detto e scritto sulla sua musica, abbia viziato la percezione dei suoi critici (favorevoli o meno) rispetto ai fatti musicali». Già, Ayler l'iconoclasta è stato costretto, in maniera bipartisan, a recitare il ruolo di macchietta. Un personaggio senza dettagli e sfumature: sfacciato dilettante o geniale rivoluzionario. Nessuna via di mezzo.
Poi il vento è cambiato. I semi gettati di qua e di là dell'oceano hanno fatto germogliare distese di seguaci (da Peter Brötzmann a Mats Gustafsson, passando per Roscoe Mitchell, David S. Ware, Marc Ribot). E la critica, finalmente, ha aggiustato il tiro. Lo dimostra lo splendido saggio di Peter Niklas Wilson, Albert Ayler -Lo spirito e la rivolta, pubblicato da Ets a inaugurare la collana Sonografie curata da Francesco Martinelli e Antonio Pellicori. Splendido ed efficace nel raccontare la musica, il musicista, l'uomo e il suo tempo.
Biografica la prima parte, con interviste inedite e aneddoti a non finire; analitica la seconda, centrata sulla genesi e sulle tappe dell'evoluzione artistica: dalla formazione al periodo Impulse!, passando per il trio con Gary Peacock e Sunny Murray, il quartetto con Don Cherry e il quintetto. Meticoloso il lavoro di ricerca, preziose le testimonianze di chi ha incrociato i suoi passi, acute le riflessioni sul complicato universo interiore dell'artista. E alla fine, a emergere in maniera semplice, chiara, è soprattutto l'uomo Albert Ayler: le debolezze, le contraddizioni, le quotidiane fatiche, l'ansia religiosa di spingersi sempre al di là e oltre, le angosce, il vortice dei dubbi. Ayler e il tenero rapporto con il fratello Donald, di sei anni più giovane, trombettista limitato eppure miracolosamente calzante; Ayler e la sincera amicizia con l'inseparabile Sunny Murray, dal '62 fino alla brusca rottura all'inizio del '66; Ayler e l'Europa, Copenaghen e il Café Montmartre, Parigi, Londra, Amsterdam; Ayler e Cecil Taylor, quel che è stato e quel che avrebbe potuto essere; Ayler e quel suono pazzesco, totale, da giorno del giudizio, «come il canto di un buco nero» scrisse Amiri Baraka; Ayler e il modo bizzarro e naif di assemblare i gruppi, optando per avvicendamenti e turnazioni all'apparenza inspiegabili (epico il racconto del modo in cui fu arruolato il violinista Michel Samson); Ayler e la relazione con la misteriosa Mary Parks (alias Mary Maria), la Yoko Ono del free jazz, «arrivata dal nulla e scomparsa nel nulla» dopo la morte del sassofonista. Dettagli e particolari che aiutano a capire, a snebbiare.
Certo, qualcosa ancora sfugge. Ma quel qualcosa, probabilmente e per fortuna, sfuggirà per sempre.
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