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Stefano Bollani con Alberto Riva: Parliamo di musica
Bydi Stefano Bollani con Alberto Riva
Mondadori, Milano 2012
PP. 138
Bollani non è uno scrittore esordiente. Si era già confrontato con il romanzo breve e con il racconto storico in due suoi libri, rispettivamente La sindrome di Brontolo e L'america di Renato Carosone. Insieme a David Riondino e Mirko Guerrini, ha messo insieme una serie di parodie di generi vari ne Lo Zibaldone del Dottor Djembe, volume ispirato all'omonimo programma radiofonico condotto dai tre.
Questo Parliamo di musica è diverso. Uscito per la Collana Ingrandimenti di Mondadori, dichiara il suo intento sin dal titolo, che più programmatico non poteva essere. Qui Bollani rinuncia alla fiction per chiedersi se e come sia possibile fare un discorso sulla musica.
Il coautore del volume è Alberto Riva, già curatore, tra l'altro, dell'autobiografia di Enrico Rava ("Note Necessarie").
Fin dalla premessa, Bollani avverte: la musica è un linguaggio e come tale è una convenzione. Che un accordo o una determinata concatenazione di accordi siano allegri oppure tristi siamo noi a deciderlo, in base al bagaglio culturale, agli archetipi che ci portiamo appresso. Temi che sarebbero stati cari allo studioso Furio Jesi, che non a caso si è interrogato sul mito in musica.
Una tesi di fondo sembra attraversare il libro: la musica deve essere prima esperita, poi se ne deve studiare la teoria. Meglio: la teoria, nella musica come in ogni altro sapere, deve servire a qualcosa, dev'essere spendibile nel concreto e non esistere come un codice escludente, per iniziati. Non serve scomodare Foucault per condividere l'impostazione del problema. L'autore si domanda a cosa serva saper scrivere un do, se poi non si sa che suono abbia quel do. E' come se un bambino imparasse a dire mamma senza sapere chi è la mamma. Questo è il paradosso della didattica musicale, così negletta in Italia.
Alll'inizio del volume, Bollani passa in rassegna i parametri fondamentali di cui è fatta la musica, qualsiasi musica: il ritmo, l'armonia, la melodia, il timbro. Il pianista cerca così di articolare il discorso passando, senza salti troppo arditi, da un registro più discorsivo ad uno più tecnico. Si prenda con le pinze l'inciso "senza salti troppo arditi," perché l'autore di questa recensione è un musicista e rischia di dare per scontati concetti che magari non lo sono. Ci vorrebbe una controprova.
Ampio spazio è dedicato agli aneddoti, salienti o esilaranti, a seconda dei casi: l'incontro con Chick Corea, il lavoro con Riccardo Chailly e l'interpretazione della partitura, Konitz che non dice quale brano sta per attaccare e altri episodi che è saggio non anticipare, per evitare di rovinare con un riassunto la freschezza del racconto di Bollani.
Non infrequenti sono i riferimenti al cinema, alla letteratura, alla storia del nostro Paese. Tutti impiegati per costruire quel discorso sulla musica cui s'accennava sopra: La famosa frase di Mario Moretti, raccolta da Sergio Zavoli, secondo la quale "è difficile, in un paese come il nostro, abituato al melodramma, spiegare la tragedia"; la coincidenza di medium e messaggio di cui parlava Marshall McLuhan. E poi Woody Allen, Giulio Cortázar, Mário de Andrade e via enumerando.
Tra un bel ritratto di Frank Zappa (vero eroe del postmoderno, cui è accostata un'altrettanto bella descrizione dell'arte di Elio) ed una manciata di dischi cult, un punto merita di essere citato in conclusione. Bollani insiste, a ragione, sulla necessità di superare la dicotomia colto-popolare: invenzione troppo recente, che ha diviso la musica in due universi quasi incomunicanti.
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