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Testimoni del '68: Mario Guidi

Ho trascorso tutto il 1968 nell'esercito italiano.

Tutto quello che stava succedendo nel mondo in quei giorni mi ha toccato solo di striscio. Provavo simpatia e solidarietà per gli studenti che con i loro cortei riempivano le strade delle varie capitali, provavo indignazione per quello che avveniva a Praga, ma più che altro ero impegnato a dribblare le seccature che la vita militare comportava.

Musicalmente non mi ero ancora accostato al jazz. Nel '67 ero stato in autostop a Londra e avevo visto e ascoltato Hendrix, Eric Burdon ed altri ancora. Praticamente erano questi i miei eroi allora, unitamente ai Beatles, agli Stones, ai Jefferson Airplane, agli Who, a Dylan, a Donovan, alla Baez, ecc.

Ricordo che Stevie Wonder, allora diciassettenne, furoreggiava con un brano intitolato "I Was Made to Love Her".

Quindi, mentre a livello socio-culturale i miei passi erano gli stessi di migliaia di miei coetanei orientati a sinistra della sinistra parlamentare, a livello musicale ero più legato ai gruppi che avevamo visto esibirsi a Woodstock e che, nell'immaginario di un ventenne di allora, rappresentavano la rivolta e la rottura con il conformismo e con il mondo dei nostri genitori.

Più tardi ho scoperto il jazz: un giorno, nei primi anni '70, nel minuscolo negozio della Virgin a Londra, ascoltai i Weather Report ("Sweetnighter") e McCoy Tyner ("Sahara"). Da allora cominciai a comprare dischi jazz, ma ricordo che evitai tutto il Free Jazz (il solo disco che ascoltavo era The Shape of Jazz to Come) per andare a ritroso nel tempo, cominciando più o meno diligentemente da Armstrong, Ellington, Coleman Hawkins, Count Basie, Lester Young, per arrivare pian piano a Parker, Miles e Coltrane. Ayler, Shepp e gli altri esponenti del free li scoprii ed apprezzai (non tutti però) molto più tardi, quando la carica eversiva della loro musica era ormai raffreddata e li potevo giudicare solo da un punto di vista musicale.

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