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Südtirol Alto Adige Jazz Festival 2013
ByLa trentunesima edizione del Südtirol Alto Adige Jazz Festival ha confermato, anzi accentuato, le sue prerogative: innanzi tutto quella di coinvolgere vari partner e vari centri dell'intero territorio provinciale, facendo replicare in differenti sedi molti dei gruppi invitati. In secondo luogo, ha puntato soprattutto su formazioni emergenti, giovani e poco note sia americane che europee, con un occhio particolare all'area di lingua tedesca. Scelte in grado di sollecitare la curiosità degli addetti ai lavori: nelle prime cinque giornate del festival infatti non sono mancate le sorprese positive, a cominciare da un pubblico che si è dimostrato attento e consolidato, nei diversi contesti, rispetto a certe edizioni del recente passato. E sulla carta altri nomi in programma avrebbero meritato la nostra attenzione nei giorni successivi.
L'impareggiabile cornice del Mesmer Mountain Museum al Castel Firmiano e condizioni meteorologiche inaspettatamente favorevoli hanno accolto la serata inaugurale del festival. L'evento meritava un viaggio a Bolzano se non altro per assistere all'unica data italiana dei Mostly Other People Do The Killing, per verificare dal vivo la caratura di questo quartetto monster dell'attuale scena newyorkese. Il concerto ha confermato le peculiarità di uno stile che intende ricapitolare molti momenti del jazz del passato in una sintesi originale, secondo una rinnovata estroversione e una palpitante tensione dell'interplay. Quei modelli del passato hanno perso quella quadratura e quell'equilibrio che tanto più siamo in grado di apprezzare oggi, per acquisire un'allucinata esasperazione, una dilatazione dei modi e dei tempi, una sovreccitazione perenne, che alla fine rischiano di risultare un po' uniformi.
Ciò non significa che nell'evoluzione strutturale dei brani qualcosa sia lasciato al caso, a una generica estensione dell'improvvisazione; anzi ogni passaggio è collaudato e l'affiatamento fra i membri, i cui ruoli sono rigorosamente definiti, assicura fluidità e carattere alla proposta. Sui frenetici ritmi macinati da Moppa Elliott e Kevin Shea s'inseriscono gli altrettanto frenetici spazi solistici intrecciati dall'agguerrita front line: la debordante tromba di Peter Evans e il tenore, inaspettatamente più controllato, di Jon Irabagon.
Subito dopo la bavarese Monika Roscher, inespressiva nelle brevi sortite come cantante e chitarrista, si è invece imposta nella veste di leader della sua giovane big band. Gli arrangiamenti, a metà strada fra un aggiornato mainstream e un solido minimalismo, memori più di Mathias Rüegg che di Gil Evans, hanno messo in evidenza le sezioni dei fiati, compatte nelle progressioni e con qualche elemento di valore. Sufficientemente incisiva la sezione ritmica. Le potenzialità indubbie di questa formazione, che vanta già al suo attivo un CD per la Enja, Failure in Wonderland, meritano di acquistare una più corposa sintesi espressiva.
Uno dei concerti decentrati si è svolto, per il nono anno consecutivo, a Vipiteno in un capannone dell'industria Prinoth, che produce seggiovie, funivie, gatti delle nevi... Quest'anno il solista ospitato nell'ampio locale dotato di un'ottima acustica era Richard Galliano. Come si fa a pensare che il fisarmonicista francese possa evitare la routine proponendo da decenni sempre gli stessi notissimi cavalli di battaglia? Si tratta di un "classico" indiscutibile, si dirà, dal quale però non è lecito aspettarsi emozioni nuove. Eppure a Vipiteno la classe dello strumentista ha garantito non solo il virtuosismo tecnico, ma anche un'evidente partecipazione emotiva, riuscendo a donare variazioni eccentriche, enfasi dinamiche, vibrazioni inaspettate, fra possenti impennate e languidi smorzamenti.
Nel repertorio comunque (fra suoi original ben noti e omaggi a Dave Brubeck, Édith Piaf, Hermeto Pascoal, Domenico Modugno, Bach e Satie, l'immancabile Piazzolla...) ha spiccato anche una composizione eseguita per la prima volta in solo: le Sei danze rumene di Béla Bartók. Non semplicemente un concerto godibile dunque, ma grande musica senza confini da parte di un interprete autentico capace appunto di sconfiggere ogni volta la routine.
C'era attesa, tre serate dopo al Park Hotel Laurin, per la prova di un altro fisarmonicista francese (quasi a riprova della fortuna che questo strumento e questa scuola stanno vivendo): il trentaduenne nizzardo Vincent Peirani, a capo del trio Thrill Box (col pianista tedesco Michael Wollny e Michel Benita al contrabbasso) come già nell'omonimo CD edito quest'anno dalla Act.
Nel mondo musicale di Peirani, più vicino a quello di Jean-Louis Matinier che a quello di Galliano, qualsiasi componente presa a riferimento (jazz, colta, etno, folk...) viene decantata e interiorizzata in una conduzione lenta e intimista, in una visione ritmica distesa, in una macerata esasperazione melodica. Eleganza e distacco dunque, sottolineati anche dall'espressione sorniona e mai affaticata del volto del fisarmonicista, hanno prevalso su poche evoluzioni più esuberanti e accese.
Il momento più sperimentale, per le sonorità eccentriche e lamentose, per il fraseggio concitato, è risultata l'introduzione al monkiano "I Mean You" in duo con Wollny. Della diteggiatura di quest'ultimo, nell'arco dell'intero concerto, si è potuto apprezzare l'anomala e nervosa concezione dinamica, purtroppo penalizzata dalla scadente sonorità/amplificazione del mezza coda messogli a disposizione. L'esperto Benita si è invece distinto per il sound ampio e avvolgente del suo pizzicato.
Il primo degli otto concerti ambientati al Museion (il Museo di arte moderna e contemporanea di Bolzano), tutti dedicati alle esperienze più attuali e giovani del jazz americano ed europeo, ha ospitato il newyorkese September Trio, pilotato dal batterista Harris Eisenstadt e completato da Angelica Sanchez al piano e Ellery Eskelin al tenore. Il repertorio di original era tratto in buona parte dal CD The Destructive Element, pubblicato recentemente dalla Clean Feed.
Purtroppo l'acustica riverberante della sala non ha permesso di cogliere tutte le sfumature di un jazz prevalentemente pacato e pensoso, dagli insinuanti risvolti melodici, con rari sussulti dinamici. Tutti i membri del trio, pur dotati di forti personalità (soprattutto Eskelin, del quale è emersa la sonorità screziata e confidenziale) erano impegnati in una pronuncia misurata, tenuta sempre sotto controllo; tuttavia un certo distacco emotivo ha impedito alla performance di prendere quota, di raggiungere uno spessore e uno slancio del tutto coinvolgenti.
Il chitarrista Kalle Kalima, presentato in collaborazione con Bolzano Cinema, è invece originario della Finlandia, ma da tempo risiede a Berlino dove ha stretto un sodalizio assieme a Oliver Potratz e Oliver Steidle, rispettivamente contrabbasso e batteria, per formare il trio Klima Kalima. Dal recente CD Finn Noir - ulteriore capitolo della sua ricerca dedicata alle musice per film, dopo Some Kubricks of Blood e Out to Lynch - sono stati tratti gli original ispirati a vari registi del cinema finlandese. Se da un punto di vista strumentale i tre giovani jazzisti, pur ferrati, non hanno palesato nulla di particolarmente nuovo, la loro motivazione ha dato corpo a brani di vivace concretezza, affermativi ma non privi di leggiadre inflessioni ironiche, giocati con ricchezza dinamica su frequenti cambi di direzione.
La sera del primo luglio, a Bolzano, si sono svolti due appuntamenti concomitanti, un po' disturbati da una debole pioggia; siamo riusciti a seguire alcuni brani di entrambi, traendone impressioni ovviamente parziali: il Perfectrio di Roberto Gatto in Piazza Walther e il quartetto tedesco Schmittmenge Meier nella periferica sede dell'Unione del Commercio e Turismo dell'Alto Adige.
Quest'ultimo, composto da giovani elementi provenienti da Colonia e Berlino, ha al suo attivo un CD per El Gallo Rojo, R.E.A.L.. I temi ben disegnati hanno lasciato il posto a un tipo di interplay e a spunti solistici d'impronta classicamente free. I punti di forza più innovativi si sono rivelati indubbiamente il fantasioso trombettista Matthias Schriefl e il batterista Christian Lillinger, dal drumming nodoso e sussultante, mentre il trombonista Gerhard Gschlößl e il contrabbassista Robert Landfermann, pur solidi e propositivi, hanno evidenziato una pronuncia più risaputa appunto nella più rigorosa tradizione free.
Quanto al Perfectrio di Gatto, che avremo forse modo di ascoltare anche in altri festival, dopo un rodaggio di una quindicina di concerti ha dimostrato una compattezza e un'identità spiccate. La coesione raggiunta fra il leader e i suoi partner (il granitico Pierpaolo Ranieri al basso elettrico e l'immaginifico Alfonso Santimone al piano acustico ed elettrico) ha perseguito un jazz di qualità e senza tempo nella sua impostazione esuberante e declamatoria, non troppo problematica. Un repertorio composito, che a fianco di original ha incluso classici di Ellington, di Monk e il contemplativo "Mood" di Ron Carter - Miles Davis, ha visto un trattamento che ha alternato evanescenti, reiterati orientalismi a esplicite progressioni di un aggiornato funky-fusion.
Non sono da sottovalutare infine alcune proposte "di contorno," di sano intrattenimento: per esempio la cantante Filippa Gojo e il pianista Sebastian Scobel che, nei concerti aperitivo al Park Hotel Laurin, hanno reinterpretato con buon gusto e smaliziata naturalezza un campionario di canzoni pop. La svizzera Fischermanns Orchestra, in diverse sedi nelle due giornate d'apertura, ha invece profuso i gioiosi e cadenzati accenti di un jazz comunicativo - messi in evidenza in Conducting Sessions - che attinge a diverse tradizioni etniche attualizzandole con freschezza d'intenti.
Foto di Christian Ciardi.
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